













































































 Ora serve un salto di qualità
 
    Ora serve un salto di qualità L’esito 
      dell’aspra competizione conclusa il mese scorso è stato ben 
      fotografato dal professor Sartori: «Le elezioni – ha detto – 
      le ha vinte Prodi, la campagna elettorale però l’ha vinta Berlusconi». 
      In effetti è andata proprio così, nel senso che i numeri e 
      le regole del sistema elettorale hanno consentito a Prodi di chiudere la 
      corsa anticipando di un soffio l’avversario, che però nell’arco 
      di un mese ha recuperato almeno cinque punti al suo rivale.
 L’esito 
      dell’aspra competizione conclusa il mese scorso è stato ben 
      fotografato dal professor Sartori: «Le elezioni – ha detto – 
      le ha vinte Prodi, la campagna elettorale però l’ha vinta Berlusconi». 
      In effetti è andata proprio così, nel senso che i numeri e 
      le regole del sistema elettorale hanno consentito a Prodi di chiudere la 
      corsa anticipando di un soffio l’avversario, che però nell’arco 
      di un mese ha recuperato almeno cinque punti al suo rivale. 
      Non è solo una constatazione, la registrazione di un dato che è 
      sotto gli occhi di tutti; piuttosto è la presa d’atto di una 
      condizione di stallo nella quale siamo precipitati che sollecita la ricerca 
      di nuove vie di uscita. Le interpretazioni (e le speranze) sono varie e 
      di diversa prospettiva: dal risultato elettorale si coglie il dato che la 
      coppia dei competitori è sopravvissuta al tempo, ma non è 
      in grado di interpretare e governare i conflitti di una società che, 
      nonostante tutto, ha percorso dieci anni e si trova ad affrontare sfide 
      rispetto alle quali il bagaglio culturale delle vecchie generazioni è 
      del tutto inadeguato. Ancora non prevale, ma si afferma la sensazione che 
      le consultazioni abbiano segnato il punto d’arrivo di una insostenibile 
      situazione di vischiosità e che ora si possa mettere in moto un processo 
      di ripartenza. Forse – lo scriviamo con molta cautela, valutando il 
      rischio di cadere preda dell’enfasi – si può persino 
      ipotizzare che il 10 aprile del 2006 abbia segnato la fine della transizione 
      e l’avvio dell’invocato processo di modernizzazione della politica 
      italiana.
      Queste però sono ipotesi che andranno verificate nel prossimo futuro, 
      ma già ora possiamo valutare alcuni effetti prodotti dal risultato 
      elettorale. Il primo riguarda lo schieramento di centrosinistra, che aveva 
      ritenuto di aver trovato in Prodi una solida foglia di fico dietro la quale 
      nascondere gli scompensi della grande ammucchiata. Gli elettori non hanno 
      riconosciuto nel professore quell’alfiere del buon governo che il 
      vecchio nucleo dell’Ulivo aveva ipotizzato e le diversità politiche 
      della coalizione hanno pesato sulla espressione dei consensi. Infatti chi 
      ha più da recriminare sono ds e Margherita, i soci inventori della 
      formula “Unione”, immaginata come la combinazione vincente nello 
      spirito antiberlusconiano, in grado di aggregare gli interessi dei poteri 
      forti e i risentimenti viscerali della sinistra più becera.
      Sull’altro fronte il primo risultato è la impraticabilità 
      del disegno di ridurre Barlusconi al marciapiede, vecchia invettiva dalemiana, 
      resa più livorosa dalla battuta del Cavaliere che ha battezzato il 
      presidente dei ds un marinaretto, privandolo del fascinoso ruolo di navigatore 
      perseguito con il compromettente acquisto di barche d’alto mare. Questi 
      suggestivi temi sono stati la materia della contesa elettorale sviluppatasi 
      un mese fa, ma ad analizzarli oggi riempiono il cuore di mestizia e rivelano 
      la inadeguatezza della classe dirigente italiana, che ha di fronte a sé 
      enormi problemi di stabilità del sistema interno e di definizione 
      e consolidamento dei rapporti internazionali. S’impone all’improvviso 
      un cambiamento totale della scena politica: per il “teatrino”, 
      tante volte ironicamente evocato da Berlusconi, il problema non è 
      più quello di partecipare o di restarne fuori. È la chiusura 
      dei battenti. Resterà a rammentarcene l’esistenza il polveroso 
      cartellone di spettacoli che non avranno replica, di attori che non hanno 
      più ruolo. Gli spettatori, cioè gli elettori, cercano altre 
      trame, nuovi protagonisti. 
 Il 
      fallimento del progetto prodiano
 
       Il 
      fallimento del progetto prodiano
      Così Prodi è piombato nell’ombra proprio la notte in 
      cui ha caparbiamente voluto celebrare l’insipido successo. Certo, 
      è sempre meglio vincere – sia pure di poco – che perdere, 
      e però ci sono successi tombali, perché precludono qualsiasi 
      proiezione nel futuro. Il professore, scelto per vincere nella persistente 
      impresentabilità di personaggi troppo compromessi con il passato, 
      in effetti ha perduto la parte recitata durante la campagna elettorale. 
      Non è più utile, non ha più funzione. Era congeniale 
      al disegno di epurare dalla politica Berlusconi, ma non ha portato a compimento 
      il mandato, anzi ha legittimato il Cavaliere come protagonista essenziale 
      e permanente. La nuova maggioranza è precaria non tanto per i numeri 
      che sono esigui, piuttosto perché è irrisolta la questione 
      del leader, la individuazione di un capo di governo certo di restare al 
      suo posto per una intera legislatura.
      L’analisi è diversa, ma non è semplice neppure per Berlusconi. 
      È stato il vero “eroe” dello schieramento moderato. Gli 
      alleati a piangersi addosso, impegnati ad esercitarsi su distinzioni marginali 
      nell’illusione di conservare un po’ di potere contrattuale per 
      il dopo, e lui a menare fendenti contro tutti: i signori della Confindustria, 
      delle banche, dei giornali, delle televisioni, della magistratura, dei partiti, 
      dei sindacati. Tanti nemici, tanto onore. E tanti voti, bisogna riconoscerlo, 
      perché il premier ha riportato nel recinto di Forza Italia molti 
      che le avevano voltato le spalle.
      Ma perché Berlusconi ha resistito al pesante tentativo di farlo fuori? 
      Quali sono le ragioni del suo successo e quale deve essere oggi, dopo l’appannamento 
      del rivale, il suo ruolo? La domanda è delicata, soprattutto perché 
      può apparire addirittura irriconoscente, ingenerosa. E, invece, punta 
      a definire il futuro della iniziativa di un uomo che per oltre due lustri 
      ha segnato la politica e la storia del nostro paese. Temiamo una interpretazione 
      tutta personale del risultato e che questo sia un dato obiettivo non è 
      peraltro contestabile. Ma un uomo assume dimensione politica quando sa andare 
      oltre se stesso, oltre il tempo in cui opera. C’è una citazione 
      corrente in proposito, che è anche calzante: «Opera come se 
      dovessi morire domani, pensa come se non dovessi morire mai». Si può 
      chiedere a Berlusconi un salto di qualità: umana, politica, culturale? 
      
 Berlusconi 
      può essere l'apripista del futuro
 
      Berlusconi 
      può essere l'apripista del futuro 
      La sua forza è stata la capacità d’incrociare i grandi 
      movimenti innovatori che hanno attraversato la storia recente del nostro 
      paese. Non sempre Berlusconi è stato preventivamente cosciente di 
      questo ruolo, ma l’ha assolto con impareggiabile bravura. Un politico 
      non è solo se stesso e non è neppure sempre lo stesso personaggio: 
      è soprattutto quello che gli altri immaginano, quello che in una 
      determinata fase storica trasmette all’immaginario collettivo la forza 
      suggestiva di un sogno. Silvio Berlusconi ha restituito all’Italia 
      nel 1994, mentre infuriava l’inverno della democrazia, l’idea 
      della possibilità del riscatto. Ha ribaltato la filosofia della rassegnazione 
      ed offerto una interpretazione positiva della politica. Ha dato agli italiani 
      la ragione per non arrendersi, per guardare lontano, per credere in se stessi. 
      Ha dato al paese quello che schiere di politologi, economisti, storici, 
      sociologi, psicologi, capi di partiti e di sindacati non riuscivano più 
      a dare. Vinse perché si avviò su sentieri nuovi: le libertà 
      politiche e civili, il liberalismo economico, la modernizzazione.
      Dodici anni dopo, a conclusione peraltro di una legislatura travagliata 
      dallo sconvolgimento degli equilibri mondiali, ha ripetuto l’impresa. 
      Egli sarà portato a ritenere quel che è vero, cioè 
      che la salda tenuta vada attribuita al suo temperamento di guerriero. È 
      più vero però che ancora una volta, oltre la promessa delle 
      riduzioni fiscali, ha funzionato la scelta dei valori che il popolo della 
      destra ritiene irrinunciabili e quello della sinistra è disposto 
      a barattare. Sono i valori della vita e della morte con i quali l’uomo 
      moderno è chiamato a misurarsi.
      La partita del futuro si gioca certamente sui temi del lavoro, della fame, 
      della libertà da qualsiasi oppressione, prima di tutte quella dal 
      bisogno; si gioca però sul tavolo dei valori oltre che su quello 
      dei diritti. “Questa” destra, che il Cavaliere ha creato e reso 
      protagonista, ha bisogno di uomini attrezzati a condurre battaglie di valori, 
      perché forte è diventata la loro domanda. La risposta che 
      attendiamo è di capire se Berlusconi debba essere considerato protagonista 
      del suo tempo o anche l’apripista del futuro.
       
 
        
        Domenico Mennitti, sindaco di Brindisi.
 
      Domenico Mennitti, sindaco di Brindisi.

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