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    Conservatori a Hollywood È stato difficile la scorsa estate fare la parodia della stralunata 
      sinistra da limousine. «Sto facendo outing», strombazzava l’attrice 
      Jane Fonda riferendosi al progetto di fare un tour in autobus contro la 
      guerra in Iraq (fortunatamente poi cancellato). «Non ho preso posizione 
      su nessuna guerra dai tempi del Vietnam» – se “posizione” 
      è la parola giusta per la sua festa d’amore con il nemico del 
      1972. La Paramount ha annunciato che il regista complottista Oliver Stone, 
      che ha descritto la “rivolta” terroristica dell’11 settembre 
      come un legittimo “vaffanculo, vaffanculo ai vostri ordini” 
      rivolto (fra tutte le cose possibili) all’industria cinematografica 
      americana che controlla la cultura, dirigerà il primo grande dramma 
      di Tinseltown (Hollywood, ndt) sugli attacchi. David Koepp, coautore del 
      remake di Steven Spielberg de La Guerra dei Mondi, ha reso gli alieni devastatori 
      simili ai militari americani in Iraq. E sul sito dell’Huffington Post 
      celebrità di sinistra come Rob Reiner e Laurie David quotidianamente 
      si indignavano per gli oltraggi del presidente Bush alle libertà 
      civili, alla Madre Terra e a tutto quello che si conviene.
 
      È stato difficile la scorsa estate fare la parodia della stralunata 
      sinistra da limousine. «Sto facendo outing», strombazzava l’attrice 
      Jane Fonda riferendosi al progetto di fare un tour in autobus contro la 
      guerra in Iraq (fortunatamente poi cancellato). «Non ho preso posizione 
      su nessuna guerra dai tempi del Vietnam» – se “posizione” 
      è la parola giusta per la sua festa d’amore con il nemico del 
      1972. La Paramount ha annunciato che il regista complottista Oliver Stone, 
      che ha descritto la “rivolta” terroristica dell’11 settembre 
      come un legittimo “vaffanculo, vaffanculo ai vostri ordini” 
      rivolto (fra tutte le cose possibili) all’industria cinematografica 
      americana che controlla la cultura, dirigerà il primo grande dramma 
      di Tinseltown (Hollywood, ndt) sugli attacchi. David Koepp, coautore del 
      remake di Steven Spielberg de La Guerra dei Mondi, ha reso gli alieni devastatori 
      simili ai militari americani in Iraq. E sul sito dell’Huffington Post 
      celebrità di sinistra come Rob Reiner e Laurie David quotidianamente 
      si indignavano per gli oltraggi del presidente Bush alle libertà 
      civili, alla Madre Terra e a tutto quello che si conviene.
      Ma indovinate un po’: sempre più americani evitano i prodotti 
      di Hollywood – e il disgusto per la politica della Left Coast, dentro 
      e fuori dallo schermo, gioca sicuramente un ruolo. In un periodo in cui 
      si va sempre meno al cinema, si scopre che sono i film conservatori a spingere 
      le persone nelle sale – conservatori non tanto dal punto di vista 
      politico ma da quello culturale e morale, che si occupano, cioè, 
      della lotta fra il bene e il male, del valore dell’eroismo e del sacrificio 
      di se stessi, dell’indispensabilità dei valori familiari e 
      dell’onore marziale e dell’esistenza della Verità. Hollywood 
      produceva in abbondanza film di questo tipo – guardate quasi ogni 
      film della sua Golden Age negli anni Trenta e Quaranta – e ne fa ancora 
      uno ogni tanto (a volte grazie a registi di sinistra non allineati come 
      Steven Spielberg). Probabilmente in futuro ne vedremo molti di più.
      È fuori di dubbio che Hollywood barcolli. La frequentazione dei cinema 
      è scesa del 12 per cento dall’anno scorso e un sondaggio di 
      maggio di Usa Today, Cnn e Gallup ha dimostrato che quasi la metà 
      degli americani va al cinema meno di quanto faceva nel 2000. Alcuni danno 
      la colpa all’aumento dei prezzi dei biglietti, ma in proporzione i 
      biglietti costano meno di 25 anni fa. Altri credono che sia colpa dei dvd, 
      però anche le vendite dei dvd crollano. La spiegazione più 
      probabile è la politica di sinistra. «Si può far risalire 
      il declino del box-office alla fine dell’estate del 2004, con l’intensificarsi 
      della campagna elettorale per la presidenza – osserva il critico cinematografico 
      e conduttore radiofonico conservatore, Michael Medved – Non si trattava 
      solo dell’ostilità di Hollywood verso il presidente Bush; era 
      partigianeria nuda e cruda».
      Se anche solo uno elettore di Bush su dieci avesse boicottato Hollywood 
      dopo aver sentito l’ultima diatriba anti-Bush di Tim Robbins o dopo 
      aver visto l’ennesimo mascalzone conservatore (il sosia di Dick Cheney 
      che quasi distruggeva il mondo in The day after tomorrow dell’anno 
      scorso), si tratterebbe di 6 milioni di spettatori in meno, indica Medved. 
      «Ed è proprio questo che molti nell’industria cinematografica 
      non capiscono: quando esprimi ostilità ai conservatori, molti americani 
      la percepiscono come rivolta a se stessi».
      I sondaggi confermano la teoria di Medved. Un sondaggio dell’Hollywood 
      Reporter scopre che quasi un americano su due potrebbe evitare un film con 
      un attore di cui non condivide le opinioni politiche. «La politica 
      ha sicuramente un impatto – osserva Govindini Murty, attrice e curatrice 
      di Libertas, un importante blog cinematografico conservatore – Le 
      aziende automobilistiche insultano forse i repubblicani nelle pubblicità?».
      Quando Hollywood mette da parte la sua visione di sinistra del mondo per 
      fare film che incarnano i valori tradizionali, spesso riscuote grande successo 
      di pubblico. Prendete per esempio Spider-Man 2 del 2004, un seguito di molto 
      migliore dell’originale. Diretto da Sam Raimi, il film è una 
      meraviglia visuale: le scene dell’Uomo Ragno (interpretato dal tranquillo 
      Tobey Maguire) che batte il tentacolare ex benefattore dell’umanità, 
      ora terrorista Doctor Octopus (Alfred Molina) nel cielo di New York – 
      furiosi grovigli di pugni, bracci meccanici, vetri e pietre in frantumi 
      – quasi esplode fuori dallo schermo. Spider-Man 2 cattura talmente 
      lo sguardo, che si potrebbero perdere di vista le verità morali vecchio 
      stile della storia.
      Il film è una favola che parla di dovere ed eroismo. Il giovane Peter 
      Parker decide di appendere al chiodo il suo costume di Spider-Man, perché 
      essere un super-eroe – potere conferitogli dal morso di un ragno geneticamente 
      mutato – gli ha impedito di inseguire i suoi sogni, fra i quali, soprattutto, 
      quello di conquistare Mary Jane Watson (Kirsten Dunst). Peter Parker prende 
      questa decisione dopo essere andato da un anziano dottore hippy, la maglietta 
      dei Grateful Dead sotto il camice bianco che, col vecchio stile “se-ti-fa-stare-bene-fallo”, 
      gli consiglia: «Puoi sempre scegliere».
      E però quando il crimine in città aumenta vertiginosamente 
      e cresce la minaccia di Doc Ock, la coscienza di Parker non lo lascia tranquillo. 
      In una scena cruciale, l’affettuosa Zia May (Rosemary Harris), il 
      perno morale della sua vita, mette le cose a posto. «Tutti amano gli 
      eroi», gli dice. «Le persone fanno la fila per vederli, li acclamano, 
      urlano i loro nomi. E anni dopo, raccontano di essere rimasti in piedi per 
      ore sotto la pioggia, solo per riuscire a vedere velocemente chi ha insegnato 
      loro a resistere anche solo un secondo in più». La sua vecchia 
      voce diventa cupa. «Credo che in ognuno di noi ci sia un eroe, che 
      ci fa essere onesti, ci dà forza, ci rende nobili e, alla fine, ci 
      permette di morire con onore, anche se a volte dobbiamo essere forti e rinunciare 
      alle cose che vogliamo di più. Anche ai nostri sogni».
 La 
      cultura conservatrice passa per i supereroi
 
      La 
      cultura conservatrice passa per i supereroi
      Colpito dalla sua semplice saggezza, Parker alla fine fa la cosa giusta, 
      non il suo interesse: Spider-Man ritorna e salva Gotham da Doc Ock. Ma non 
      prima che un gruppo di viaggiatori rischi la propria vita gettandosi fra 
      il super-eroe ferito e il suo terrificante nemico, dimostrando che non bisogna 
      avere superpoteri per essere coraggiosi – una lezione che i newyorkesi 
      hanno imparato bene dopo l’11 settembre. Il messaggio fondamentale 
      del film è l’esatto contrario dell’etica del “just 
      do it” scevra dai sensi di colpa degli anni Sessanta: per vivere una 
      vita con un significato morale, a volte bisogna scegliere di fare il proprio 
      dovere. Il film ha avuto un enorme successo di pubblico con un colossale 
      incasso di 374 milioni di dollari negli Stati Uniti e circa 400 milioni 
      all’estero. Aggiungeteci le vendite dei dvd e stiamo parlando di un 
      film da quasi un miliardo di dollari.
      Lo splendido cartone animato con i super-eroi della Pixar Studio Gli Incredibili, 
      del 2004, è stato un altro successo al botteghino – negli Stati 
      Uniti ha incassato 261 milioni di dollari – con una visione del mondo 
      sorprendentemente “a destra del centro”. La storia dello scrittore 
      e regista Brad Bird, divertente per i bambini e per gli adulti, si svolge 
      intorno a una simpatica famiglia di cinque persone, che casualmente nascondono 
      il fatto di essere superumani. Come altri con abilità superiori, 
      i genitori Bob e Helen Parr (una volta Mister Incredible e Elastigirl) si 
      sono “ritirati” grazie al “programma di trasferimento 
      dei super-eroi” del governo federale. Il fatto è che avvocati 
      maniaci degli illeciti civili, avevano intentato ai super-eroi un sacco 
      di azioni legali spurie per conto di chi era stato salvato – «Non 
      ha chiesto di essere salvato, non voleva essere salvato», lamentava 
      istrionicamente un avvocato – ed era diventato impossibile usare le 
      capacità speciali senza incorrere nella rovina finanziaria. I Parr 
      ora crescono i loro figli in un tipico sobborgo americano, apparentemente 
      una famiglia come tutte le altre.
      La difesa dell’eccellenza – e la frustrazione per la guerra 
      del politically correct contro di essa – è un tema centrale 
      de Gli Incredibili, come nella scena in cui Helen rimprovera Bob per non 
      essere andato alla “promozione” del figlio Dash dalla quarta 
      elementare. «È psicotico», tuona Bob. «Continuano 
      a creare nuove maniere per celebrare la mediocrità, ma se qualcuno 
      è davvero eccezionale...». In un’altra scena, Dash vuole 
      prendere parte agli sport scolastici, ma Helen dice che la sua super-velocità 
      renderebbe la cosa ingiusta. «Papà diceva sempre che non dovevamo 
      vergognarci dei nostri poteri – sono loro che ci rendono speciali», 
      si lamenta Dash. «Tutti sono speciali, Dash», risponde stancamente 
      la madre. «È solo un modo come un altro per dire che non lo 
      è nessuno», risponde Dash tetramente.
      Il cattivo del film, lo scienziato pazzo Syndrome, invidioso di quelli con 
      i superpoteri (perché non ne ha), uccideva gli eroi con la sua tecnologia 
      avanzata, che poi usava per darsi delle arie. «I tuoi poteri oh così 
      speciali», ringhiava a Bob. «Gli darò dell’eroismo. 
      Gli darò l’eroismo più spettacolare che il mondo abbia 
      mai visto! E quando sarò vecchio, dopo essermi divertito, venderò 
      le mie invenzioni e tutti potranno avere poteri. Tutti potranno essere super! 
      E quando tutti sono super... non lo è nessuno».
      Gli Incredibili abbraccia con affetto la famiglia borghese con i suoi difetti 
      e tutto il resto. I Parr hanno le loro difficoltà: la teenager Violet 
      è bisbetica, i bambini litigano, mamma e papà bisticciano, 
      Bob odia il suo monotono lavoro da assicuratore. Ma per i ragazzi Parr il 
      legame familiare è importantissimo: una Violet preoccupata, sospettando 
      (a torto) che il padre di mezza età possa avere una tresca – 
      Helen si è precipitata fuori per riprenderlo – dice a Dash: 
      «La vita di mamma e papà potrebbe essere in pericolo. O peggio 
      ancora, il loro matrimonio». E i genitori correrebbero qualsiasi rischio 
      per proteggere i figli, come l’avvincente film dimostra più 
      di una volta. Come il grande successo della Pixar del 2003, Alla ricerca 
      di Nemo, il film mostra ai bambini «quello che dovrebbero fare gli 
      adulti», scrive Federica Mathewes-Green su National Review Online, 
      «essere coraggiosi e pronti al sacrificio, difendere i figli anche 
      a rischio della propria vita, dare anche di fronte all’ingratitudine».
      Spider-Man 2 e Gli Incredibili non sono gli unici film recenti che hanno 
      portato sullo schermo valori conservatori, conquistando un pubblico entusiasta. 
      
      Cast Away di Robert Zemeckis (2000) è un Robinson Crusoe moderno, 
      in cui Tom Hanks interpreta Chuck Noland, un tecnico della Federal Express 
      isolato per anni su un’isola deserta. Il film ci rende profondamente 
      consapevoli dei vantaggi – l’immenso progresso umano – 
      di una società capitalistica avanzata. (Cosa strana per Hollywood, 
      Cast Away dipinge una grande compagnia come un’organizzazione premurosa 
      ed efficiente: quando Nolan ritorna dopo essere stato salvato, la FedEx 
      lo accoglie come un familiare disperso da molto tempo). Per il naufrago 
      Noland un dente marcio è un problema quasi letale, trovare un sorso 
      di acqua fresca da bere una questione di sopravvivenza. «Zemeckis 
      e [lo sceneggiatore William] Broyles mettono la parola fine alla causa Locke 
      v. Rousseau, schierandosi chiaramente dalla parte della civilizzazione», 
      scrive il critico Jonathan Last. «Non c’è niente di romantico 
      né di bello nell’isola in cui Noland è bloccato. È 
      una prigione». La sopravvivenza di Noland dipende dai rovinati detriti 
      della civilizzazione: i pacchetti della FedEx che si trovavano nel suo aeroplano 
      distrutto e la porta di una toilette chimica, che diventa una vela di fortuna. 
      
      Cast Away rifiuta senza troppo clamore anche la rivoluzione sessuale. Quando 
      ritrova il suo vero amore, Kelly, Noland scopre che si è sposata 
      ed è diventata madre. L’incontro è travolgente per entrambi 
      – è evidente che Kelly ama ancora Noland, e sappiamo che il 
      suo amore per lei ha dato a Noland la forza di sopportare anni di solitudine. 
      Ma Noland riconosce che la sua felicità non è la cosa più 
      importante. «Devi andare a casa ora», dice a Kelly con gli occhi 
      pieni di lacrime: ora c’è di mezzo una famiglia e la famiglia 
      è l’istituzione fondamentale dell’ordine civilizzato 
      nel quale è appena tornato.
      Alla fine, riflettendo, Noland capisce che per sopravvivere sull’isola 
      serviva qualcosa di più della razionalità, per quanto importante; 
      gli era stato necessario qualcosa come la fede. Dopo essere stato salvato, 
      racconta a un gruppo di amici che da naufrago, in preda alla disperazione, 
      aveva tentato – senza riuscirci – di suicidarsi. «Non 
      avevo potere su niente», ricorda. «Ed è stato allora 
      che ho sentito quel sentimento su di me, come una coperta calda. In qualche 
      modo sapevo che dovevo restare in vita. In qualche modo... anche se non 
      c’era nessun motivo per sperare. E la logica mi diceva che non avrei 
      mai più visto questo posto... E un giorno la mia logica si è 
      dimostrata sbagliata, perché è arrivata la marea e mi ha portato 
      via». Forse abbiamo bisogno di qualcosa di più della semplice 
      logica per innalzarci al di sopra della natura animale e diventare completamente 
      umani, lascia intendere Cast Away. Anche se il regista Zemeckis per molti 
      aspetti appartiene all’establishment di sinistra di Hollywood, questo 
      è un film profondamente conservatore, come il suo precedente colosso 
      Forrest Gump, che i conservatori applaudono come un ripudio degli anni Sessanta.
 I 
      film per la famiglia trainano il mercato
 
      I 
      film per la famiglia trainano il mercato
      Le virtù marziali, a lungo dileggiate dalla sinistra hollywoodiana, 
      hanno vissuto un ritorno sul grande schermo più o meno negli ultimi 
      cinque anni. Il travolgente adattamento di Peter Jackson della trilogia 
      de Il Signore degli Anelli di J. R. R. Tolkien (2001-2003) parla della necessità 
      che gli uomini e le donne liberi si ribellino con la forza al male totalitario 
      – e del potere di corrompere dall’interno anche le persone migliori. 
      Molti osservatori hanno riscontrato delle somiglianze fra l’orrore 
      distruttivo di Mordor nel film e gli islamofascisti che oggi minacciano 
      l’Occidente, così come i lettori del libro di Tolkien avevano 
      fatto col nazismo. I film hanno incassato oltre un miliardo di dollari negli 
      Stati Uniti e il doppio all’estero. Anche il successo sulla seconda 
      guerra mondiale di Spielberg del 1998, Salvate il soldato Ryan, di un realismo 
      devastante nel cogliere l’orrore del combattimento militare, celebra 
      le virtù marziali nell’eroismo e nell’onore dei soldati 
      americani. 
      Tutto questo prima di arrivare a La passione di Cristo di Mel Gibson, il 
      film del 2004 che è diventato il punto critico delle guerre culturali 
      nazionali. Un racconto devoto e emotivamente toccante della crocifissione 
      di Cristo in aramaico e latino, due lingue morte, La passione di Cristo 
      ha riempito le sale di tutto il mondo di evangelici tradizionalisti e cattolici, 
      molti dei quali vanno di rado al cinema. Nonostante sia stato ferocemente 
      (e ingiustamente) criticato per essere intollerante e antisemita, La passione 
      di Cristo, costato 30 milioni di dollari, ne ha incredibilmente incassati 
      370 negli Stati Uniti e 240 all’estero, facendone uno dei casi cinematografici 
      più sensazionali di tutti i tempi.
      Le dimensioni del mercato per questi film conservatori diventarono chiare 
      per la prima volta fra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei 
      Settanta, quando Hollywood smise quasi di produrne. Spazzata dallo spirito 
      rivoluzionario dell’epoca, l’industria abbandonò il suo 
      codice di produzione vecchio di decenni – che imponeva il rispetto 
      per il matrimonio, le forze dell’ordine e la religione e proibiva 
      le bestemmie e la nudità – e si dedicò a film adattati 
      a una «generazione ribelle... che sfidava ogni principio caro alla 
      società americana», come dicevano con soddisfazione gli studiosi 
      cinematografici Seth Cagin e Philip Dray. L’Hollywood dell’era 
      del codice di produzione non aveva ignorato la faccia più in ombra 
      dell’esistenza umana, ma persino i film noir più cinici non 
      erano niente rispetto a quello che si sarebbe visto. I film controculturali 
      della “nuova Hollywood” – come Bonnie e Clyde, violento 
      e pro criminale, di Arthur Penn (1967), m.a.s.h., la cinica commedia contro 
      la guerra di Robert Altman (1970), Shampoo, il sordido peana alla rivoluzione 
      sessuale di Hal Ashby (1975) e l’incubo urbano di Martin Scorsese 
      Taxi Driver (1976) – entusiasmarono i critici, che ne condividevano 
      le posizioni antiamericane e contro l’establishment.
      Ma gli spettatori non apprezzarono. L’affluenza settimanale ai cinema 
      nel 1967, il primo anno dopo che Hollywood aveva abbandonato il codice di 
      produzione, crollò a 17,8 milioni di spettatori, dai 38 milioni dell’anno 
      precedente (la televisione aveva già eroso la frequentazione del 
      cinema dai 90 milioni di spettatori settimanali della fine degli anni Quaranta). 
      «In un solo anno», osserva Medved, «erano scomparsi più 
      della metà degli spettatori, di gran lunga il declino più 
      grave nella storia dell’industria cinematografica registrato in un 
      anno». Nei tre decenni seguenti l’audience si aggirava sui 20 
      milioni di spettatori, nonostante la popolazione degli Stati Uniti aumentasse.
      Non è strano che tanti rimangano a casa. Ancora dominata da tipi 
      controculturali, Hollywood continua a sfornare film “spigolosi” 
      – per molti, per esempio, i minori di 17 anni devono essere accompagnati 
      – e gli americani continuano a bocciarli, come dimostra la correlazione 
      fra i profitti e il divieto. Solo cinque dei cinquanta film campioni di 
      incasso di tutti i tempi avevano facevano parte di questa categoria e tredici 
      dei primi cento. Un grande studio condotto nel 2005 dalla Dove Foundation, 
      ha preso in esame i 3000 film hollywoodiani più distribuiti dal 1989 
      a tutto il 2003 in ogni categoria. Hanno scoperto che i film che richiedono 
      la presenza dei genitori per i bambini o per i minori di 13 anni incassano 
      in media fra le tre e le quattro volte più di quelli vietati ai minori 
      di 17 – e che i film per tutti, come il documentario naturalista di 
      quest’anno La marcia dei Pinguini, sono ancora più redditizi. 
      Il film vietato ai minori in media perde 6,9 milioni di dollari; il film 
      che richiede la presenza dei genitori in media ne guadagna 30; il film per 
      tutti tipico guadagna oltre 70 milioni di dollari. E uno studio della Christian 
      Film and Television Commission sull’accoglienza ai botteghini dei 
      primi 250 film degli ultimi tre anni, ha scoperto che i film che esprimono 
      un forte messaggio morale tradizionale, a qualunque categoria appartengano, 
      hanno guadagnato fra le quattro e le sette volte di più dei film 
      che portavano avanti il programma culturale della sinistra.
      Hollywood deve i suoi migliori anni recenti – il 2002 e il 2003 quando 
      ha raggiunto i 30 milioni di biglietti venduti per la prima volta dal 1966 
      – principalmente all’enorme successo di un pugno di film conservatori 
      per le famiglie, fra cui i primi due episodi de Il Signore degli Anelli, 
      Alla ricerca di Nemo, e il successo low-budget de Il mio grosso grasso matrimonio 
      greco, in pratica un Father knows best etnico. Questi film richiamano più 
      bambini nei cinema, come ci si può immaginare, e anche più 
      spettatori dai quarant’anni in su – i loro genitori. «In 
      America il maggior segmento di consumatori è rappresentato dalle 
      famiglie con valori tradizionali», sottolinea il presidente della 
      Dove, Dick Rolfe. Il capo dell’Associazione nazionale dei proprietari 
      di teatri, John Fithian, aggiunge: «I valori familiari vendono biglietti».
      C’è un semplice motivo per cui Tinseltown sforna così 
      tanti flop commerciali. I produttori d’élite vogliono fare 
      denaro, ovvio – ne vogliono fare sempre, molto, ma non tanto quanto 
      potrebbero farne. Dare al pubblico quello che vuole non è la loro 
      motivazione principale. È più importante la loro voglia di 
      essere riconosciuti come artisti dai loro pari, dai critici e dalle élite 
      di sinistra, dice lo scrittore e regista nominato agli Oscar e agli Emmy, 
      Lionel Chetwybd, uno dei conservatori di Hollywood che si fa più 
      sentire. «E dagli anni Sessanta in poi è vero che, se si vuole 
      essere riconosciuti come artisti, bisogna essere di sinistra – bisogna 
      prendersela con il governo, essere arrabbiati», aggiunge. Avere la 
      giusta visione artistica può implicare anche altri vantaggi sociali. 
      «Facendo qualcosa che abbia successo commerciale e piaccia a un pubblico 
      vasto, come Gli Incredibili, si hanno meno possibilità di portarsi 
      a letto una sosia di Rebecca Romjin che facendo materiale oscuro, incisivo 
      e acclamato dalla critica come Million Dollar Baby», dice Medved che 
      da tempo studia Hollywood.
      A rinsaldare ulteriormente gli orientamenti di sinistra di Hollywood ci 
      sono i gruppi di interesse che controllano i contenuti delle sceneggiature 
      alla ricerca di contenuti “offensivi” – cioè non 
      politically correct. È una pressione che può trasformare profondamente 
      il progetto di un film, come vi confermerà Tom Clancy. Nel suo romanzo 
      The sum of all fear, dei terroristi musulmani fanno esplodere un’arma 
      nucleare al Super Bowl. Quando si iniziò a lavorare al film, il Council 
      on American Islamic Relations si mise all’opera. I cattivi del film 
      del 2002: neonazisti bianchi, non fanatici musulmani. Alcune compagnie di 
      produzione di Hollywood hanno uffici che contattano i gruppi di interesse 
      per esaminare potenziali sceneggiature. «Tenete conto [che] spesso 
      l’fbi o il governo o le imprese sono i cattivi perché tutti 
      gli altri hanno un gruppo di sostenitori», indica Jack Valenti, l’ex 
      capo della Motion Picture Association.
 La 
      dittatura del politically correct
 
      La 
      dittatura del politically correct
      Il politically correct, inculcato nelle teste degli sceneggiatori ancora 
      prima che i difensori si lamentino, può produrre strane inconsistenze. 
      True crime, dello scrittore e sceneggiatore Andrew Klavan, racconta di un 
      uomo bianco innocente detenuto nel braccio della morte, mandato in prigione 
      con false accuse perché i funzionari dovevano dimostrare che la pena 
      di morte non viene applicata in maniera razzista. «L’unico che 
      riesce a capire la questione è un giornalista politicamente scorretto, 
      che riesce a districarsi in un mare di menzogne», riferisce Klavan. 
      L’avvincente versione del 1999, diretta da Clint Eastwood che interpretava 
      anche il giornalista Steve Everett, trasforma il detenuto innocente del 
      braccio della morte in un nero (interpretato da Isaiah Washington). Il film 
      funziona, ma toglie al romanzo di Klavan il suo taglio anti-politically 
      correct.
      Ma nel film rimane una sequenza in cui una donna nera affronta il giornalista 
      Everett accusandolo di interessarsi solo delle ingiustizie contro i bianchi 
      e non contro i neri – anche se ora il film si svolge intorno alla 
      implacabile lotta del reporter per scagionare un afroamericano ingiustamente 
      condannato. «Quella scena non ha più senso», ride Klavan. 
      «A quanto pare lo sceneggiatore trovava l’originale politicamente 
      inappropriato».
      Anche così, scossa dall’enorme successo de La Passione di Cristo, 
      Hollywood sembra iniziare a capire che sta trascurando gran parte del suo 
      potenziale pubblico. «Quando qualcosa fa quasi 400 milioni di dollari 
      ai botteghini americani e non è in inglese, fa una certa impressione» 
      dice l’ex capo della Universal Picture, Frank Price. Il New York Times 
      a luglio ha scritto che gli studios hanno ingaggiato «esperti nuovi 
      di zecca in marketing cristiano» per aiutarli a vendere film con contenuti 
      religiosi o familiari nell’America degli Stati rossi. Dopo aver ignorato 
      Gibson quando cercava finanziamenti per La Passione di Cristo – è 
      noto che ha dovuto finanziarsi da solo – gli studios hanno fatto la 
      fila per distribuire il suo film successivo, Apocalypto in lingua Maya, 
      e alla fine l’ha spuntata la Disney.
      Ma un film scaturisce da una visione del mondo, ed è difficile che 
      la Hollywood di Barbra Streisand, Rob Reiner e Alec Baldwin possa capirla. 
      Murty di Libertas racconta che un agente pubblicitario del costosissimo 
      flop di Ridley Scott, del 2005, Le Crociate, chiese a lei e a suo marito, 
      il produttore Jason Apuzzo, dei suggerimenti per pubblicizzare il film fra 
      i conservatori e i cristiani. Invitati a una proiezione per la stampa insieme 
      ad altri rappresentanti di vari gruppi cristiani, i due guardavano increduli 
      il film che si apriva con un prete cattolico che decapitava una donna, rubandole 
      il rosario – e continuava sullo stesso tono, presentando invece i 
      musulmani come nobili e saggi. «Nel film ogni singola persona associata 
      con la Chiesa è un assassino o un bugiardo. E pensavano davvero che 
      questa cosa sarebbe piaciuta ai cristiani», racconta Murty. «Questa 
      gente vive completamente sigillata a West Hollywood e non si rendeva conto 
      di quanto fosse offensivo il film».
      Malgrado questo, molti indizi suggeriscono che il cambiamento della posizione 
      culturale di Hollywood potrebbe implicare cambiamenti più drastici 
      della semplice assunzione di nuovi agenti di marketing. Tanto per cominciare, 
      a Hollywood inizia a crescere la presenza della destra, compresi importanti 
      giovani produttori come Mike De Luca di DreamWorks e Gavin Pollone, e sceneggiatori 
      in ascesa come Craig Mazin, Cyrus Nowrasteh e Klavan. Inoltre, se è 
      vero quello che si dice, molti dei tipi nuovi di Hollywood sono di destra, 
      ma non lo dicono pubblicamente per non danneggiarsi la carriera in una città 
      ancora di sinistra. «Diventa sempre più chiaro che una significativa 
      maggioranza dei giovani che arrivano a Hollywood è conservatrice», 
      opinava Chetwynd quest’estate. Lo scorso autunno, la denuncia della 
      rivista Details “Giovani e repubblicani a Hollywood” causò 
      grande scompiglio, rivelando che l’attore comico Adam Sandler, l’attore 
      Freddie Prinze Jr. e altri erano segretamente di destra. Il documentario 
      di amc Rated R:Republicans in Hollywood, del 2004, diretto dall’ex 
      speechwriter democratico Jesse Mosse, conclude che Hollywood si sposterà 
      a destra man mano che quelli con meno di quarant’anni diventano il 
      suo nuovo establishment. A rinforzare un’istituzione come il Wednesday 
      Morning Club di David Horowitz, che ospita oratori conservatori per ascoltatori 
      mentalmente aperti, ci sono nuovi salotti di destra come Hollywood Congress 
      of Republicans e il discreto Sunday Evening Club, per quelli ancora più 
      di destra.
      Se uno che detta la moda come Polone (onorato da una scintillante storia 
      di copertina sul New York Time Magazine nel 2004) osserva che «il 
      nostro paese è molto più conservatore di quanto credesse l’industria 
      dell’intrattenimento, che farebbe una cosa furba cominciando a spostarsi 
      in quella direzione», allora possiamo scommettere che il nuovo establishment 
      di Hollywood sarà molto diverso da quello che sta per essere sostituito.
      Nessuno sembra più in grado di spostare Hollywood a destra del miliardario 
      Philip Anschutz, il cui Anschutz Film Group dirige due studios: Walden Media 
      e Bristol Bay Productions. Non molto tempo fa Anschutz, che possiede di 
      tutto, dai giacimenti petroliferi alle ferrovie ai giornali ed è 
      uno dei maggiori finanziatori di cause conservatrici, ha deciso di diventare 
      un Louis B. Mayer del Ventunesimo secolo. Il suo programma: produrre film 
      sulla natura umana per le famiglie. «Vogliamo che siano divertenti, 
      ma anche in favore della vita e con un messaggio morale», ha detto 
      agli studenti dell’Hilsday College l’anno scorso. Secondo Anschutz 
      questi film offrono un’enorme opportunità di mercato.
      «L’industria di Hollywood talvolta tende ad essere un’isola 
      e non comprende bene il mercato», spiegava. Ma ha anche «visto 
      l’opportunità di tentare dei piccoli miglioramenti nella cultura».
      Come un grande produttore cinematografico di altri tempi, Anschutz ha definito 
      bene la distribuzione. La sua Regal Entertainment è la più 
      grande catena di sale cinematografiche degli Stati Uniti, e copre circa 
      il 18 per cento di tutti i cinema al coperto. Sta molto attento al processo 
      creativo. «Succedono molte cose fra il momento in cui nasce l’idea 
      di un film e quello in cui il prodotto arriva al cinema – e la maggior 
      parte sono cose brutte», diceva ai suoi ascoltatori dell’Hillsdale. 
      «Quindi bisogna controllare il tipo di scrittori che hai, il tipo 
      di registi che riesci ad avere, il tipo di attori che impieghi e il tipo 
      di editori che lavora sul prodotto finale».
      Anschutz, per esempio, pretese che il regista Taylor Hackford rivedesse 
      il film biografico su Ray Charles del 2004, Ray, moderando l’attenzione 
      che era stata data ai problemi di droga e alle prestazioni sessuali del 
      musicista. Dopo aver minacciato di buttare tutto a monte, Hackford si adeguò 
      alla visione di Anschutz più per le famiglie. Il film che ne è 
      venuto fuori è un onesto – senza sforzi di cancellare la droga 
      e le donne – ma in fondo fiducioso racconto della costanza di Charles 
      nel combattere i grandi handicap rappresentati dalla sua cecità e 
      dalle sue pecche morali e dal razzismo della società. Il film – 
      finanziato interamente da Anschutz dopo che tutti i più grandi studios 
      l’avevano rifiutato – ottenne cinque nomination all’Oscar 
      vincendone due, compresa quella per il migliore attore, che andò 
      a Jamie Foxx nel ruolo del protagonista.
      Anschutz è partito in maniera straordinaria, non solo per Ray. L’agrodolce 
      Because of Winn-Dixie, basato su un romanzo per bambini di Kate DiCamillo, 
      racconta la storia di una bambina di dieci anni, Opal (la nuova arrivata 
      Annasophia Robb) e del padre predicatore (Jeff Daniels), che all’inizio 
      del film si sono appena trasferiti in una modesta cittadina della Florida. 
      La madre di Opal, che non sopportava di essere la moglie di un predicatore, 
      aveva abbandonato la famiglia diversi anni prima. Senza sentimentalismi, 
      il film cattura il dolore e la solitudine che il divorzio causa ai bambini. 
      Descrivendo con naturale simpatia sia l’America delle piccole città 
      che la fede battista, Winn-Dixie ha coperto la maggior parte del suo modesto 
      costo di produzione, 14 milioni di dollari, nel primo weekend di proiezione 
      e al momento è uno dei Dvd più venduti nel paese.
      Ma lo sforzo più ambizioso di Anschutz, costato 150 milioni di dollari, 
      è l’adattamento di Le cronache di Narnia: il leone, la strega 
      e l’armadio di D. S. Lewis, una coproduzione Walden Media-Disney – 
      la prima di quella che Anschutz spera diventerà un franchising di 
      lungo corso. I libri di Narnia – una vasta allegoria della resurrezione 
      di Cristo – hanno venduto 120 milioni di copie in tutto il mondo, 
      «più di Harry Potter e del Signore degli Anelli», osserva 
      Anschutz suggerendo un potenziale ai botteghini da far strabuzzare gli occhi. 
      Per pubblicizzare il film, la Walden lavorerà a stretto contatto 
      con le organizzazioni cristiane. 
 Due 
      festival per il rinascimento del cinema conservatore
 
       Due 
      festival per il rinascimento del cinema conservatore
      Un terzo segno del fatto che il mondo del cinema sta diventando meno monolitico 
      dal punto di vista culturale, è stato dato l’anno scorso dal 
      lancio di due festival conservatori annuali: l’American Film Reinassance 
      Festival a Dallas (che presto si estenderà ad altre città) 
      e il Liberty Film Festival a Hollywood. Con film dal contenuto conservatore, 
      gruppi di dibattito, premi ed altri eventi, entrambi hanno avuto enorme 
      successo di pubblico e una vasta copertura della stampa, compresi articoli 
      su Time e Usa Today.
      Il festival ha anche prodotto inestimabili opportunità per stringere 
      rapporti. Dopo una conferenza di Michael Medved all’American Film 
      Reinassance, mi ha raccontato il co-fondatore del festival Jim Hubbard, 
      molti aspiranti filmmaker nel pubblico hanno sventolato dvd già finiti, 
      lamentandosi che non trovavano chi li distribuisse. «Eccomi qua», 
      ha annunciato David Goodman, che aveva appena inaugurato la sua compagnia 
      di distribuzione. Rapidamente si è messo a firmare accordi di distribuzione 
      per diversi film, fra i quali Is it true what they say about Ann?, un divertente 
      documentario sulla polemista Ann Coulter, terrore dei liberal (ha firmato 
      la maglietta di uno studente universitario di sinistra con: «Buon 
      divertimento a Guantanamo!»).
      In entrambi i festival gli aggressivi documentari indipendenti hanno fatto 
      la parte del leone; molti, come Celsius 41.11: the temperature at which 
      the brain begins to die, erano acute confutazioni dell’opera mendace 
      di Michael Moore. Il vincitore del premio per il miglior documentario al 
      Liberty Film Festival è stato In the face of evil di Stephen Bannon 
      e Timothy Walkin, basato sul bestseller di Peter Schweitzer, Reagan’s 
      war. Lo spettatore va via dall’intelligente resoconto degli sforzi 
      anticomunisti di Reagan, dai suoi giorni a Hollywood negli anni Quaranta 
      alla caduta del Muro di Berlino, con un senso della grandezza del presidente 
      scomparso – e della importanza decisiva della leadership politica. 
      «Avendoli vissuti, mi sono commosso per il dettaglio e l’emozione 
      con cui quei tempi sono stati trasposti nel film», ha detto l’ex 
      presidente polacco Lech Walesa.
      Se i festival hanno generato una potenziale star dei documentari, questo 
      è Evan Coyne Maloney, 33 anni, un affabile ex sviluppatore di software. 
      Il suo divertente e inquietante corto di 45 minuti, Brainwashing 101, denuncia 
      le angherie del politically correct in diverse università. In una 
      sequenza rivelatrice, il pomposo professore di economia della Bucknell, 
      Geoffrey Schneider ammette allegramente il suo desiderio di sovvertire i 
      valori che gli studenti hanno imparato dai loro genitori. «Immaginate 
      il tipico studente molto benestante di Bucknell che segue un corso che è 
      una critica del capitalismo e spesso dice cose come: “I vostri genitori 
      fanno cose terribile nel mondo, direttamente o indirettamente”» 
      si vanta Schneider. Il “grande pericolo” di Bucknell secondo 
      Schneider? «I nostri amministratori ogni tanto parlano di intervenire 
      nel programma per garantire che vi siano abbastanza prospettive diverse». 
      Orrore!
      Questi documentari rappresentano i primi sforzi della destra per competere 
      su un terreno cinematografico a lungo dominato dalla sinistra. È 
      uno sviluppo cruciale, dice Lee Troxler, una volta aiutante di Reagan che 
      ha contribuito a scrivere e produrre Farenhype 9/11, una sobria confutazione 
      del grande successo polemico di Moore, Farenheit 9/11, che è stato 
      mostrato in 500 università e ha venduto mezzo milione di dvd. «Come 
      il pamphlet era lo strumento di persuasione scelto durante la Rivoluzione 
      americana, così il documentario oggi è diventato un importante 
      strumento nella cultura e nella politica», sostiene Troxler. «Si 
      può produrre in pochissimo tempo, senza spendere molti soldi – 
      grazie alla tecnologia». Anche il co-direttore del documentario su 
      Reagan, Bannon, un conservatore cattolico, è entusiasta del mezzo. 
      «Se le ultime elezioni hanno dimostrato una cosa, è che è 
      la cultura che guida la politica», ha detto al New York Times a giugno. 
      «Voglio prendere una forma che ora è appannaggio della sinistra 
      – il documentario – e usarla per guidare un programma politico 
      generale a favore della cultura della vita».
      Dopo aver a lungo usato la Hollywood di sinistra come un punching ball politico, 
      i conservatori stanno adottando l’approccio “se non puoi sconfiggerli, 
      unisciti a loro”. Se riescono a creare un cinema popolare che rifletta 
      nell’arte la visione di destra del mondo – senza imporla rudemente 
      – per la destra sarebbe un enorme vantaggio nella lotta politica attualmente 
      in corso in America. In fondo, non saranno solo la ragione e le analisi 
      a decidere il risultato di quelle battaglie. L’immaginazione e il 
      cuore – i ferri del mestieri della Dream Factory – giocheranno 
      un ruolo almeno altrettanto importante.
(© City Journal)
(Traduzione 
      dell’inglese di Barbara Mennitti)
    
       Brian C. Anderson, giornalista e saggista, è senior editor del City 
      Journal. Ha scritto per il New York Post, il Washington Times e The Public 
      Interest. È autore del libro South Park Conservatives.
 
      Brian C. Anderson, giornalista e saggista, è senior editor del City 
      Journal. Ha scritto per il New York Post, il Washington Times e The Public 
      Interest. È autore del libro South Park Conservatives. 
      
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