Ora serve un salto di qualità
di Domenico Mennitti
Ideazione di maggio-giugno 2006

L’esito dell’aspra competizione conclusa il mese scorso è stato ben fotografato dal professor Sartori: «Le elezioni – ha detto – le ha vinte Prodi, la campagna elettorale però l’ha vinta Berlusconi». In effetti è andata proprio così, nel senso che i numeri e le regole del sistema elettorale hanno consentito a Prodi di chiudere la corsa anticipando di un soffio l’avversario, che però nell’arco di un mese ha recuperato almeno cinque punti al suo rivale.
Non è solo una constatazione, la registrazione di un dato che è sotto gli occhi di tutti; piuttosto è la presa d’atto di una condizione di stallo nella quale siamo precipitati che sollecita la ricerca di nuove vie di uscita. Le interpretazioni (e le speranze) sono varie e di diversa prospettiva: dal risultato elettorale si coglie il dato che la coppia dei competitori è sopravvissuta al tempo, ma non è in grado di interpretare e governare i conflitti di una società che, nonostante tutto, ha percorso dieci anni e si trova ad affrontare sfide rispetto alle quali il bagaglio culturale delle vecchie generazioni è del tutto inadeguato. Ancora non prevale, ma si afferma la sensazione che le consultazioni abbiano segnato il punto d’arrivo di una insostenibile situazione di vischiosità e che ora si possa mettere in moto un processo di ripartenza. Forse – lo scriviamo con molta cautela, valutando il rischio di cadere preda dell’enfasi – si può persino ipotizzare che il 10 aprile del 2006 abbia segnato la fine della transizione e l’avvio dell’invocato processo di modernizzazione della politica italiana.
Queste però sono ipotesi che andranno verificate nel prossimo futuro, ma già ora possiamo valutare alcuni effetti prodotti dal risultato elettorale. Il primo riguarda lo schieramento di centrosinistra, che aveva ritenuto di aver trovato in Prodi una solida foglia di fico dietro la quale nascondere gli scompensi della grande ammucchiata. Gli elettori non hanno riconosciuto nel professore quell’alfiere del buon governo che il vecchio nucleo dell’Ulivo aveva ipotizzato e le diversità politiche della coalizione hanno pesato sulla espressione dei consensi. Infatti chi ha più da recriminare sono ds e Margherita, i soci inventori della formula “Unione”, immaginata come la combinazione vincente nello spirito antiberlusconiano, in grado di aggregare gli interessi dei poteri forti e i risentimenti viscerali della sinistra più becera.
Sull’altro fronte il primo risultato è la impraticabilità del disegno di ridurre Barlusconi al marciapiede, vecchia invettiva dalemiana, resa più livorosa dalla battuta del Cavaliere che ha battezzato il presidente dei ds un marinaretto, privandolo del fascinoso ruolo di navigatore perseguito con il compromettente acquisto di barche d’alto mare. Questi suggestivi temi sono stati la materia della contesa elettorale sviluppatasi un mese fa, ma ad analizzarli oggi riempiono il cuore di mestizia e rivelano la inadeguatezza della classe dirigente italiana, che ha di fronte a sé enormi problemi di stabilità del sistema interno e di definizione e consolidamento dei rapporti internazionali. S’impone all’improvviso un cambiamento totale della scena politica: per il “teatrino”, tante volte ironicamente evocato da Berlusconi, il problema non è più quello di partecipare o di restarne fuori. È la chiusura dei battenti. Resterà a rammentarcene l’esistenza il polveroso cartellone di spettacoli che non avranno replica, di attori che non hanno più ruolo. Gli spettatori, cioè gli elettori, cercano altre trame, nuovi protagonisti.

Il fallimento del progetto prodiano
Così Prodi è piombato nell’ombra proprio la notte in cui ha caparbiamente voluto celebrare l’insipido successo. Certo, è sempre meglio vincere – sia pure di poco – che perdere, e però ci sono successi tombali, perché precludono qualsiasi proiezione nel futuro. Il professore, scelto per vincere nella persistente impresentabilità di personaggi troppo compromessi con il passato, in effetti ha perduto la parte recitata durante la campagna elettorale. Non è più utile, non ha più funzione. Era congeniale al disegno di epurare dalla politica Berlusconi, ma non ha portato a compimento il mandato, anzi ha legittimato il Cavaliere come protagonista essenziale e permanente. La nuova maggioranza è precaria non tanto per i numeri che sono esigui, piuttosto perché è irrisolta la questione del leader, la individuazione di un capo di governo certo di restare al suo posto per una intera legislatura.
L’analisi è diversa, ma non è semplice neppure per Berlusconi. È stato il vero “eroe” dello schieramento moderato. Gli alleati a piangersi addosso, impegnati ad esercitarsi su distinzioni marginali nell’illusione di conservare un po’ di potere contrattuale per il dopo, e lui a menare fendenti contro tutti: i signori della Confindustria, delle banche, dei giornali, delle televisioni, della magistratura, dei partiti, dei sindacati. Tanti nemici, tanto onore. E tanti voti, bisogna riconoscerlo, perché il premier ha riportato nel recinto di Forza Italia molti che le avevano voltato le spalle.
Ma perché Berlusconi ha resistito al pesante tentativo di farlo fuori? Quali sono le ragioni del suo successo e quale deve essere oggi, dopo l’appannamento del rivale, il suo ruolo? La domanda è delicata, soprattutto perché può apparire addirittura irriconoscente, ingenerosa. E, invece, punta a definire il futuro della iniziativa di un uomo che per oltre due lustri ha segnato la politica e la storia del nostro paese. Temiamo una interpretazione tutta personale del risultato e che questo sia un dato obiettivo non è peraltro contestabile. Ma un uomo assume dimensione politica quando sa andare oltre se stesso, oltre il tempo in cui opera. C’è una citazione corrente in proposito, che è anche calzante: «Opera come se dovessi morire domani, pensa come se non dovessi morire mai». Si può chiedere a Berlusconi un salto di qualità: umana, politica, culturale?

Berlusconi può essere l'apripista del futuro
La sua forza è stata la capacità d’incrociare i grandi movimenti innovatori che hanno attraversato la storia recente del nostro paese. Non sempre Berlusconi è stato preventivamente cosciente di questo ruolo, ma l’ha assolto con impareggiabile bravura. Un politico non è solo se stesso e non è neppure sempre lo stesso personaggio: è soprattutto quello che gli altri immaginano, quello che in una determinata fase storica trasmette all’immaginario collettivo la forza suggestiva di un sogno. Silvio Berlusconi ha restituito all’Italia nel 1994, mentre infuriava l’inverno della democrazia, l’idea della possibilità del riscatto. Ha ribaltato la filosofia della rassegnazione ed offerto una interpretazione positiva della politica. Ha dato agli italiani la ragione per non arrendersi, per guardare lontano, per credere in se stessi. Ha dato al paese quello che schiere di politologi, economisti, storici, sociologi, psicologi, capi di partiti e di sindacati non riuscivano più a dare. Vinse perché si avviò su sentieri nuovi: le libertà politiche e civili, il liberalismo economico, la modernizzazione.
Dodici anni dopo, a conclusione peraltro di una legislatura travagliata dallo sconvolgimento degli equilibri mondiali, ha ripetuto l’impresa. Egli sarà portato a ritenere quel che è vero, cioè che la salda tenuta vada attribuita al suo temperamento di guerriero. È più vero però che ancora una volta, oltre la promessa delle riduzioni fiscali, ha funzionato la scelta dei valori che il popolo della destra ritiene irrinunciabili e quello della sinistra è disposto a barattare. Sono i valori della vita e della morte con i quali l’uomo moderno è chiamato a misurarsi.
La partita del futuro si gioca certamente sui temi del lavoro, della fame, della libertà da qualsiasi oppressione, prima di tutte quella dal bisogno; si gioca però sul tavolo dei valori oltre che su quello dei diritti. “Questa” destra, che il Cavaliere ha creato e reso protagonista, ha bisogno di uomini attrezzati a condurre battaglie di valori, perché forte è diventata la loro domanda. La risposta che attendiamo è di capire se Berlusconi debba essere considerato protagonista del suo tempo o anche l’apripista del futuro.

Domenico Mennitti, sindaco di Brindisi.

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