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    vitale
 
    Cattolici e laici, un'alleanza 
    vitale  Alla 
      fine degli anni Sessanta, e poco prima della sua scomparsa, in due saggi 
      che sotto il comune titolo di Jerusalem and Athens trattavano del delicato 
      e sovente conflittuale rapporto tra religione e filosofia, Leo Strauss, 
      uno dei più importanti filosofi politici del Novecento, individuava 
      il segreto della vitalità dell’Occidente in una tensione irrisolta, 
      e forse irrisolvibile, tra le due fondamentali anime della nostra cultura. 
      La sua tesi era che ove uno dei due contendenti avesse preso il sopravvento 
      quella vitalità si sarebbe persa.
 Alla 
      fine degli anni Sessanta, e poco prima della sua scomparsa, in due saggi 
      che sotto il comune titolo di Jerusalem and Athens trattavano del delicato 
      e sovente conflittuale rapporto tra religione e filosofia, Leo Strauss, 
      uno dei più importanti filosofi politici del Novecento, individuava 
      il segreto della vitalità dell’Occidente in una tensione irrisolta, 
      e forse irrisolvibile, tra le due fondamentali anime della nostra cultura. 
      La sua tesi era che ove uno dei due contendenti avesse preso il sopravvento 
      quella vitalità si sarebbe persa.
      A distanza di trent’anni il libro di George Weigel, La cattedrale 
      e il Cubo. Europa, America e politica senza Dio, mostra, senza ombra di 
      dubbio, la fondatezza di una tesi che, avanzata in anni in cui lo storicismo 
      e lo scientismo apparivano trionfanti, fu allora oggetto di scarsa considerazione. 
      Se Strauss si chiedeva quale sarebbe potuto essere il destino di un Occidente 
      che voleva allontanarsi da quella complessa identità, Weigel in poche 
      ma spietate pagine ce lo mostra. E il quadro che ne traccia è tanto 
      desolante quanto fu acuta l’analisi straussiana. 
      Ancora una volta, come già accadde quando l’Occidente fu messo 
      di fronte al fenomeno del totalitarismo, ci troviamo nella sgradevole condizione 
      di chiederci come mai tutto questo sia potuto avvenire. Di chiederci quale 
      configurazione potrebbe mai assumere l’Occidente ove fosse portato 
      a compimento quel processo di espulsione della religione dalla sfera pubblica, 
      di una sua riduzione alla sfera delle passioni edonistiche, e di mitizzazione 
      della scienza intesa come produttrice di regole di vita individuali e sociali. 
      Il progetto di sostituire la religione con la scienza, per l’appunto 
      lo scientismo, implicava infatti la riduzione della religione alla sfera 
      privata e una drastica riduzione del ruolo sociale della religione. L’errore 
      di fondo della modernità – se si vuole considerare il problema 
      da un diverso punto di vista – è stato allora quello di scambiare 
      la distinzione tra sfera pubblica e sfera privata: un rimedio empirico ed 
      elaborato al fine di lenire gli effetti del conflitto fra le confessioni 
      cristiane scatenatosi con la Riforma, per l’asse portante della filosofia 
      politica.
      
       Messaggio 
      cristiano e cultura liberale
  Messaggio 
      cristiano e cultura liberale
      Senza mettere in discussione tale distinzione, quantunque di tanto in tanto 
      qualcuno avvertisse sinistri scricchiolii, la filosofia politica crebbe 
      nei secoli successivi lavorando al progetto di una progressiva secolarizzazione 
      del messaggio religioso. Un progetto che poi, nel XIX e nel XX secolo, trovò 
      forma nella sostituzione della religione con la scienza. In un discredito 
      della religione alla quale contribuirono non poco e non pochi credenti, 
      convinti assertori di una concezione della religione ridotta a giustizia 
      sociale, e di una concezione della Chiesa come sua realizzatrice, e come 
      tale alleata, più o meno palese, di quel marxismo che individuava 
      nel liberalismo e nel mercato i principali e più temibili nemici 
      di una palingenesi storica che avrebbe dovuto terminare in una “società 
      giusta” appunto perché senza classi.
      Se oggi appare abbastanza difficile spiegare come mai una simile idea si 
      sia potuta imporre, e dominare un intero secolo, ancor più lo è 
      capire come mai l’idea che il nemico fosse in realtà rappresentato 
      dal liberalismo e dal mercato si sia annidata in maniera più tenace 
      proprio in vaste frange del mondo cristiano lasciandolo infine frastornato 
      di fronte al fallimento del progetto comunista. Il muro, in realtà, 
      è caduto sulla testa dell’Occidente; di moltissimi intellettuali, 
      e di quanti avevano sperato che il comunismo avesse in sé qualcosa 
      di buono e che questo qualcosa di buono fosse più affine al messaggio 
      cristiano di quanto lo fosse la cultura liberale.
      Che questa avesse delle componenti atee è fuori di dubbio. Come lo 
      è che il suo non era un ateismo di massa, e che, in buona misura, 
      il liberalismo si identificava con l’Atene straussiana. Con la via 
      della ricerca che, per essere ricerca autentica, non si chiudeva alla Rivelazione. 
      Prova ne è che i più tenaci avversari della filosofia della 
      storia marxistica e dello scientismo furono nel Novecento dei liberali – 
      forse individualmente atei, ma anche irriducibili avversari del relativismo 
      – nelle cui opere non vi è nessun incitamento al relativismo 
      e ad un ateismo di massa. Porre la libertà individuale come aspetto 
      costitutivo dell’identità occidentale può certamente 
      apparire riduttivo, ma soltanto se si dimentica che essa fu intesa, e come 
      tale rimase, comunque come un valore irrinunciabile che non negava il valore 
      dell’esperienza religiosa ma, in molti casi, lo poneva a suo completamento.
      Quello che oggi ci chiediamo, e si tratta di un problema che Weigel pone 
      in termini perentori quando tratta del dramma dell’umanesimo ateo, 
      è come sia avvenuto il passaggio a quell’ateismo di massa che 
      egli pone alle origini dell’attuale crisi dell’Occidente e specificamente 
      dell’Europa. E, in stretta connessione a ciò, quali siano, 
      e che ruolo abbiano svolto, quelle sue componenti che hanno iniziato e perseguito 
      il progetto della secolarizzazione della religione.
 Il 
      secolarismo e la rivolta contro il liberismo
 
      Il 
      secolarismo e la rivolta contro il liberismo
      Da questo punto di vista, poiché come Weigel mostra quel processo 
      è iniziato e si è compiuto essenzialmente in Europa, viene 
      spontaneo chiedersene la ragione e, contemporaneamente, domandarsi come 
      mai esso non si sia sviluppato in quella parte del continente americano 
      nel quale si era affermata la concezione del liberalismo e del mercato che 
      più si avvicinava agli ideali dei suoi padri fondatori. Una constatazione 
      che mette in luce la debolezza della tesi che vede nell’individualismo 
      liberale e nel mercato le premesse di quella svolta che avrebbe portato 
      all’ateismo di massa e a quel relativismo che ha corroso la tempra 
      morale e politica dell’Occidente.
      Molto spesso, infatti, e soprattutto qui in Europa, capita di sentir attribuire 
      la responsabilità della perdita della presunta identità originaria 
      all’importazione di un modello di vita e di consumi americano. È 
      comprensibile che una volta persa la propria identità si cerchi di 
      recuperarla individuando un nemico esterno che consenta di fare a meno di 
      un serio esame di coscienza. Tuttavia, se si cerca di identificare con un 
      po’ d’attenzione i fautori di quella tesi, si finisce, e senza 
      eccessivi sforzi, per accorgersi che si tratta degli stessi creatori, e 
      dei loro epigoni, di quelle ideologie fallimentari che hanno prima entusiasmato 
      e poi estenuato l’Europa.
      Weigel sostiene che la decadenza dell’Occidente sia il risultato del 
      suo progressivo allontanarsi da Dio, ma questo lo porta a trascurare le 
      responsabilità di quanti hanno avuto un ruolo nel processo di declino 
      proprio sostenendo che il vero nemico era il liberalismo e non il marxismo, 
      lo scientismo e la psicoanalisi. La rivolta contro il mercato e contro il 
      liberalismo accomuna invece, e purtroppo, tanto le componenti più 
      secolarizzate della cultura europea, quanto ampie frange del mondo cristiano 
      e specificamente cattolico. 
      Nel suo recente Cattolici pacifisti teocon. Chiesa e politica in Italia 
      dopo la caduta del muro, Gaetano Quagliariello definisce profetico quella 
      forma di pacifismo che ha indotto Giovanni Paolo II ad opporsi alla guerra 
      irachena. Ma se laicamente si riflette per un po’ sugli esiti che 
      stava producendo tale accezione di pacifismo, ci si accorge che si è 
      trattato forse del momento più alto della crisi dell’Occidente. 
      Di un momento in cui esso ha rischiato di spaccarsi irrimediabilmente, e 
      forse definitivamente, proprio a cagione del fatto che la religione, non 
      volendo riconoscere le ragioni della politica, si esponeva al rischio di 
      essere strumentalizzata proprio da quelle componenti della cultura politica 
      occidentale che nutrono un rancore ancestrale nei confronti dell’Occidente 
      liberale ma non arrendevole nella difesa dei propri valori ed anche dei 
      propri interessi.
      Un momento di crisi nel quale è diventato ancora una volta palese 
      come le buone intenzioni ed i migliori propositi, anche se fondati su solide 
      convinzioni religiose, possano produrre effetti largamente indesiderati.
      Tra questi effetti indesiderati ed imprevisti delle pur buone intenzioni 
      non bisogna dimenticare la creazione del mito di uno Stato in cui la religione 
      si secolarizzava in “Stato etico”. Anche in questo caso si può 
      dire che tra i suoi molti padri e le sue molte madri è difficile 
      annoverare esponenti del liberalismo. Quel che intendo sostenere è, 
      in definitiva, che per secoli la cultura europea si è lanciata nel 
      progetto di creare eticità tramite la politica, che il suo fallimento 
      l’ha lasciata esausta, e che tale progetto, per quanto possa apparire 
      paradossale, ha avuto come principale avversario proprio quei componenti 
      della tradizione liberale che erano individualmente meno sensibili alla 
      problematica religiosa.
      Di modo che, constatato il fallimento del progetto di utilizzare lo Stato 
      per produrre eticità, non restava che il vuoto. Che la filosofia 
      della storia e lo scientismo abbiano deresponsabilizzato l’individuo, 
      che la psicoanalisi abbia svolto un ruolo importante nel mettere in crisi 
      il rapporto tra coscienza individuale e tradizione culturale e religiosa, 
      è un dato di fatto. Ma in Europa la caduta dei miti non ha prodotto 
      un salutare e serio ripensamento critico della sua storia culturale. Neanche 
      la constatazione che il totalitarismo, i gulag e l’olocausto, sono 
      “prodotti” tipicamente europei, è riuscita a scuoterci. 
      E in questo stato di torpore si sono prodotte ed affermate altre illusioni. 
      La più pericolosa, e non soltanto ad avviso di Weigel, è stata 
      quella che si potesse trasformare l’Europa in un modello istituzionale, 
      politico ed economico originale, di tipo federale, ma diverso da quello 
      nord-americano, che si potesse non soltanto governare la globalizzazione, 
      ma perfino imporle un fine etico. Il tutto, essendo contemporaneamente pacifisti 
      e, ovviamente, democratici, e coltivando l’illusione che si stesse 
      dando vita ad un modello istituzionale che compendiasse in 300 pagine una 
      nuova ed originale filosofia politica, una nuova ed originale scienza economica 
      ed una nuova ed originale dottrina costituzionale. Troppe per una costituzione, 
      ma poche per edificare una nuova scienza sociale.
      Si spolverarono espressioni roboanti come patriottismo costituzionale ed 
      altre amenità in un battage comunicativo che sostanzialmente mirava 
      a nascondere che in Europa mancavano energie intellettuali in grado di sostenere 
      un progetto politico e culturale che si proponeva, essenzialmente, come 
      l’antagonista del modello americano. Un proposito che si sgonfiò 
      in maniera pressoché farsesca di fronte alla minaccia rappresentata 
      dall’invasione di “idraulici polacchi” che fecero più 
      paura dei fondamentalisti islamici, e di ridurre le sovvenzioni per le mucche 
      di nazionalità francese.
      Il nostro dramma, il vero dramma dell’Europa, è costituito 
      dalla circostanza che, e per fortuna, questi pericoli fecero più 
      presa delle polemiche sull’opportunità di inserire un richiamo 
      alle origini giudaico-cristiane della civiltà occidentale in un trattato 
      costituzionale riguardo al quale ci si asteneva dal chiedersi se avrebbe 
      mai potuto funzionare.
 L'Europa senza radici e senza orgoglio
 
      L'Europa senza radici e senza orgoglio
      Weigel considera la vicenda del richiamo alle radici giudaico-cristiane 
      nel trattato costituzionale dell’Unione Europea come il momento in 
      cui è diventato palese che l’Europa non aveva più consapevolezza, 
      e tanto meno orgoglio, della propria storia e della propria identità. 
      Difficile dargli torto. Soprattutto se si considera il ruolo che nel fallimento 
      di quell’ambizioso progetto ebbero la paura dell’invasione di 
      fantomatici “idraulici polacchi” e della perdita di sussidi 
      ai bovini. Il fatto che un progetto tanto ambizioso si sia (fortunatamente) 
      perso per così poco è davvero il segno della tempra morale 
      dell’Europa laicista e della forza trainante dei suoi valori. 
      Certamente possiamo discutere, ed anche animosamente – in un continente 
      che anche per via di un drammatico crollo delle nascite si avvia ad avere 
      nei prossimi lustri oltre un decimo della propria popolazione di religione 
      non cristiana – sulla lungimiranza di una scelta che lasci la sensazione 
      che i valori caratterizzanti dell’Occidente derivino interamente dalle 
      sue radici cristiane. Ma il problema è che se vogliamo, come fortemente 
      vogliamo, che quei diritti umani vengano rispettati da tutti coloro che 
      hanno liberamente scelto di vivere in Europa, non è prudente esporsi 
      al rischio che quella crescente minoranza non cristiana ne contesti l’osservanza 
      ed il rispetto sostenendo, anche strumentalmente, che quei valori e quei 
      diritti non fanno parte della loro cultura. Si rischierebbe, in tal modo, 
      una prova di forza che potrebbe avere esiti destabilizzanti facilmente immaginabili. 
      
      Che quei valori e diritti abbiano avuto origine da quella grandiosa sintesi 
      di tradizioni religiose e di sofferte esperienze politiche che caratterizza 
      l’Occidente non è in discussione. Altra cosa, foriera di contrasti, 
      è sostenere, come volevano fare le due parti contrapposte, che essi 
      siano frutti di una sola delle due componenti dell’Occidente. All’errore 
      di quanti hanno coltivato il progetto di un trattato costituzionale che 
      escludesse la nostra tradizione religiosa dalla sfera pubblica, non si può 
      rispondere lasciando pensare che lo si voglia fondare su una tradizione 
      religiosa. Un’impressione, questa, che in qualche modo viene rafforzata 
      dalla tesi di Weigel secondo il quale la soluzione ai mali che affliggono 
      l’Europa d’oggi sarebbe rappresentata da un ritorno alla dottrina 
      sociale della Chiesa. Ciò che significherebbe gettare alle ortiche 
      secoli di teoria economica e politica che, sinceramente, non sembrano meritare 
      una tale ed ingloriosa fine.
      La tesi di Weigel, dunque, è che l’errore fatale dell’Europa 
      sia consistito nel progressivo allontanamento della politica e della cultura 
      dalla religione. Ciò che in realtà significa sostenere che 
      la tradizione e la filosofia politica occidentale siano nient’altro 
      che visioni secolarizzate della Rivelazione. La tesi, che non è nuova 
      e che presenta molti punti controversi, implica però un drastico 
      ridimensionamento dell’apporto dato dalla tradizione filosofica laica 
      all’edificazione della civiltà occidentale. Solo che il nostro 
      problema, oggi, non è tanto quello di emarginare tutte le componenti 
      della cultura laica, quanto quello di trovare sinergie tra tutti coloro 
      i quali aspirano a vivere in un modello di associazione civile dal quale 
      nessuno possa sentirsi escluso a cagione delle sue convinzioni religiose 
      o della sua indifferenza alla religione. 
      Nessun lettore di Weigel credo possa restare indifferente di fronte alle 
      questioni sollevate nel paragrafo “Perplessità” e ai 
      dati riguardanti l’aspetto demografico del suicidio dell’Occidente. 
      Ma la drammaticità della situazione non sembra tanto indurre Weigel 
      a proporre di dimenticare un passato talora imbarazzante per tutti e ad 
      unire le forze, quanto, e in maniera neanche tanto implicita, a chiedere 
      di tornare a Dio per sfuggire ad un mondo diventato privo di senso. Una 
      richiesta che diviene particolarmente gravosa quando ci si accorge poi che 
      i laici dovrebbero, e da soli, farsi carico di tutta un’impressionante 
      serie di errori e di orrori che, in non pochi casi, hanno coraggiosamente 
      combattuto. Sovente da soli. Weigel, per dirla diversamente, sembra lasciare 
      poco spazio alla laicità ed anche a quei laici che da tempi non sospetti 
      denunciano i pericoli del relativismo e dello scientismo. Per tutti costoro 
      lo spazio vitale appare limitato, e l’unica prospettiva sembra essere 
      quella della conversione.
      Ma per quanto in linea di principio tale possibilità non sia certamente 
      da escludere, o da temere, il problema che ci si trova di fronte non è 
      tanto questo, quanto quello di trovare sinergie per rilanciare la tradizione 
      occidentale prendendo atto del fatto che cristiani e laici possono, e debbono, 
      fare un lungo tratto di strada insieme senza perdere la propria identità. 
      Anzitutto difendendosi dai nemici comuni. Dividersi così lontani 
      dalla meta è un altro modo di suicidarsi.
      
      
       Raimondo Cubeddu, ordinario di Filosofia politica all’Università 
      di Pisa e vicedirettore dell’imt Alti Studi di Lucca.
 
      Raimondo Cubeddu, ordinario di Filosofia politica all’Università 
      di Pisa e vicedirettore dell’imt Alti Studi di Lucca.

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