È stato difficile la scorsa estate fare la parodia della stralunata
sinistra da limousine. «Sto facendo outing», strombazzava l’attrice
Jane Fonda riferendosi al progetto di fare un tour in autobus contro la
guerra in Iraq (fortunatamente poi cancellato). «Non ho preso posizione
su nessuna guerra dai tempi del Vietnam» – se “posizione”
è la parola giusta per la sua festa d’amore con il nemico del
1972. La Paramount ha annunciato che il regista complottista Oliver Stone,
che ha descritto la “rivolta” terroristica dell’11 settembre
come un legittimo “vaffanculo, vaffanculo ai vostri ordini”
rivolto (fra tutte le cose possibili) all’industria cinematografica
americana che controlla la cultura, dirigerà il primo grande dramma
di Tinseltown (Hollywood, ndt) sugli attacchi. David Koepp, coautore del
remake di Steven Spielberg de La Guerra dei Mondi, ha reso gli alieni devastatori
simili ai militari americani in Iraq. E sul sito dell’Huffington Post
celebrità di sinistra come Rob Reiner e Laurie David quotidianamente
si indignavano per gli oltraggi del presidente Bush alle libertà
civili, alla Madre Terra e a tutto quello che si conviene.
Ma indovinate un po’: sempre più americani evitano i prodotti
di Hollywood – e il disgusto per la politica della Left Coast, dentro
e fuori dallo schermo, gioca sicuramente un ruolo. In un periodo in cui
si va sempre meno al cinema, si scopre che sono i film conservatori a spingere
le persone nelle sale – conservatori non tanto dal punto di vista
politico ma da quello culturale e morale, che si occupano, cioè,
della lotta fra il bene e il male, del valore dell’eroismo e del sacrificio
di se stessi, dell’indispensabilità dei valori familiari e
dell’onore marziale e dell’esistenza della Verità. Hollywood
produceva in abbondanza film di questo tipo – guardate quasi ogni
film della sua Golden Age negli anni Trenta e Quaranta – e ne fa ancora
uno ogni tanto (a volte grazie a registi di sinistra non allineati come
Steven Spielberg). Probabilmente in futuro ne vedremo molti di più.
È fuori di dubbio che Hollywood barcolli. La frequentazione dei cinema
è scesa del 12 per cento dall’anno scorso e un sondaggio di
maggio di Usa Today, Cnn e Gallup ha dimostrato che quasi la metà
degli americani va al cinema meno di quanto faceva nel 2000. Alcuni danno
la colpa all’aumento dei prezzi dei biglietti, ma in proporzione i
biglietti costano meno di 25 anni fa. Altri credono che sia colpa dei dvd,
però anche le vendite dei dvd crollano. La spiegazione più
probabile è la politica di sinistra. «Si può far risalire
il declino del box-office alla fine dell’estate del 2004, con l’intensificarsi
della campagna elettorale per la presidenza – osserva il critico cinematografico
e conduttore radiofonico conservatore, Michael Medved – Non si trattava
solo dell’ostilità di Hollywood verso il presidente Bush; era
partigianeria nuda e cruda».
Se anche solo uno elettore di Bush su dieci avesse boicottato Hollywood
dopo aver sentito l’ultima diatriba anti-Bush di Tim Robbins o dopo
aver visto l’ennesimo mascalzone conservatore (il sosia di Dick Cheney
che quasi distruggeva il mondo in The day after tomorrow dell’anno
scorso), si tratterebbe di 6 milioni di spettatori in meno, indica Medved.
«Ed è proprio questo che molti nell’industria cinematografica
non capiscono: quando esprimi ostilità ai conservatori, molti americani
la percepiscono come rivolta a se stessi».
I sondaggi confermano la teoria di Medved. Un sondaggio dell’Hollywood
Reporter scopre che quasi un americano su due potrebbe evitare un film con
un attore di cui non condivide le opinioni politiche. «La politica
ha sicuramente un impatto – osserva Govindini Murty, attrice e curatrice
di Libertas, un importante blog cinematografico conservatore – Le
aziende automobilistiche insultano forse i repubblicani nelle pubblicità?».
Quando Hollywood mette da parte la sua visione di sinistra del mondo per
fare film che incarnano i valori tradizionali, spesso riscuote grande successo
di pubblico. Prendete per esempio Spider-Man 2 del 2004, un seguito di molto
migliore dell’originale. Diretto da Sam Raimi, il film è una
meraviglia visuale: le scene dell’Uomo Ragno (interpretato dal tranquillo
Tobey Maguire) che batte il tentacolare ex benefattore dell’umanità,
ora terrorista Doctor Octopus (Alfred Molina) nel cielo di New York –
furiosi grovigli di pugni, bracci meccanici, vetri e pietre in frantumi
– quasi esplode fuori dallo schermo. Spider-Man 2 cattura talmente
lo sguardo, che si potrebbero perdere di vista le verità morali vecchio
stile della storia.
Il film è una favola che parla di dovere ed eroismo. Il giovane Peter
Parker decide di appendere al chiodo il suo costume di Spider-Man, perché
essere un super-eroe – potere conferitogli dal morso di un ragno geneticamente
mutato – gli ha impedito di inseguire i suoi sogni, fra i quali, soprattutto,
quello di conquistare Mary Jane Watson (Kirsten Dunst). Peter Parker prende
questa decisione dopo essere andato da un anziano dottore hippy, la maglietta
dei Grateful Dead sotto il camice bianco che, col vecchio stile “se-ti-fa-stare-bene-fallo”,
gli consiglia: «Puoi sempre scegliere».
E però quando il crimine in città aumenta vertiginosamente
e cresce la minaccia di Doc Ock, la coscienza di Parker non lo lascia tranquillo.
In una scena cruciale, l’affettuosa Zia May (Rosemary Harris), il
perno morale della sua vita, mette le cose a posto. «Tutti amano gli
eroi», gli dice. «Le persone fanno la fila per vederli, li acclamano,
urlano i loro nomi. E anni dopo, raccontano di essere rimasti in piedi per
ore sotto la pioggia, solo per riuscire a vedere velocemente chi ha insegnato
loro a resistere anche solo un secondo in più». La sua vecchia
voce diventa cupa. «Credo che in ognuno di noi ci sia un eroe, che
ci fa essere onesti, ci dà forza, ci rende nobili e, alla fine, ci
permette di morire con onore, anche se a volte dobbiamo essere forti e rinunciare
alle cose che vogliamo di più. Anche ai nostri sogni».
La
cultura conservatrice passa per i supereroi
Colpito dalla sua semplice saggezza, Parker alla fine fa la cosa giusta,
non il suo interesse: Spider-Man ritorna e salva Gotham da Doc Ock. Ma non
prima che un gruppo di viaggiatori rischi la propria vita gettandosi fra
il super-eroe ferito e il suo terrificante nemico, dimostrando che non bisogna
avere superpoteri per essere coraggiosi – una lezione che i newyorkesi
hanno imparato bene dopo l’11 settembre. Il messaggio fondamentale
del film è l’esatto contrario dell’etica del “just
do it” scevra dai sensi di colpa degli anni Sessanta: per vivere una
vita con un significato morale, a volte bisogna scegliere di fare il proprio
dovere. Il film ha avuto un enorme successo di pubblico con un colossale
incasso di 374 milioni di dollari negli Stati Uniti e circa 400 milioni
all’estero. Aggiungeteci le vendite dei dvd e stiamo parlando di un
film da quasi un miliardo di dollari.
Lo splendido cartone animato con i super-eroi della Pixar Studio Gli Incredibili,
del 2004, è stato un altro successo al botteghino – negli Stati
Uniti ha incassato 261 milioni di dollari – con una visione del mondo
sorprendentemente “a destra del centro”. La storia dello scrittore
e regista Brad Bird, divertente per i bambini e per gli adulti, si svolge
intorno a una simpatica famiglia di cinque persone, che casualmente nascondono
il fatto di essere superumani. Come altri con abilità superiori,
i genitori Bob e Helen Parr (una volta Mister Incredible e Elastigirl) si
sono “ritirati” grazie al “programma di trasferimento
dei super-eroi” del governo federale. Il fatto è che avvocati
maniaci degli illeciti civili, avevano intentato ai super-eroi un sacco
di azioni legali spurie per conto di chi era stato salvato – «Non
ha chiesto di essere salvato, non voleva essere salvato», lamentava
istrionicamente un avvocato – ed era diventato impossibile usare le
capacità speciali senza incorrere nella rovina finanziaria. I Parr
ora crescono i loro figli in un tipico sobborgo americano, apparentemente
una famiglia come tutte le altre.
La difesa dell’eccellenza – e la frustrazione per la guerra
del politically correct contro di essa – è un tema centrale
de Gli Incredibili, come nella scena in cui Helen rimprovera Bob per non
essere andato alla “promozione” del figlio Dash dalla quarta
elementare. «È psicotico», tuona Bob. «Continuano
a creare nuove maniere per celebrare la mediocrità, ma se qualcuno
è davvero eccezionale...». In un’altra scena, Dash vuole
prendere parte agli sport scolastici, ma Helen dice che la sua super-velocità
renderebbe la cosa ingiusta. «Papà diceva sempre che non dovevamo
vergognarci dei nostri poteri – sono loro che ci rendono speciali»,
si lamenta Dash. «Tutti sono speciali, Dash», risponde stancamente
la madre. «È solo un modo come un altro per dire che non lo
è nessuno», risponde Dash tetramente.
Il cattivo del film, lo scienziato pazzo Syndrome, invidioso di quelli con
i superpoteri (perché non ne ha), uccideva gli eroi con la sua tecnologia
avanzata, che poi usava per darsi delle arie. «I tuoi poteri oh così
speciali», ringhiava a Bob. «Gli darò dell’eroismo.
Gli darò l’eroismo più spettacolare che il mondo abbia
mai visto! E quando sarò vecchio, dopo essermi divertito, venderò
le mie invenzioni e tutti potranno avere poteri. Tutti potranno essere super!
E quando tutti sono super... non lo è nessuno».
Gli Incredibili abbraccia con affetto la famiglia borghese con i suoi difetti
e tutto il resto. I Parr hanno le loro difficoltà: la teenager Violet
è bisbetica, i bambini litigano, mamma e papà bisticciano,
Bob odia il suo monotono lavoro da assicuratore. Ma per i ragazzi Parr il
legame familiare è importantissimo: una Violet preoccupata, sospettando
(a torto) che il padre di mezza età possa avere una tresca –
Helen si è precipitata fuori per riprenderlo – dice a Dash:
«La vita di mamma e papà potrebbe essere in pericolo. O peggio
ancora, il loro matrimonio». E i genitori correrebbero qualsiasi rischio
per proteggere i figli, come l’avvincente film dimostra più
di una volta. Come il grande successo della Pixar del 2003, Alla ricerca
di Nemo, il film mostra ai bambini «quello che dovrebbero fare gli
adulti», scrive Federica Mathewes-Green su National Review Online,
«essere coraggiosi e pronti al sacrificio, difendere i figli anche
a rischio della propria vita, dare anche di fronte all’ingratitudine».
Spider-Man 2 e Gli Incredibili non sono gli unici film recenti che hanno
portato sullo schermo valori conservatori, conquistando un pubblico entusiasta.
Cast Away di Robert Zemeckis (2000) è un Robinson Crusoe moderno,
in cui Tom Hanks interpreta Chuck Noland, un tecnico della Federal Express
isolato per anni su un’isola deserta. Il film ci rende profondamente
consapevoli dei vantaggi – l’immenso progresso umano –
di una società capitalistica avanzata. (Cosa strana per Hollywood,
Cast Away dipinge una grande compagnia come un’organizzazione premurosa
ed efficiente: quando Nolan ritorna dopo essere stato salvato, la FedEx
lo accoglie come un familiare disperso da molto tempo). Per il naufrago
Noland un dente marcio è un problema quasi letale, trovare un sorso
di acqua fresca da bere una questione di sopravvivenza. «Zemeckis
e [lo sceneggiatore William] Broyles mettono la parola fine alla causa Locke
v. Rousseau, schierandosi chiaramente dalla parte della civilizzazione»,
scrive il critico Jonathan Last. «Non c’è niente di romantico
né di bello nell’isola in cui Noland è bloccato. È
una prigione». La sopravvivenza di Noland dipende dai rovinati detriti
della civilizzazione: i pacchetti della FedEx che si trovavano nel suo aeroplano
distrutto e la porta di una toilette chimica, che diventa una vela di fortuna.
Cast Away rifiuta senza troppo clamore anche la rivoluzione sessuale. Quando
ritrova il suo vero amore, Kelly, Noland scopre che si è sposata
ed è diventata madre. L’incontro è travolgente per entrambi
– è evidente che Kelly ama ancora Noland, e sappiamo che il
suo amore per lei ha dato a Noland la forza di sopportare anni di solitudine.
Ma Noland riconosce che la sua felicità non è la cosa più
importante. «Devi andare a casa ora», dice a Kelly con gli occhi
pieni di lacrime: ora c’è di mezzo una famiglia e la famiglia
è l’istituzione fondamentale dell’ordine civilizzato
nel quale è appena tornato.
Alla fine, riflettendo, Noland capisce che per sopravvivere sull’isola
serviva qualcosa di più della razionalità, per quanto importante;
gli era stato necessario qualcosa come la fede. Dopo essere stato salvato,
racconta a un gruppo di amici che da naufrago, in preda alla disperazione,
aveva tentato – senza riuscirci – di suicidarsi. «Non
avevo potere su niente», ricorda. «Ed è stato allora
che ho sentito quel sentimento su di me, come una coperta calda. In qualche
modo sapevo che dovevo restare in vita. In qualche modo... anche se non
c’era nessun motivo per sperare. E la logica mi diceva che non avrei
mai più visto questo posto... E un giorno la mia logica si è
dimostrata sbagliata, perché è arrivata la marea e mi ha portato
via». Forse abbiamo bisogno di qualcosa di più della semplice
logica per innalzarci al di sopra della natura animale e diventare completamente
umani, lascia intendere Cast Away. Anche se il regista Zemeckis per molti
aspetti appartiene all’establishment di sinistra di Hollywood, questo
è un film profondamente conservatore, come il suo precedente colosso
Forrest Gump, che i conservatori applaudono come un ripudio degli anni Sessanta.
I
film per la famiglia trainano il mercato
Le virtù marziali, a lungo dileggiate dalla sinistra hollywoodiana,
hanno vissuto un ritorno sul grande schermo più o meno negli ultimi
cinque anni. Il travolgente adattamento di Peter Jackson della trilogia
de Il Signore degli Anelli di J. R. R. Tolkien (2001-2003) parla della necessità
che gli uomini e le donne liberi si ribellino con la forza al male totalitario
– e del potere di corrompere dall’interno anche le persone migliori.
Molti osservatori hanno riscontrato delle somiglianze fra l’orrore
distruttivo di Mordor nel film e gli islamofascisti che oggi minacciano
l’Occidente, così come i lettori del libro di Tolkien avevano
fatto col nazismo. I film hanno incassato oltre un miliardo di dollari negli
Stati Uniti e il doppio all’estero. Anche il successo sulla seconda
guerra mondiale di Spielberg del 1998, Salvate il soldato Ryan, di un realismo
devastante nel cogliere l’orrore del combattimento militare, celebra
le virtù marziali nell’eroismo e nell’onore dei soldati
americani.
Tutto questo prima di arrivare a La passione di Cristo di Mel Gibson, il
film del 2004 che è diventato il punto critico delle guerre culturali
nazionali. Un racconto devoto e emotivamente toccante della crocifissione
di Cristo in aramaico e latino, due lingue morte, La passione di Cristo
ha riempito le sale di tutto il mondo di evangelici tradizionalisti e cattolici,
molti dei quali vanno di rado al cinema. Nonostante sia stato ferocemente
(e ingiustamente) criticato per essere intollerante e antisemita, La passione
di Cristo, costato 30 milioni di dollari, ne ha incredibilmente incassati
370 negli Stati Uniti e 240 all’estero, facendone uno dei casi cinematografici
più sensazionali di tutti i tempi.
Le dimensioni del mercato per questi film conservatori diventarono chiare
per la prima volta fra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei
Settanta, quando Hollywood smise quasi di produrne. Spazzata dallo spirito
rivoluzionario dell’epoca, l’industria abbandonò il suo
codice di produzione vecchio di decenni – che imponeva il rispetto
per il matrimonio, le forze dell’ordine e la religione e proibiva
le bestemmie e la nudità – e si dedicò a film adattati
a una «generazione ribelle... che sfidava ogni principio caro alla
società americana», come dicevano con soddisfazione gli studiosi
cinematografici Seth Cagin e Philip Dray. L’Hollywood dell’era
del codice di produzione non aveva ignorato la faccia più in ombra
dell’esistenza umana, ma persino i film noir più cinici non
erano niente rispetto a quello che si sarebbe visto. I film controculturali
della “nuova Hollywood” – come Bonnie e Clyde, violento
e pro criminale, di Arthur Penn (1967), m.a.s.h., la cinica commedia contro
la guerra di Robert Altman (1970), Shampoo, il sordido peana alla rivoluzione
sessuale di Hal Ashby (1975) e l’incubo urbano di Martin Scorsese
Taxi Driver (1976) – entusiasmarono i critici, che ne condividevano
le posizioni antiamericane e contro l’establishment.
Ma gli spettatori non apprezzarono. L’affluenza settimanale ai cinema
nel 1967, il primo anno dopo che Hollywood aveva abbandonato il codice di
produzione, crollò a 17,8 milioni di spettatori, dai 38 milioni dell’anno
precedente (la televisione aveva già eroso la frequentazione del
cinema dai 90 milioni di spettatori settimanali della fine degli anni Quaranta).
«In un solo anno», osserva Medved, «erano scomparsi più
della metà degli spettatori, di gran lunga il declino più
grave nella storia dell’industria cinematografica registrato in un
anno». Nei tre decenni seguenti l’audience si aggirava sui 20
milioni di spettatori, nonostante la popolazione degli Stati Uniti aumentasse.
Non è strano che tanti rimangano a casa. Ancora dominata da tipi
controculturali, Hollywood continua a sfornare film “spigolosi”
– per molti, per esempio, i minori di 17 anni devono essere accompagnati
– e gli americani continuano a bocciarli, come dimostra la correlazione
fra i profitti e il divieto. Solo cinque dei cinquanta film campioni di
incasso di tutti i tempi avevano facevano parte di questa categoria e tredici
dei primi cento. Un grande studio condotto nel 2005 dalla Dove Foundation,
ha preso in esame i 3000 film hollywoodiani più distribuiti dal 1989
a tutto il 2003 in ogni categoria. Hanno scoperto che i film che richiedono
la presenza dei genitori per i bambini o per i minori di 13 anni incassano
in media fra le tre e le quattro volte più di quelli vietati ai minori
di 17 – e che i film per tutti, come il documentario naturalista di
quest’anno La marcia dei Pinguini, sono ancora più redditizi.
Il film vietato ai minori in media perde 6,9 milioni di dollari; il film
che richiede la presenza dei genitori in media ne guadagna 30; il film per
tutti tipico guadagna oltre 70 milioni di dollari. E uno studio della Christian
Film and Television Commission sull’accoglienza ai botteghini dei
primi 250 film degli ultimi tre anni, ha scoperto che i film che esprimono
un forte messaggio morale tradizionale, a qualunque categoria appartengano,
hanno guadagnato fra le quattro e le sette volte di più dei film
che portavano avanti il programma culturale della sinistra.
Hollywood deve i suoi migliori anni recenti – il 2002 e il 2003 quando
ha raggiunto i 30 milioni di biglietti venduti per la prima volta dal 1966
– principalmente all’enorme successo di un pugno di film conservatori
per le famiglie, fra cui i primi due episodi de Il Signore degli Anelli,
Alla ricerca di Nemo, e il successo low-budget de Il mio grosso grasso matrimonio
greco, in pratica un Father knows best etnico. Questi film richiamano più
bambini nei cinema, come ci si può immaginare, e anche più
spettatori dai quarant’anni in su – i loro genitori. «In
America il maggior segmento di consumatori è rappresentato dalle
famiglie con valori tradizionali», sottolinea il presidente della
Dove, Dick Rolfe. Il capo dell’Associazione nazionale dei proprietari
di teatri, John Fithian, aggiunge: «I valori familiari vendono biglietti».
C’è un semplice motivo per cui Tinseltown sforna così
tanti flop commerciali. I produttori d’élite vogliono fare
denaro, ovvio – ne vogliono fare sempre, molto, ma non tanto quanto
potrebbero farne. Dare al pubblico quello che vuole non è la loro
motivazione principale. È più importante la loro voglia di
essere riconosciuti come artisti dai loro pari, dai critici e dalle élite
di sinistra, dice lo scrittore e regista nominato agli Oscar e agli Emmy,
Lionel Chetwybd, uno dei conservatori di Hollywood che si fa più
sentire. «E dagli anni Sessanta in poi è vero che, se si vuole
essere riconosciuti come artisti, bisogna essere di sinistra – bisogna
prendersela con il governo, essere arrabbiati», aggiunge. Avere la
giusta visione artistica può implicare anche altri vantaggi sociali.
«Facendo qualcosa che abbia successo commerciale e piaccia a un pubblico
vasto, come Gli Incredibili, si hanno meno possibilità di portarsi
a letto una sosia di Rebecca Romjin che facendo materiale oscuro, incisivo
e acclamato dalla critica come Million Dollar Baby», dice Medved che
da tempo studia Hollywood.
A rinsaldare ulteriormente gli orientamenti di sinistra di Hollywood ci
sono i gruppi di interesse che controllano i contenuti delle sceneggiature
alla ricerca di contenuti “offensivi” – cioè non
politically correct. È una pressione che può trasformare profondamente
il progetto di un film, come vi confermerà Tom Clancy. Nel suo romanzo
The sum of all fear, dei terroristi musulmani fanno esplodere un’arma
nucleare al Super Bowl. Quando si iniziò a lavorare al film, il Council
on American Islamic Relations si mise all’opera. I cattivi del film
del 2002: neonazisti bianchi, non fanatici musulmani. Alcune compagnie di
produzione di Hollywood hanno uffici che contattano i gruppi di interesse
per esaminare potenziali sceneggiature. «Tenete conto [che] spesso
l’fbi o il governo o le imprese sono i cattivi perché tutti
gli altri hanno un gruppo di sostenitori», indica Jack Valenti, l’ex
capo della Motion Picture Association.
La
dittatura del politically correct
Il politically correct, inculcato nelle teste degli sceneggiatori ancora
prima che i difensori si lamentino, può produrre strane inconsistenze.
True crime, dello scrittore e sceneggiatore Andrew Klavan, racconta di un
uomo bianco innocente detenuto nel braccio della morte, mandato in prigione
con false accuse perché i funzionari dovevano dimostrare che la pena
di morte non viene applicata in maniera razzista. «L’unico che
riesce a capire la questione è un giornalista politicamente scorretto,
che riesce a districarsi in un mare di menzogne», riferisce Klavan.
L’avvincente versione del 1999, diretta da Clint Eastwood che interpretava
anche il giornalista Steve Everett, trasforma il detenuto innocente del
braccio della morte in un nero (interpretato da Isaiah Washington). Il film
funziona, ma toglie al romanzo di Klavan il suo taglio anti-politically
correct.
Ma nel film rimane una sequenza in cui una donna nera affronta il giornalista
Everett accusandolo di interessarsi solo delle ingiustizie contro i bianchi
e non contro i neri – anche se ora il film si svolge intorno alla
implacabile lotta del reporter per scagionare un afroamericano ingiustamente
condannato. «Quella scena non ha più senso», ride Klavan.
«A quanto pare lo sceneggiatore trovava l’originale politicamente
inappropriato».
Anche così, scossa dall’enorme successo de La Passione di Cristo,
Hollywood sembra iniziare a capire che sta trascurando gran parte del suo
potenziale pubblico. «Quando qualcosa fa quasi 400 milioni di dollari
ai botteghini americani e non è in inglese, fa una certa impressione»
dice l’ex capo della Universal Picture, Frank Price. Il New York Times
a luglio ha scritto che gli studios hanno ingaggiato «esperti nuovi
di zecca in marketing cristiano» per aiutarli a vendere film con contenuti
religiosi o familiari nell’America degli Stati rossi. Dopo aver ignorato
Gibson quando cercava finanziamenti per La Passione di Cristo – è
noto che ha dovuto finanziarsi da solo – gli studios hanno fatto la
fila per distribuire il suo film successivo, Apocalypto in lingua Maya,
e alla fine l’ha spuntata la Disney.
Ma un film scaturisce da una visione del mondo, ed è difficile che
la Hollywood di Barbra Streisand, Rob Reiner e Alec Baldwin possa capirla.
Murty di Libertas racconta che un agente pubblicitario del costosissimo
flop di Ridley Scott, del 2005, Le Crociate, chiese a lei e a suo marito,
il produttore Jason Apuzzo, dei suggerimenti per pubblicizzare il film fra
i conservatori e i cristiani. Invitati a una proiezione per la stampa insieme
ad altri rappresentanti di vari gruppi cristiani, i due guardavano increduli
il film che si apriva con un prete cattolico che decapitava una donna, rubandole
il rosario – e continuava sullo stesso tono, presentando invece i
musulmani come nobili e saggi. «Nel film ogni singola persona associata
con la Chiesa è un assassino o un bugiardo. E pensavano davvero che
questa cosa sarebbe piaciuta ai cristiani», racconta Murty. «Questa
gente vive completamente sigillata a West Hollywood e non si rendeva conto
di quanto fosse offensivo il film».
Malgrado questo, molti indizi suggeriscono che il cambiamento della posizione
culturale di Hollywood potrebbe implicare cambiamenti più drastici
della semplice assunzione di nuovi agenti di marketing. Tanto per cominciare,
a Hollywood inizia a crescere la presenza della destra, compresi importanti
giovani produttori come Mike De Luca di DreamWorks e Gavin Pollone, e sceneggiatori
in ascesa come Craig Mazin, Cyrus Nowrasteh e Klavan. Inoltre, se è
vero quello che si dice, molti dei tipi nuovi di Hollywood sono di destra,
ma non lo dicono pubblicamente per non danneggiarsi la carriera in una città
ancora di sinistra. «Diventa sempre più chiaro che una significativa
maggioranza dei giovani che arrivano a Hollywood è conservatrice»,
opinava Chetwynd quest’estate. Lo scorso autunno, la denuncia della
rivista Details “Giovani e repubblicani a Hollywood” causò
grande scompiglio, rivelando che l’attore comico Adam Sandler, l’attore
Freddie Prinze Jr. e altri erano segretamente di destra. Il documentario
di amc Rated R:Republicans in Hollywood, del 2004, diretto dall’ex
speechwriter democratico Jesse Mosse, conclude che Hollywood si sposterà
a destra man mano che quelli con meno di quarant’anni diventano il
suo nuovo establishment. A rinforzare un’istituzione come il Wednesday
Morning Club di David Horowitz, che ospita oratori conservatori per ascoltatori
mentalmente aperti, ci sono nuovi salotti di destra come Hollywood Congress
of Republicans e il discreto Sunday Evening Club, per quelli ancora più
di destra.
Se uno che detta la moda come Polone (onorato da una scintillante storia
di copertina sul New York Time Magazine nel 2004) osserva che «il
nostro paese è molto più conservatore di quanto credesse l’industria
dell’intrattenimento, che farebbe una cosa furba cominciando a spostarsi
in quella direzione», allora possiamo scommettere che il nuovo establishment
di Hollywood sarà molto diverso da quello che sta per essere sostituito.
Nessuno sembra più in grado di spostare Hollywood a destra del miliardario
Philip Anschutz, il cui Anschutz Film Group dirige due studios: Walden Media
e Bristol Bay Productions. Non molto tempo fa Anschutz, che possiede di
tutto, dai giacimenti petroliferi alle ferrovie ai giornali ed è
uno dei maggiori finanziatori di cause conservatrici, ha deciso di diventare
un Louis B. Mayer del Ventunesimo secolo. Il suo programma: produrre film
sulla natura umana per le famiglie. «Vogliamo che siano divertenti,
ma anche in favore della vita e con un messaggio morale», ha detto
agli studenti dell’Hilsday College l’anno scorso. Secondo Anschutz
questi film offrono un’enorme opportunità di mercato.
«L’industria di Hollywood talvolta tende ad essere un’isola
e non comprende bene il mercato», spiegava. Ma ha anche «visto
l’opportunità di tentare dei piccoli miglioramenti nella cultura».
Come un grande produttore cinematografico di altri tempi, Anschutz ha definito
bene la distribuzione. La sua Regal Entertainment è la più
grande catena di sale cinematografiche degli Stati Uniti, e copre circa
il 18 per cento di tutti i cinema al coperto. Sta molto attento al processo
creativo. «Succedono molte cose fra il momento in cui nasce l’idea
di un film e quello in cui il prodotto arriva al cinema – e la maggior
parte sono cose brutte», diceva ai suoi ascoltatori dell’Hillsdale.
«Quindi bisogna controllare il tipo di scrittori che hai, il tipo
di registi che riesci ad avere, il tipo di attori che impieghi e il tipo
di editori che lavora sul prodotto finale».
Anschutz, per esempio, pretese che il regista Taylor Hackford rivedesse
il film biografico su Ray Charles del 2004, Ray, moderando l’attenzione
che era stata data ai problemi di droga e alle prestazioni sessuali del
musicista. Dopo aver minacciato di buttare tutto a monte, Hackford si adeguò
alla visione di Anschutz più per le famiglie. Il film che ne è
venuto fuori è un onesto – senza sforzi di cancellare la droga
e le donne – ma in fondo fiducioso racconto della costanza di Charles
nel combattere i grandi handicap rappresentati dalla sua cecità e
dalle sue pecche morali e dal razzismo della società. Il film –
finanziato interamente da Anschutz dopo che tutti i più grandi studios
l’avevano rifiutato – ottenne cinque nomination all’Oscar
vincendone due, compresa quella per il migliore attore, che andò
a Jamie Foxx nel ruolo del protagonista.
Anschutz è partito in maniera straordinaria, non solo per Ray. L’agrodolce
Because of Winn-Dixie, basato su un romanzo per bambini di Kate DiCamillo,
racconta la storia di una bambina di dieci anni, Opal (la nuova arrivata
Annasophia Robb) e del padre predicatore (Jeff Daniels), che all’inizio
del film si sono appena trasferiti in una modesta cittadina della Florida.
La madre di Opal, che non sopportava di essere la moglie di un predicatore,
aveva abbandonato la famiglia diversi anni prima. Senza sentimentalismi,
il film cattura il dolore e la solitudine che il divorzio causa ai bambini.
Descrivendo con naturale simpatia sia l’America delle piccole città
che la fede battista, Winn-Dixie ha coperto la maggior parte del suo modesto
costo di produzione, 14 milioni di dollari, nel primo weekend di proiezione
e al momento è uno dei Dvd più venduti nel paese.
Ma lo sforzo più ambizioso di Anschutz, costato 150 milioni di dollari,
è l’adattamento di Le cronache di Narnia: il leone, la strega
e l’armadio di D. S. Lewis, una coproduzione Walden Media-Disney –
la prima di quella che Anschutz spera diventerà un franchising di
lungo corso. I libri di Narnia – una vasta allegoria della resurrezione
di Cristo – hanno venduto 120 milioni di copie in tutto il mondo,
«più di Harry Potter e del Signore degli Anelli», osserva
Anschutz suggerendo un potenziale ai botteghini da far strabuzzare gli occhi.
Per pubblicizzare il film, la Walden lavorerà a stretto contatto
con le organizzazioni cristiane.
Due
festival per il rinascimento del cinema conservatore
Un terzo segno del fatto che il mondo del cinema sta diventando meno monolitico
dal punto di vista culturale, è stato dato l’anno scorso dal
lancio di due festival conservatori annuali: l’American Film Reinassance
Festival a Dallas (che presto si estenderà ad altre città)
e il Liberty Film Festival a Hollywood. Con film dal contenuto conservatore,
gruppi di dibattito, premi ed altri eventi, entrambi hanno avuto enorme
successo di pubblico e una vasta copertura della stampa, compresi articoli
su Time e Usa Today.
Il festival ha anche prodotto inestimabili opportunità per stringere
rapporti. Dopo una conferenza di Michael Medved all’American Film
Reinassance, mi ha raccontato il co-fondatore del festival Jim Hubbard,
molti aspiranti filmmaker nel pubblico hanno sventolato dvd già finiti,
lamentandosi che non trovavano chi li distribuisse. «Eccomi qua»,
ha annunciato David Goodman, che aveva appena inaugurato la sua compagnia
di distribuzione. Rapidamente si è messo a firmare accordi di distribuzione
per diversi film, fra i quali Is it true what they say about Ann?, un divertente
documentario sulla polemista Ann Coulter, terrore dei liberal (ha firmato
la maglietta di uno studente universitario di sinistra con: «Buon
divertimento a Guantanamo!»).
In entrambi i festival gli aggressivi documentari indipendenti hanno fatto
la parte del leone; molti, come Celsius 41.11: the temperature at which
the brain begins to die, erano acute confutazioni dell’opera mendace
di Michael Moore. Il vincitore del premio per il miglior documentario al
Liberty Film Festival è stato In the face of evil di Stephen Bannon
e Timothy Walkin, basato sul bestseller di Peter Schweitzer, Reagan’s
war. Lo spettatore va via dall’intelligente resoconto degli sforzi
anticomunisti di Reagan, dai suoi giorni a Hollywood negli anni Quaranta
alla caduta del Muro di Berlino, con un senso della grandezza del presidente
scomparso – e della importanza decisiva della leadership politica.
«Avendoli vissuti, mi sono commosso per il dettaglio e l’emozione
con cui quei tempi sono stati trasposti nel film», ha detto l’ex
presidente polacco Lech Walesa.
Se i festival hanno generato una potenziale star dei documentari, questo
è Evan Coyne Maloney, 33 anni, un affabile ex sviluppatore di software.
Il suo divertente e inquietante corto di 45 minuti, Brainwashing 101, denuncia
le angherie del politically correct in diverse università. In una
sequenza rivelatrice, il pomposo professore di economia della Bucknell,
Geoffrey Schneider ammette allegramente il suo desiderio di sovvertire i
valori che gli studenti hanno imparato dai loro genitori. «Immaginate
il tipico studente molto benestante di Bucknell che segue un corso che è
una critica del capitalismo e spesso dice cose come: “I vostri genitori
fanno cose terribile nel mondo, direttamente o indirettamente”»
si vanta Schneider. Il “grande pericolo” di Bucknell secondo
Schneider? «I nostri amministratori ogni tanto parlano di intervenire
nel programma per garantire che vi siano abbastanza prospettive diverse».
Orrore!
Questi documentari rappresentano i primi sforzi della destra per competere
su un terreno cinematografico a lungo dominato dalla sinistra. È
uno sviluppo cruciale, dice Lee Troxler, una volta aiutante di Reagan che
ha contribuito a scrivere e produrre Farenhype 9/11, una sobria confutazione
del grande successo polemico di Moore, Farenheit 9/11, che è stato
mostrato in 500 università e ha venduto mezzo milione di dvd. «Come
il pamphlet era lo strumento di persuasione scelto durante la Rivoluzione
americana, così il documentario oggi è diventato un importante
strumento nella cultura e nella politica», sostiene Troxler. «Si
può produrre in pochissimo tempo, senza spendere molti soldi –
grazie alla tecnologia». Anche il co-direttore del documentario su
Reagan, Bannon, un conservatore cattolico, è entusiasta del mezzo.
«Se le ultime elezioni hanno dimostrato una cosa, è che è
la cultura che guida la politica», ha detto al New York Times a giugno.
«Voglio prendere una forma che ora è appannaggio della sinistra
– il documentario – e usarla per guidare un programma politico
generale a favore della cultura della vita».
Dopo aver a lungo usato la Hollywood di sinistra come un punching ball politico,
i conservatori stanno adottando l’approccio “se non puoi sconfiggerli,
unisciti a loro”. Se riescono a creare un cinema popolare che rifletta
nell’arte la visione di destra del mondo – senza imporla rudemente
– per la destra sarebbe un enorme vantaggio nella lotta politica attualmente
in corso in America. In fondo, non saranno solo la ragione e le analisi
a decidere il risultato di quelle battaglie. L’immaginazione e il
cuore – i ferri del mestieri della Dream Factory – giocheranno
un ruolo almeno altrettanto importante.
(© City Journal)
(Traduzione
dell’inglese di Barbara Mennitti)
Brian C. Anderson, giornalista e saggista, è senior editor del City
Journal. Ha scritto per il New York Post, il Washington Times e The Public
Interest. È autore del libro South Park Conservatives.
(c)
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