Cina, l'Occidente d'America
di Antonio Donno
Ideazione di maggio-giugno 2006

In un recente articolo Robert D. Kaplan ha sostenuto che le attuali relazioni tra Stati Uniti e Cina non potranno che evolversi verso un confronto a tutto campo che si configurerà come una nuova guerra fredda. Kaplan analizzava puntualmente le ragioni economiche, militari e geopolitiche di questo prossimo confronto, la cui durata ed il cui impatto sul sistema politico internazionale non sono facilmente prevedibili. In sostanza, dopo la conquista del potere da parte di Mao Tse-Tung nel 1949 e la nascita della Cina comunista, le relazioni tra gli Stati Uniti e la Cina erano divenute altamente conflittuali, anche se l’intermezzo della “politica cinese” di Nixon e Kissinger aveva segnato un promettente riavvicinamento, seppur in chiave anti-sovietica. La perdita della Cina, nel 1949, tuttavia, aveva rappresentato uno shock per il mondo politico americano e soprattutto per i repubblicani, che accusarono violentemente Truman, il Dipartimento di Stato ed una certa lobby filo-comunista al suo interno di aver tradito la causa della lotta al comunismo, avendo perso in Cina, a favore dei comunisti, un’immensa regione geopoliticamente cruciale nella guerra fredda in Asia. Ora, l’articolo di Kaplan non faceva altro che analizzare le conseguenze attuali della “perdita della Cina” del 1949. Dopo le follie del maoismo, che avevano ridotto allo stremo quell’immenso paese, e dopo il cauto riavvicinamento tra Cina e Stati Uniti ai tempi di Nixon – che tuttavia non aveva prodotto alcun cambiamento nella struttura del potere politico e dell’economia cinese – da Deng Xiaoping in poi la Cina aveva imboccato una forma tutta nazionale di sviluppo capitalistico, ponendosi di fatto come un competitore degli Stati Uniti. Secondo Kaplan, «[…] la Cina rappresenta la principale minaccia di tipo convenzionale per l’imperium liberale dell’America»1.
Nonostante la frattura intervenuta nel 1949, l’interesse degli Stati Uniti per la Cina è sempre stato molto grande. Ragioni economiche, sostenute da forti impulsi ideologici, hanno spinto nel tempo i governi americani ed una parte considerevole del mondo economico e della stessa opinione pubblica degli Stati Uniti a considerare la Cina, posta al di là dell’Oceano Pacifico, di fronte alle coste occidentali del paese nord-americano, il naturale prolungamento dell’espansione di quella razza bianca, anglosassone e protestante “destinata”, nella sua avanzata verso Occidente, a portare la civiltà. Il movimento verso Occidente era, dunque, il naturale itinerario della civiltà, come teorizzarono con chiarezza molti pubblicisti americani dell’Ottocento. Alle spalle, ad Oriente, gli americani si lasciavano l’Europa, il continente delle ingiustizie, dei soprusi, dell’oppressione. La libertà era individuata nel moto verso Occidente, al di là dell’Atlantico, sul suolo del Nord-America, e poi verso l’interno, ad attraversare tutto il continente, fino a giungere sulle sponde del Pacifico. Qui il destino manifesto della razza bianca, anglosassone e protestante avrebbe dovuto concludere il suo cammino virtuoso, dopo aver gettato le fondamenta di «[…] una libera, illuminata, […] grande Nazione», degna di «[…] dare all’umanità il nuovo, magnanimo esempio di un Popolo sempre guidato da eccelsa giustizia e benevolenza. […] E può accadere che la Provvidenza non abbia collegato la felicità permanente di una Nazione alle sue virtù?». Così George Washington affermava nel suo messaggio d’addio al popolo americano, a conclusione del suo secondo mandato presidenziale. La questione dell’“esempio” apparve subito il nodo centrale nel dibattito sulla possibilità/necessità di esportare i principi della democrazia americana, prima sul continente, poi al di là degli oceani. Ed il concetto di “imperium liberale”, richiamato da Kaplan ma presente nella pubblicistica politica americana dell’Ottocento, si collegava al primo perfettamente.

Alle origini dell’imperium liberale
In realtà, i due concetti non erano intesi come antinomici. Per “imperium liberale” non si alludeva affatto all’“impero” nel senso classico del termine; anzi, il contrario. James Madison, in uno dei capitoli più famosi dei Federalist Papers – il n. 10 – poneva con estrema chiarezza l’accento sulla necessità che la Repubblica americana avesse una grande estensione, perché la grandezza territoriale avrebbe rafforzato il pluralismo dei soggetti politici, delle proposte politiche, del dibattito, cioè della democrazia partecipativa. «Ampliate la zona d’azione – affermava Madison nel 1787 – ed introducete una maggiore varietà di partiti e d’interessi, e renderete meno probabile l’esistenza di una maggioranza che, in nome di un comune interesse, possa agire scorrettamente nei riguardi dei diritti degli altri cittadini […]».
Occidente/libertà. Il movimento verso Occidente era il movimento verso la libertà e verso forme più alte di convivenza civile. Per i Founding Fathers americani, nessuno escluso, era ovvia la constatazione che il cammino della civiltà si dirigesse verso Occidente, che l’America, con le sue istituzioni, fosse divenuta – e lo sarebbe stata ancor più nel futuro – il centro della civiltà e che, infine, come affermò Benjamin Franklin, «è qui una comune osservazione che la nostra causa è la causa di tutta l’umanità, e che noi stiamo combattendo per la sua libertà».
Sia negli scritti dei Founding Fathers che in quelli dei pubblicisti politici del tempo lo sviluppo delle istituzioni repubblicane americane era strettamente connesso con l’idea diffusa che un “destino manifesto” di natura provvidenziale fosse alla base dell’espansione continentale e che la giustificasse in termini morali, politici, economici. Colui che coniò l’espressione manifest destiny nel 1845, l’avvocato e giornalista newyorchese John O’Sullivan, scrivendo entusiasticamente a proposito dell’annessione del Texas, ebbe a sollecitare gli americani ad opporsi a tutte quelle forze straniere che intendevano interferire nel «[…] nostro grandioso sviluppo […] opponendosi a quel manifesto destino che ci porta ad espanderci e popolare il continente che la Provvidenza ci ha assegnato per il libero sviluppo dei milioni di individui che ogni anno vi si moltiplicano».

L’incontro delle razze e lo sviluppo del Pacifico
Intorno alla metà del secolo iniziò a diffondersi una concezione più estesa del “manifest destiny”, in linea con la consapevolezza della missione democratica degli Stati Uniti nel mondo. Del resto, buona parte della pubblicistica americana dell’Ottocento e le stesse concezioni dei Founding Fathers circa la bontà delle istituzioni americane come esempio per l’umanità erano intrinsecamente pervase da uno spirito missionario. Non deve indurre in inganno il rifiuto, ripetuto ostinatamente, dell’Europa. L’Europa era ormai considerata il punto di transito dell’itinerario della civiltà, in rotta sempre più verso Occidente. L’Europa era il passato, il cammino della civiltà guardava al futuro ed il futuro era una linea immaginaria che si spostava progressivamente ad Ovest, al di là dell’Atlantico, sul continente nord-americano in direzione della linea del Pacifico. Il senatore del Missouri, Thomas H. Benton, fu uno dei primi ad individuare nel Pacifico il centro del futuro commercio americano e nei popoli asiatici che si affacciavano su quell’oceano gli interlocutori dei traffici americani. In un discorso del 1846 ebbe a dire: «Gli asiatici orientali, che ne saranno i principali clienti, sono più numerosi dei nostri clienti dell’Europa occidentale; i traffici con gli asiatici sono più vantaggiosi ed essere in lite con loro è meno pericoloso […]». Ma il discorso del senatore Benton è ancora più importante perché alludeva alla formazione di un nuovo centro della civiltà mondiale, che non aveva più l’Atlantico come perno geopolitico, ma il Pacifico. Benton riteneva che l’arrivo «[…] della razza caucasica, o razza bianca, sulla costa occidentale dell’America […]» fosse un evento rivoluzionario nella storia dell’umanità. Partendo dall’Asia occidentale – questo era il ragionamento di Benton – la razza bianca si è spostata in Europa, poi ha superato l’Atlantico e ha riempito il Nord-America, giungendo sulla linea del Pacifico e guardando con fiducia alla sua espansione nell’Asia orientale, abitata da quella che Benton definiva «la razza mongola, o gialla […]», una volta all’apice della civiltà umana, ora in stato letargico, ma di molto superiore alla razza etiope, a quella malese e a quella indio-americana. I gialli, dunque, hanno grandi capacità, in considerazione della loro millenaria civiltà, e ottima predisposizione a collaborare con i bianchi. Così, il nuovo centro della civiltà mondiale avrà come perno geopolitico il Pacifico, in cui le due razze si incontreranno e collaboreranno, anche se non su un piede di parità.

Il concetto di Occidente scivola verso il Pacifico
William H. Seward, politico influentissimo, senatore dello Stato di New York dal 1848 al 1860, poi segretario di Stato di Lincoln e Andrew Johnson dal 1865 al 1868, propugnatore di una delle più brillanti operazioni della geopolitica statunitense con l’acquisto dell’Alaska dalla Russia nel 1867 (esempio concreto del movimento del modello americano verso Occidente, in direzione dell’Asia orientale), parlando della California, in un discorso dell’11 marzo 1850, come la frontiera più avanzata del movimento verso Occidente della civiltà bianca, anglosassone e protestante, momentaneamente assestatosi sulle coste americane del Pacifico, scrisse: «Gli Stati atlantici [gli Stati europei che si affacciano sull’Atlantico], attraverso la loro affinità e simpatie commerciali, sociali e politiche, stanno potentemente rinnovando i governi e le costituzioni sociali dell’Europa e dell’Africa. Gli Stati pacifici [gli Stati bianchi che si affacciano sul Pacifico] devono necessariamente svolgere le stesse benefiche e sublimi funzioni in Asia. Se allora il popolo americano resterà una nazione unita, la matura civiltà dell’Occidente […], nel suo corso circolare attraverso il mondo di nuovo si incontrerà e mescolerà con la declinante civiltà dell’Oriente sul nostro libero suolo e, a rendere felice la terra, sorgerà una nuova e più perfetta civiltà, sotto il dominio delle nostre sacre e benefiche istituzioni democratiche».
Questo concetto fu riaffermato, nel 1853, in un discorso dal significativo titolo The Destiny of America: «[…] I confini della Repubblica Federale così peculiarmente costituita si estenderanno tanto che essa saluterà il sole quando toccherà il Tropico e quando manderà i suoi gelidi raggi verso il circolo polare, ed includerà isole distanti in ambedue gli oceani». La popolazione americana si accrescerà sino a contare centinaia di milioni di uomini; la ricchezza ed il commercio americani si espanderanno e l’influenza politica degli Stati Uniti, di conseguenza, si diffonderà in ogni parte del mondo, così che, inevitabilmente, «l’umanità giungerà a riconoscere in noi i successori di quelle poche grandi nazioni che hanno alternativamente giocato un ruolo egemone nel mondo […]». L’Estremo Oriente, ed in esso la Cina, non sono esplicitamente citati, ma le prospettive disegnate da Seward sono molto chiare.
Il concetto di Occidente, dunque, veniva a spostarsi verso il Pacifico ed al di là dello stesso. Il West americano era divenuto il centro della produzione e della ricchezza, era il “Grande West”, ma la marcia verso Occidente non poteva cessare. Jesup W. Scott fu, ai suoi tempi, il più importante studioso del West americano, ma la conclusione di uno dei suoi articoli, del 1853, non lasciava dubbi sulle direttrici di marcia della civiltà americana: «L’immaginazione non può figurarsi nulla di più grandioso e imponente di questa marcia dell’umanità verso Occidente per entrare in possesso del “più glorioso impero di tutti i tempi”». Qualche anno dopo, nel 1859, Scott precisava il suo pensiero. Il movimento del ramo caucasico della razza umana, diretto verso Occidente, ha raggiunto il Nuovo Mondo, costituendo «[…] il fenomeno più grandioso della storia». Il Nord-America è il polo d’attrazione sia per i popoli dell’Europa che per quelli dell’Asia. In particolare, «[…] gli asiatici dell’Estremo Oriente sono coltivatori e artigiani industriosi e geniali». La qualità di “industriosità” attribuita agli asiatici, ma, come vedremo, in specifico, ai cinesi, è molto importante. L’Estremo Oriente è il punto di approdo della marcia della civiltà occidentale, che ha nelle istituzioni e nel commercio americani il suo modello universale: «L’Asia orientale verrà raggiunta passando per occidente attraverso una rotta di cui possediamo la chiave», affermava Thomas H. Benton in un discorso del 1854 a proposito della costruzione della ferrovia transcontinentale.
La guerra ispano-americana del 1898 fu il turning point della politica estera americana. La stampa americana ospitò un profluvio di interventi pro e contro la guerra con la Spagna. Ma è interessante notare come molti commentatori politici interpretarono la guerra come il primo passo verso uno slancio decisivo al di là del Pacifico, nell’Estremo Oriente. La conquista delle Filippine dalla Spagna fu letta come la realizzazione del “destino manifesto”, da una parte, e come tappa geopoliticamente fondamentale nell’espansione dell’egemonia americana nell’Estremo Oriente, dall’altra. Agli esordi del nuovo secolo, dopo il successo della guerra ispano-americana, sull’onda di quella visione del mondo che poi fu definita darwinismo sociale, il tema dell’impero, nel significato che si è dato nelle pagine precedenti, fu consacrato in un libro di Brooks Adams, discendente della illustre famiglia che aveva dato il secondo ed il sesto presidente degli Stati Uniti. Adams, in The New Empire, dopo aver ribadito che «il centro dell’energia si è trasferito dall’Europa in America», si faceva portavoce della cultura positivistica del tempo affermando che «la supremazia americana è stata resa possibile mediante la scienza applicata» e che «niente ha mai raggiunto l’efficienza e la potenza dell’amministrazione delle grandi corporations americane». Poi passava a delineare la posizione e le prospettive degli Stati Uniti nel sistema politico internazionale, con particolare riguardo alla competizione con le potenze del tempo nell’area dell’Asia-Pacifico: «Con il completamento del canale di Panama tutta l’America centrale verrà a far parte del nostro sistema. Ci siamo estesi verso l’Asia, abbiamo attratto a noi i frammenti dei domini spagnoli [le Filippine], e raggiungendo la Cina abbiamo contrastato l’avanzata della Russia e della Germania e in un territorio in cui, fino a ieri, non si pensava avremmo potuto mettere piede». Ma ciò che colpisce nel ragionamento di Adams è il salto di qualità dalle generiche affermazioni dei precedenti commentatori sulla forza propulsiva del modello americano come modello universale nel suo movimento verso Occidente, e cioè verso l’altra sponda del Pacifico, alle specifiche considerazioni di carattere economico e, nello stesso tempo, geopolitico che reggevano gli equilibri del sistema politico-economico internazionale e che avrebbero potuto indurre la potenza americana, qualora se ne fosse verificata la necessità, a nuove scelte strategiche.

L’incontro con la Cina
Dunque, l’attenzione verso la Cina ha rappresentato una costante del mondo politico, economico, giornalistico americano per tutto l’Ottocento. Sostenuta dal potente mito del manifest destiny, l’idea del movimento della civiltà bianca, anglosassone e protestante, che ora si identificava con gli Stati Uniti, in direzione occidentale portava necessariamente a guardare al di là del Pacifico verso l’Estremo Oriente e, in particolare, verso la Cina. Molti anni dopo, nel 1936, poco prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, ed in conseguenza del pericolo costituito dall’espansionismo del Giappone, che nel 1931 aveva invaso la Manciuria, il generale Douglas MacArthur, che era divenuto consigliere militare per la questione delle Filippine, paventando che l’arcipelago potesse divenire preda del Giappone, proponeva un’analisi assai acuta del ruolo degli Stati Uniti in quell’immensa regione che era l’Asia-Pacifico. MacArthur partiva da un concetto assai ben consolidato nell’opinione dei commentatori americani: «A cominciare dall’antica supremazia della Cina, l’intera forza della civiltà in ascesa è stata prevalentemente esercitata in direzione dell’Occidente». Ora, il cerchio stava per chiudersi: l’Asia orientale era alla vigilia di un profonda trasformazione. MacArthur intuiva le immense potenzialità della regione: «Il popolo orientale, il clima e le risorse, perfettamente conformi ai metodi della cultura occidentale, specialmente ai metodi industriali, hanno chiaramente manifestato tutta la loro adattabilità, in almeno una nazione asiatica». Il riferimento, ovviamente, era alla Cina. Di fronte a tali potenzialità quale doveva essere il ruolo degli Stati Uniti? La risposta di MacArthur era conseguente: un ruolo egemone. Il suo ragionamento era lucido: «Tra tutte le nazioni occidentali, per la sua collocazione e per il carattere del suo rapporto con l’Estremo Oriente, nessuna è più fortunata degli Stati Uniti, data anche la posizione da essi occupata nelle isole Filippine». Qui MacArthur connetteva sapientemente vari livelli: la forza economica degli Stati Uniti, la dinamicità del suo capitalismo, la superiorità del modello americano, l’importanza geopolitica rappresentata dalle posizioni acquisite da Washington nel Pacifico, a cominciare dalle Filippine.
Accanto alla diffusa consapevolezza dell’inevitabilità della spinta propulsiva del modello americano – economico, sociale, politico – al di là del Pacifico, un considerevole numero di commentatori politici, alcuni dei quali erano buoni conoscitori della realtà cinese, propose, soprattutto nella seconda metà dell’Ottocento, un significativo ventaglio di opinioni, studi, analisi sulle relazioni sino-americane o sul ruolo degli Stati Uniti in Estremo Oriente. Una buona parte di queste analisi partiva dal presupposto che gli Stati Uniti, a differenza delle potenze europee, godesse di un particolare apprezzamento da parte dell’opinione pubblica cinese e della stessa classe dirigente dell’Impero. Questa certezza è stata ampiamente contestata da molti accurati studi del secondo dopoguerra. Secondo Michael H. Hunt, «l’idea di una relazione speciale sino-americana ha una lunga storia. Essa è stata diffusa nel Diciannovesimo secolo dagli americani presenti in Cina ed inserita nel contesto di un atteggiamento di ammirazione per gli Stati Uniti da parte dei cinesi»2. Nonostante che gli eventi del Ventesimo secolo abbiano fatto piazza pulita di questa concezione, tuttavia «[…] gli americani sono rimasti legati al mito rassicurante di un’età dell’oro creata dall’amicizia dovuta al generoso aiuto da parte americana e corrisposta dalla gratitudine di una gran parte dei cinesi»3. Come è noto, l’attività del missionariato protestante americano, spesso sostenuto da Washington, ebbe un ruolo decisivo nel diffondere questa credenza.

Il mito della special relationship
Ciò nonostante, la seconda metà del XIX secolo vide fiorire e consolidarsi questa certezza, anche se, come vedremo, non mancarono voci che la contestarono sulla base dell’analisi della realtà cinese e delle relazioni del paese con gli stranieri – americani compresi – per nulla idilliache. Comunque, l’estraneità degli Stati Uniti alle due “guerre dell’oppio” (1840 e 1856), con le loro nefaste conseguenze per l’integrità del paese a favore delle potenze europee, e l’intensa opera di assistenza sociale e religiosa da parte dei missionari americani, opera che gli americani giudicavano gradita ai cinesi: tutti questi fatti, ed altri, facevano ritenere a Washington che effettivamente si fosse stabilita una sorta di special relationship tra gli Stati Uniti e la Cina. In sostanza, per tutta la prima metà del XX secolo, fino alla presa del potere dei comunisti di Mao Tse-Tung, gli Stati Uniti hanno creduto che la Cina, per tutte le ragioni più sopra descritte, fosse una società incline ad accettare l’American way of life e potesse rappresentare una sorta di “prolungamento” in terra asiatica, se non del modello istituzionale americano, almeno dei fondamenti dell’economia capitalistica, primo, necessario passo per il trasferimento dei principi della democrazia liberale in un’immensa regione giudicata vitale per il contenimento del comunismo sovietico.
Può, oggi, l’apertura della Cina post-maoista al capitalismo rappresentare una ripresa delle speranze americane? È difficile dirlo, perché la compresenza del modello capitalistico e del totalitarismo politico comunista, con il suo ferreo controllo centralistico, impedisce di fare previsioni ottimistiche. Una cosa appare chiara: i due modelli sono incompatibili ed alla lunga potrà verificarsi uno scontro titanico in seno alla società cinese che provocherà un vero e proprio terremoto anche nel sistema politico internazionale.

 

Note
1. R. D. Kaplan, “La prossima guerra fredda”, in Fondazione Liberal, VI, 30, giugno-luglio 2005, p. 94. L’articolo, con il titolo “How We Would Fight China”, è apparso originariamente in The Atlantic Monthly, vol. 295, no. 5, June 2005.
2. M. H. Hunt, The Making of a Special Relationship: The United States and China to 1914, New York, Columbia University Press, 1983, p. 299.
3. Ibid.

Antonio Donno, professore di Storia dell’America del Nord all’Università di Lecce.

(c) Ideazione.com (2006)
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