













































































 Cina, l'Occidente d'America
 
    Cina, l'Occidente d'America In 
      un recente articolo Robert D. Kaplan ha sostenuto che le attuali relazioni 
      tra Stati Uniti e Cina non potranno che evolversi verso un confronto a tutto 
      campo che si configurerà come una nuova guerra fredda. Kaplan analizzava 
      puntualmente le ragioni economiche, militari e geopolitiche di questo prossimo 
      confronto, la cui durata ed il cui impatto sul sistema politico internazionale 
      non sono facilmente prevedibili. In sostanza, dopo la conquista del potere 
      da parte di Mao Tse-Tung nel 1949 e la nascita della Cina comunista, le 
      relazioni tra gli Stati Uniti e la Cina erano divenute altamente conflittuali, 
      anche se l’intermezzo della “politica cinese” di Nixon 
      e Kissinger aveva segnato un promettente riavvicinamento, seppur in chiave 
      anti-sovietica. La perdita della Cina, nel 1949, tuttavia, aveva rappresentato 
      uno shock per il mondo politico americano e soprattutto per i repubblicani, 
      che accusarono violentemente Truman, il Dipartimento di Stato ed una certa 
      lobby filo-comunista al suo interno di aver tradito la causa della lotta 
      al comunismo, avendo perso in Cina, a favore dei comunisti, un’immensa 
      regione geopoliticamente cruciale nella guerra fredda in Asia. Ora, l’articolo 
      di Kaplan non faceva altro che analizzare le conseguenze attuali della “perdita 
      della Cina” del 1949. Dopo le follie del maoismo, che avevano ridotto 
      allo stremo quell’immenso paese, e dopo il cauto riavvicinamento tra 
      Cina e Stati Uniti ai tempi di Nixon – che tuttavia non aveva prodotto 
      alcun cambiamento nella struttura del potere politico e dell’economia 
      cinese – da Deng Xiaoping in poi la Cina aveva imboccato una forma 
      tutta nazionale di sviluppo capitalistico, ponendosi di fatto come un competitore 
      degli Stati Uniti. Secondo Kaplan, «[…] la Cina rappresenta 
      la principale minaccia di tipo convenzionale per l’imperium liberale 
      dell’America»1.
 
      In 
      un recente articolo Robert D. Kaplan ha sostenuto che le attuali relazioni 
      tra Stati Uniti e Cina non potranno che evolversi verso un confronto a tutto 
      campo che si configurerà come una nuova guerra fredda. Kaplan analizzava 
      puntualmente le ragioni economiche, militari e geopolitiche di questo prossimo 
      confronto, la cui durata ed il cui impatto sul sistema politico internazionale 
      non sono facilmente prevedibili. In sostanza, dopo la conquista del potere 
      da parte di Mao Tse-Tung nel 1949 e la nascita della Cina comunista, le 
      relazioni tra gli Stati Uniti e la Cina erano divenute altamente conflittuali, 
      anche se l’intermezzo della “politica cinese” di Nixon 
      e Kissinger aveva segnato un promettente riavvicinamento, seppur in chiave 
      anti-sovietica. La perdita della Cina, nel 1949, tuttavia, aveva rappresentato 
      uno shock per il mondo politico americano e soprattutto per i repubblicani, 
      che accusarono violentemente Truman, il Dipartimento di Stato ed una certa 
      lobby filo-comunista al suo interno di aver tradito la causa della lotta 
      al comunismo, avendo perso in Cina, a favore dei comunisti, un’immensa 
      regione geopoliticamente cruciale nella guerra fredda in Asia. Ora, l’articolo 
      di Kaplan non faceva altro che analizzare le conseguenze attuali della “perdita 
      della Cina” del 1949. Dopo le follie del maoismo, che avevano ridotto 
      allo stremo quell’immenso paese, e dopo il cauto riavvicinamento tra 
      Cina e Stati Uniti ai tempi di Nixon – che tuttavia non aveva prodotto 
      alcun cambiamento nella struttura del potere politico e dell’economia 
      cinese – da Deng Xiaoping in poi la Cina aveva imboccato una forma 
      tutta nazionale di sviluppo capitalistico, ponendosi di fatto come un competitore 
      degli Stati Uniti. Secondo Kaplan, «[…] la Cina rappresenta 
      la principale minaccia di tipo convenzionale per l’imperium liberale 
      dell’America»1.
      Nonostante la frattura intervenuta nel 1949, l’interesse degli Stati 
      Uniti per la Cina è sempre stato molto grande. Ragioni economiche, 
      sostenute da forti impulsi ideologici, hanno spinto nel tempo i governi 
      americani ed una parte considerevole del mondo economico e della stessa 
      opinione pubblica degli Stati Uniti a considerare la Cina, posta al di là 
      dell’Oceano Pacifico, di fronte alle coste occidentali del paese nord-americano, 
      il naturale prolungamento dell’espansione di quella razza bianca, 
      anglosassone e protestante “destinata”, nella sua avanzata verso 
      Occidente, a portare la civiltà. Il movimento verso Occidente era, 
      dunque, il naturale itinerario della civiltà, come teorizzarono con 
      chiarezza molti pubblicisti americani dell’Ottocento. Alle spalle, 
      ad Oriente, gli americani si lasciavano l’Europa, il continente delle 
      ingiustizie, dei soprusi, dell’oppressione. La libertà era 
      individuata nel moto verso Occidente, al di là dell’Atlantico, 
      sul suolo del Nord-America, e poi verso l’interno, ad attraversare 
      tutto il continente, fino a giungere sulle sponde del Pacifico. Qui il destino 
      manifesto della razza bianca, anglosassone e protestante avrebbe dovuto 
      concludere il suo cammino virtuoso, dopo aver gettato le fondamenta di «[…] 
      una libera, illuminata, […] grande Nazione», degna di «[…] 
      dare all’umanità il nuovo, magnanimo esempio di un Popolo sempre 
      guidato da eccelsa giustizia e benevolenza. […] E può accadere 
      che la Provvidenza non abbia collegato la felicità permanente di 
      una Nazione alle sue virtù?». Così George Washington 
      affermava nel suo messaggio d’addio al popolo americano, a conclusione 
      del suo secondo mandato presidenziale. La questione dell’“esempio” 
      apparve subito il nodo centrale nel dibattito sulla possibilità/necessità 
      di esportare i principi della democrazia americana, prima sul continente, 
      poi al di là degli oceani. Ed il concetto di “imperium liberale”, 
      richiamato da Kaplan ma presente nella pubblicistica politica americana 
      dell’Ottocento, si collegava al primo perfettamente.
 Alle 
      origini dell’imperium liberale
 
      Alle 
      origini dell’imperium liberale
      In realtà, i due concetti non erano intesi come antinomici. Per “imperium 
      liberale” non si alludeva affatto all’“impero” nel 
      senso classico del termine; anzi, il contrario. James Madison, in uno dei 
      capitoli più famosi dei Federalist Papers – il n. 10 – 
      poneva con estrema chiarezza l’accento sulla necessità che 
      la Repubblica americana avesse una grande estensione, perché la grandezza 
      territoriale avrebbe rafforzato il pluralismo dei soggetti politici, delle 
      proposte politiche, del dibattito, cioè della democrazia partecipativa. 
      «Ampliate la zona d’azione – affermava Madison nel 1787 
      – ed introducete una maggiore varietà di partiti e d’interessi, 
      e renderete meno probabile l’esistenza di una maggioranza che, in 
      nome di un comune interesse, possa agire scorrettamente nei riguardi dei 
      diritti degli altri cittadini […]». 
      Occidente/libertà. Il movimento verso Occidente era il movimento 
      verso la libertà e verso forme più alte di convivenza civile. 
      Per i Founding Fathers americani, nessuno escluso, era ovvia la constatazione 
      che il cammino della civiltà si dirigesse verso Occidente, che l’America, 
      con le sue istituzioni, fosse divenuta – e lo sarebbe stata ancor 
      più nel futuro – il centro della civiltà e che, infine, 
      come affermò Benjamin Franklin, «è qui una comune osservazione 
      che la nostra causa è la causa di tutta l’umanità, e 
      che noi stiamo combattendo per la sua libertà».
      Sia negli scritti dei Founding Fathers che in quelli dei pubblicisti politici 
      del tempo lo sviluppo delle istituzioni repubblicane americane era strettamente 
      connesso con l’idea diffusa che un “destino manifesto” 
      di natura provvidenziale fosse alla base dell’espansione continentale 
      e che la giustificasse in termini morali, politici, economici. Colui che 
      coniò l’espressione manifest destiny nel 1845, l’avvocato 
      e giornalista newyorchese John O’Sullivan, scrivendo entusiasticamente 
      a proposito dell’annessione del Texas, ebbe a sollecitare gli americani 
      ad opporsi a tutte quelle forze straniere che intendevano interferire nel 
      «[…] nostro grandioso sviluppo […] opponendosi a quel 
      manifesto destino che ci porta ad espanderci e popolare il continente che 
      la Provvidenza ci ha assegnato per il libero sviluppo dei milioni di individui 
      che ogni anno vi si moltiplicano».
 L’incontro delle razze e lo sviluppo 
      del Pacifico
 
       
      L’incontro delle razze e lo sviluppo 
      del Pacifico
      Intorno alla metà del secolo iniziò a diffondersi una concezione 
      più estesa del “manifest destiny”, in linea con la consapevolezza 
      della missione democratica degli Stati Uniti nel mondo. Del resto, buona 
      parte della pubblicistica americana dell’Ottocento e le stesse concezioni 
      dei Founding Fathers circa la bontà delle istituzioni americane come 
      esempio per l’umanità erano intrinsecamente pervase da uno 
      spirito missionario. Non deve indurre in inganno il rifiuto, ripetuto ostinatamente, 
      dell’Europa. L’Europa era ormai considerata il punto di transito 
      dell’itinerario della civiltà, in rotta sempre più verso 
      Occidente. L’Europa era il passato, il cammino della civiltà 
      guardava al futuro ed il futuro era una linea immaginaria che si spostava 
      progressivamente ad Ovest, al di là dell’Atlantico, sul continente 
      nord-americano in direzione della linea del Pacifico. Il senatore del Missouri, 
      Thomas H. Benton, fu uno dei primi ad individuare nel Pacifico il centro 
      del futuro commercio americano e nei popoli asiatici che si affacciavano 
      su quell’oceano gli interlocutori dei traffici americani. In un discorso 
      del 1846 ebbe a dire: «Gli asiatici orientali, che ne saranno i principali 
      clienti, sono più numerosi dei nostri clienti dell’Europa occidentale; 
      i traffici con gli asiatici sono più vantaggiosi ed essere in lite 
      con loro è meno pericoloso […]». Ma il discorso del senatore 
      Benton è ancora più importante perché alludeva alla 
      formazione di un nuovo centro della civiltà mondiale, che non aveva 
      più l’Atlantico come perno geopolitico, ma il Pacifico. Benton 
      riteneva che l’arrivo «[…] della razza caucasica, o razza 
      bianca, sulla costa occidentale dell’America […]» fosse 
      un evento rivoluzionario nella storia dell’umanità. Partendo 
      dall’Asia occidentale – questo era il ragionamento di Benton 
      – la razza bianca si è spostata in Europa, poi ha superato 
      l’Atlantico e ha riempito il Nord-America, giungendo sulla linea del 
      Pacifico e guardando con fiducia alla sua espansione nell’Asia orientale, 
      abitata da quella che Benton definiva «la razza mongola, o gialla 
      […]», una volta all’apice della civiltà umana, 
      ora in stato letargico, ma di molto superiore alla razza etiope, a quella 
      malese e a quella indio-americana. I gialli, dunque, hanno grandi capacità, 
      in considerazione della loro millenaria civiltà, e ottima predisposizione 
      a collaborare con i bianchi. Così, il nuovo centro della civiltà 
      mondiale avrà come perno geopolitico il Pacifico, in cui le due razze 
      si incontreranno e collaboreranno, anche se non su un piede di parità. 
      
 Il 
      concetto di Occidente scivola verso il Pacifico
 
      Il 
      concetto di Occidente scivola verso il Pacifico
      William H. Seward, politico influentissimo, senatore dello Stato di New 
      York dal 1848 al 1860, poi segretario di Stato di Lincoln e Andrew Johnson 
      dal 1865 al 1868, propugnatore di una delle più brillanti operazioni 
      della geopolitica statunitense con l’acquisto dell’Alaska dalla 
      Russia nel 1867 (esempio concreto del movimento del modello americano verso 
      Occidente, in direzione dell’Asia orientale), parlando della California, 
      in un discorso dell’11 marzo 1850, come la frontiera più avanzata 
      del movimento verso Occidente della civiltà bianca, anglosassone 
      e protestante, momentaneamente assestatosi sulle coste americane del Pacifico, 
      scrisse: «Gli Stati atlantici [gli Stati europei che si affacciano 
      sull’Atlantico], attraverso la loro affinità e simpatie commerciali, 
      sociali e politiche, stanno potentemente rinnovando i governi e le costituzioni 
      sociali dell’Europa e dell’Africa. Gli Stati pacifici [gli Stati 
      bianchi che si affacciano sul Pacifico] devono necessariamente svolgere 
      le stesse benefiche e sublimi funzioni in Asia. Se allora il popolo americano 
      resterà una nazione unita, la matura civiltà dell’Occidente 
      […], nel suo corso circolare attraverso il mondo di nuovo si incontrerà 
      e mescolerà con la declinante civiltà dell’Oriente sul 
      nostro libero suolo e, a rendere felice la terra, sorgerà una nuova 
      e più perfetta civiltà, sotto il dominio delle nostre sacre 
      e benefiche istituzioni democratiche». 
      Questo concetto fu riaffermato, nel 1853, in un discorso dal significativo 
      titolo The Destiny of America: «[…] I confini della Repubblica 
      Federale così peculiarmente costituita si estenderanno tanto che 
      essa saluterà il sole quando toccherà il Tropico e quando 
      manderà i suoi gelidi raggi verso il circolo polare, ed includerà 
      isole distanti in ambedue gli oceani». La popolazione americana si 
      accrescerà sino a contare centinaia di milioni di uomini; la ricchezza 
      ed il commercio americani si espanderanno e l’influenza politica degli 
      Stati Uniti, di conseguenza, si diffonderà in ogni parte del mondo, 
      così che, inevitabilmente, «l’umanità giungerà 
      a riconoscere in noi i successori di quelle poche grandi nazioni che hanno 
      alternativamente giocato un ruolo egemone nel mondo […]». L’Estremo 
      Oriente, ed in esso la Cina, non sono esplicitamente citati, ma le prospettive 
      disegnate da Seward sono molto chiare. 
      Il concetto di Occidente, dunque, veniva a spostarsi verso il Pacifico ed 
      al di là dello stesso. Il West americano era divenuto il centro della 
      produzione e della ricchezza, era il “Grande West”, ma la marcia 
      verso Occidente non poteva cessare. Jesup W. Scott fu, ai suoi tempi, il 
      più importante studioso del West americano, ma la conclusione di 
      uno dei suoi articoli, del 1853, non lasciava dubbi sulle direttrici di 
      marcia della civiltà americana: «L’immaginazione non 
      può figurarsi nulla di più grandioso e imponente di questa 
      marcia dell’umanità verso Occidente per entrare in possesso 
      del “più glorioso impero di tutti i tempi”». Qualche 
      anno dopo, nel 1859, Scott precisava il suo pensiero. Il movimento del ramo 
      caucasico della razza umana, diretto verso Occidente, ha raggiunto il Nuovo 
      Mondo, costituendo «[…] il fenomeno più grandioso della 
      storia». Il Nord-America è il polo d’attrazione sia per 
      i popoli dell’Europa che per quelli dell’Asia. In particolare, 
      «[…] gli asiatici dell’Estremo Oriente sono coltivatori 
      e artigiani industriosi e geniali». La qualità di “industriosità” 
      attribuita agli asiatici, ma, come vedremo, in specifico, ai cinesi, è 
      molto importante. L’Estremo Oriente è il punto di approdo della 
      marcia della civiltà occidentale, che ha nelle istituzioni e nel 
      commercio americani il suo modello universale: «L’Asia orientale 
      verrà raggiunta passando per occidente attraverso una rotta di cui 
      possediamo la chiave», affermava Thomas H. Benton in un discorso del 
      1854 a proposito della costruzione della ferrovia transcontinentale.
      La guerra ispano-americana del 1898 fu il turning point della politica estera 
      americana. La stampa americana ospitò un profluvio di interventi 
      pro e contro la guerra con la Spagna. Ma è interessante notare come 
      molti commentatori politici interpretarono la guerra come il primo passo 
      verso uno slancio decisivo al di là del Pacifico, nell’Estremo 
      Oriente. La conquista delle Filippine dalla Spagna fu letta come la realizzazione 
      del “destino manifesto”, da una parte, e come tappa geopoliticamente 
      fondamentale nell’espansione dell’egemonia americana nell’Estremo 
      Oriente, dall’altra. Agli esordi del nuovo secolo, dopo il successo 
      della guerra ispano-americana, sull’onda di quella visione del mondo 
      che poi fu definita darwinismo sociale, il tema dell’impero, nel significato 
      che si è dato nelle pagine precedenti, fu consacrato in un libro 
      di Brooks Adams, discendente della illustre famiglia che aveva dato il secondo 
      ed il sesto presidente degli Stati Uniti. Adams, in The New Empire, dopo 
      aver ribadito che «il centro dell’energia si è trasferito 
      dall’Europa in America», si faceva portavoce della cultura positivistica 
      del tempo affermando che «la supremazia americana è stata resa 
      possibile mediante la scienza applicata» e che «niente ha mai 
      raggiunto l’efficienza e la potenza dell’amministrazione delle 
      grandi corporations americane». Poi passava a delineare la posizione 
      e le prospettive degli Stati Uniti nel sistema politico internazionale, 
      con particolare riguardo alla competizione con le potenze del tempo nell’area 
      dell’Asia-Pacifico: «Con il completamento del canale di Panama 
      tutta l’America centrale verrà a far parte del nostro sistema. 
      Ci siamo estesi verso l’Asia, abbiamo attratto a noi i frammenti dei 
      domini spagnoli [le Filippine], e raggiungendo la Cina abbiamo contrastato 
      l’avanzata della Russia e della Germania e in un territorio in cui, 
      fino a ieri, non si pensava avremmo potuto mettere piede». Ma ciò 
      che colpisce nel ragionamento di Adams è il salto di qualità 
      dalle generiche affermazioni dei precedenti commentatori sulla forza propulsiva 
      del modello americano come modello universale nel suo movimento verso Occidente, 
      e cioè verso l’altra sponda del Pacifico, alle specifiche considerazioni 
      di carattere economico e, nello stesso tempo, geopolitico che reggevano 
      gli equilibri del sistema politico-economico internazionale e che avrebbero 
      potuto indurre la potenza americana, qualora se ne fosse verificata la necessità, 
      a nuove scelte strategiche.
      
       L’incontro con la Cina
 
       
      L’incontro con la Cina
      Dunque, l’attenzione verso la Cina ha rappresentato una costante del 
      mondo politico, economico, giornalistico americano per tutto l’Ottocento. 
      Sostenuta dal potente mito del manifest destiny, l’idea del movimento 
      della civiltà bianca, anglosassone e protestante, che ora si identificava 
      con gli Stati Uniti, in direzione occidentale portava necessariamente a 
      guardare al di là del Pacifico verso l’Estremo Oriente e, in 
      particolare, verso la Cina. Molti anni dopo, nel 1936, poco prima dello 
      scoppio della seconda guerra mondiale, ed in conseguenza del pericolo costituito 
      dall’espansionismo del Giappone, che nel 1931 aveva invaso la Manciuria, 
      il generale Douglas MacArthur, che era divenuto consigliere militare per 
      la questione delle Filippine, paventando che l’arcipelago potesse 
      divenire preda del Giappone, proponeva un’analisi assai acuta del 
      ruolo degli Stati Uniti in quell’immensa regione che era l’Asia-Pacifico. 
      MacArthur partiva da un concetto assai ben consolidato nell’opinione 
      dei commentatori americani: «A cominciare dall’antica supremazia 
      della Cina, l’intera forza della civiltà in ascesa è 
      stata prevalentemente esercitata in direzione dell’Occidente». 
      Ora, il cerchio stava per chiudersi: l’Asia orientale era alla vigilia 
      di un profonda trasformazione. MacArthur intuiva le immense potenzialità 
      della regione: «Il popolo orientale, il clima e le risorse, perfettamente 
      conformi ai metodi della cultura occidentale, specialmente ai metodi industriali, 
      hanno chiaramente manifestato tutta la loro adattabilità, in almeno 
      una nazione asiatica». Il riferimento, ovviamente, era alla Cina. 
      Di fronte a tali potenzialità quale doveva essere il ruolo degli 
      Stati Uniti? La risposta di MacArthur era conseguente: un ruolo egemone. 
      Il suo ragionamento era lucido: «Tra tutte le nazioni occidentali, 
      per la sua collocazione e per il carattere del suo rapporto con l’Estremo 
      Oriente, nessuna è più fortunata degli Stati Uniti, data anche 
      la posizione da essi occupata nelle isole Filippine». Qui MacArthur 
      connetteva sapientemente vari livelli: la forza economica degli Stati Uniti, 
      la dinamicità del suo capitalismo, la superiorità del modello 
      americano, l’importanza geopolitica rappresentata dalle posizioni 
      acquisite da Washington nel Pacifico, a cominciare dalle Filippine. 
      Accanto alla diffusa consapevolezza dell’inevitabilità della 
      spinta propulsiva del modello americano – economico, sociale, politico 
      – al di là del Pacifico, un considerevole numero di commentatori 
      politici, alcuni dei quali erano buoni conoscitori della realtà cinese, 
      propose, soprattutto nella seconda metà dell’Ottocento, un 
      significativo ventaglio di opinioni, studi, analisi sulle relazioni sino-americane 
      o sul ruolo degli Stati Uniti in Estremo Oriente. Una buona parte di queste 
      analisi partiva dal presupposto che gli Stati Uniti, a differenza delle 
      potenze europee, godesse di un particolare apprezzamento da parte dell’opinione 
      pubblica cinese e della stessa classe dirigente dell’Impero. Questa 
      certezza è stata ampiamente contestata da molti accurati studi del 
      secondo dopoguerra. Secondo Michael H. Hunt, «l’idea di una 
      relazione speciale sino-americana ha una lunga storia. Essa è stata 
      diffusa nel Diciannovesimo secolo dagli americani presenti in Cina ed inserita 
      nel contesto di un atteggiamento di ammirazione per gli Stati Uniti da parte 
      dei cinesi»2. Nonostante che gli eventi del Ventesimo secolo abbiano 
      fatto piazza pulita di questa concezione, tuttavia «[…] gli 
      americani sono rimasti legati al mito rassicurante di un’età 
      dell’oro creata dall’amicizia dovuta al generoso aiuto da parte 
      americana e corrisposta dalla gratitudine di una gran parte dei cinesi»3. 
      Come è noto, l’attività del missionariato protestante 
      americano, spesso sostenuto da Washington, ebbe un ruolo decisivo nel diffondere 
      questa credenza. 
 Il mito della special relationship
 
      Il mito della special relationship
      Ciò nonostante, la seconda metà del XIX secolo vide fiorire 
      e consolidarsi questa certezza, anche se, come vedremo, non mancarono voci 
      che la contestarono sulla base dell’analisi della realtà cinese 
      e delle relazioni del paese con gli stranieri – americani compresi 
      – per nulla idilliache. Comunque, l’estraneità degli 
      Stati Uniti alle due “guerre dell’oppio” (1840 e 1856), 
      con le loro nefaste conseguenze per l’integrità del paese a 
      favore delle potenze europee, e l’intensa opera di assistenza sociale 
      e religiosa da parte dei missionari americani, opera che gli americani giudicavano 
      gradita ai cinesi: tutti questi fatti, ed altri, facevano ritenere a Washington 
      che effettivamente si fosse stabilita una sorta di special relationship 
      tra gli Stati Uniti e la Cina. In sostanza, per tutta la prima metà 
      del XX secolo, fino alla presa del potere dei comunisti di Mao Tse-Tung, 
      gli Stati Uniti hanno creduto che la Cina, per tutte le ragioni più 
      sopra descritte, fosse una società incline ad accettare l’American 
      way of life e potesse rappresentare una sorta di “prolungamento” 
      in terra asiatica, se non del modello istituzionale americano, almeno dei 
      fondamenti dell’economia capitalistica, primo, necessario passo per 
      il trasferimento dei principi della democrazia liberale in un’immensa 
      regione giudicata vitale per il contenimento del comunismo sovietico.
      Può, oggi, l’apertura della Cina post-maoista al capitalismo 
      rappresentare una ripresa delle speranze americane? È difficile dirlo, 
      perché la compresenza del modello capitalistico e del totalitarismo 
      politico comunista, con il suo ferreo controllo centralistico, impedisce 
      di fare previsioni ottimistiche. Una cosa appare chiara: i due modelli sono 
      incompatibili ed alla lunga potrà verificarsi uno scontro titanico 
      in seno alla società cinese che provocherà un vero e proprio 
      terremoto anche nel sistema politico internazionale. 
Note
      1. R. D. Kaplan, “La prossima guerra fredda”, in Fondazione 
      Liberal, VI, 30, giugno-luglio 2005, p. 94. L’articolo, con il titolo 
      “How We Would Fight China”, è apparso originariamente 
      in The Atlantic Monthly, vol. 295, no. 5, June 2005. 
      2. M. H. Hunt, The Making of a Special Relationship: The United States and 
      China to 1914, New York, Columbia University Press, 1983, p. 299.
      3. Ibid.
        
 Antonio Donno, professore di Storia dell’America del Nord all’Università 
      di Lecce.
 
      Antonio Donno, professore di Storia dell’America del Nord all’Università 
      di Lecce.

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