Conservatori a Hollywood
di Brian C. Anderson
Ideazione di maggio-giugno 2006

È stato difficile la scorsa estate fare la parodia della stralunata sinistra da limousine. «Sto facendo outing», strombazzava l’attrice Jane Fonda riferendosi al progetto di fare un tour in autobus contro la guerra in Iraq (fortunatamente poi cancellato). «Non ho preso posizione su nessuna guerra dai tempi del Vietnam» – se “posizione” è la parola giusta per la sua festa d’amore con il nemico del 1972. La Paramount ha annunciato che il regista complottista Oliver Stone, che ha descritto la “rivolta” terroristica dell’11 settembre come un legittimo “vaffanculo, vaffanculo ai vostri ordini” rivolto (fra tutte le cose possibili) all’industria cinematografica americana che controlla la cultura, dirigerà il primo grande dramma di Tinseltown (Hollywood, ndt) sugli attacchi. David Koepp, coautore del remake di Steven Spielberg de La Guerra dei Mondi, ha reso gli alieni devastatori simili ai militari americani in Iraq. E sul sito dell’Huffington Post celebrità di sinistra come Rob Reiner e Laurie David quotidianamente si indignavano per gli oltraggi del presidente Bush alle libertà civili, alla Madre Terra e a tutto quello che si conviene.
Ma indovinate un po’: sempre più americani evitano i prodotti di Hollywood – e il disgusto per la politica della Left Coast, dentro e fuori dallo schermo, gioca sicuramente un ruolo. In un periodo in cui si va sempre meno al cinema, si scopre che sono i film conservatori a spingere le persone nelle sale – conservatori non tanto dal punto di vista politico ma da quello culturale e morale, che si occupano, cioè, della lotta fra il bene e il male, del valore dell’eroismo e del sacrificio di se stessi, dell’indispensabilità dei valori familiari e dell’onore marziale e dell’esistenza della Verità. Hollywood produceva in abbondanza film di questo tipo – guardate quasi ogni film della sua Golden Age negli anni Trenta e Quaranta – e ne fa ancora uno ogni tanto (a volte grazie a registi di sinistra non allineati come Steven Spielberg). Probabilmente in futuro ne vedremo molti di più.
È fuori di dubbio che Hollywood barcolli. La frequentazione dei cinema è scesa del 12 per cento dall’anno scorso e un sondaggio di maggio di Usa Today, Cnn e Gallup ha dimostrato che quasi la metà degli americani va al cinema meno di quanto faceva nel 2000. Alcuni danno la colpa all’aumento dei prezzi dei biglietti, ma in proporzione i biglietti costano meno di 25 anni fa. Altri credono che sia colpa dei dvd, però anche le vendite dei dvd crollano. La spiegazione più probabile è la politica di sinistra. «Si può far risalire il declino del box-office alla fine dell’estate del 2004, con l’intensificarsi della campagna elettorale per la presidenza – osserva il critico cinematografico e conduttore radiofonico conservatore, Michael Medved – Non si trattava solo dell’ostilità di Hollywood verso il presidente Bush; era partigianeria nuda e cruda».
Se anche solo uno elettore di Bush su dieci avesse boicottato Hollywood dopo aver sentito l’ultima diatriba anti-Bush di Tim Robbins o dopo aver visto l’ennesimo mascalzone conservatore (il sosia di Dick Cheney che quasi distruggeva il mondo in The day after tomorrow dell’anno scorso), si tratterebbe di 6 milioni di spettatori in meno, indica Medved. «Ed è proprio questo che molti nell’industria cinematografica non capiscono: quando esprimi ostilità ai conservatori, molti americani la percepiscono come rivolta a se stessi».
I sondaggi confermano la teoria di Medved. Un sondaggio dell’Hollywood Reporter scopre che quasi un americano su due potrebbe evitare un film con un attore di cui non condivide le opinioni politiche. «La politica ha sicuramente un impatto – osserva Govindini Murty, attrice e curatrice di Libertas, un importante blog cinematografico conservatore – Le aziende automobilistiche insultano forse i repubblicani nelle pubblicità?».
Quando Hollywood mette da parte la sua visione di sinistra del mondo per fare film che incarnano i valori tradizionali, spesso riscuote grande successo di pubblico. Prendete per esempio Spider-Man 2 del 2004, un seguito di molto migliore dell’originale. Diretto da Sam Raimi, il film è una meraviglia visuale: le scene dell’Uomo Ragno (interpretato dal tranquillo Tobey Maguire) che batte il tentacolare ex benefattore dell’umanità, ora terrorista Doctor Octopus (Alfred Molina) nel cielo di New York – furiosi grovigli di pugni, bracci meccanici, vetri e pietre in frantumi – quasi esplode fuori dallo schermo. Spider-Man 2 cattura talmente lo sguardo, che si potrebbero perdere di vista le verità morali vecchio stile della storia.
Il film è una favola che parla di dovere ed eroismo. Il giovane Peter Parker decide di appendere al chiodo il suo costume di Spider-Man, perché essere un super-eroe – potere conferitogli dal morso di un ragno geneticamente mutato – gli ha impedito di inseguire i suoi sogni, fra i quali, soprattutto, quello di conquistare Mary Jane Watson (Kirsten Dunst). Peter Parker prende questa decisione dopo essere andato da un anziano dottore hippy, la maglietta dei Grateful Dead sotto il camice bianco che, col vecchio stile “se-ti-fa-stare-bene-fallo”, gli consiglia: «Puoi sempre scegliere».
E però quando il crimine in città aumenta vertiginosamente e cresce la minaccia di Doc Ock, la coscienza di Parker non lo lascia tranquillo. In una scena cruciale, l’affettuosa Zia May (Rosemary Harris), il perno morale della sua vita, mette le cose a posto. «Tutti amano gli eroi», gli dice. «Le persone fanno la fila per vederli, li acclamano, urlano i loro nomi. E anni dopo, raccontano di essere rimasti in piedi per ore sotto la pioggia, solo per riuscire a vedere velocemente chi ha insegnato loro a resistere anche solo un secondo in più». La sua vecchia voce diventa cupa. «Credo che in ognuno di noi ci sia un eroe, che ci fa essere onesti, ci dà forza, ci rende nobili e, alla fine, ci permette di morire con onore, anche se a volte dobbiamo essere forti e rinunciare alle cose che vogliamo di più. Anche ai nostri sogni».

La cultura conservatrice passa per i supereroi
Colpito dalla sua semplice saggezza, Parker alla fine fa la cosa giusta, non il suo interesse: Spider-Man ritorna e salva Gotham da Doc Ock. Ma non prima che un gruppo di viaggiatori rischi la propria vita gettandosi fra il super-eroe ferito e il suo terrificante nemico, dimostrando che non bisogna avere superpoteri per essere coraggiosi – una lezione che i newyorkesi hanno imparato bene dopo l’11 settembre. Il messaggio fondamentale del film è l’esatto contrario dell’etica del “just do it” scevra dai sensi di colpa degli anni Sessanta: per vivere una vita con un significato morale, a volte bisogna scegliere di fare il proprio dovere. Il film ha avuto un enorme successo di pubblico con un colossale incasso di 374 milioni di dollari negli Stati Uniti e circa 400 milioni all’estero. Aggiungeteci le vendite dei dvd e stiamo parlando di un film da quasi un miliardo di dollari.
Lo splendido cartone animato con i super-eroi della Pixar Studio Gli Incredibili, del 2004, è stato un altro successo al botteghino – negli Stati Uniti ha incassato 261 milioni di dollari – con una visione del mondo sorprendentemente “a destra del centro”. La storia dello scrittore e regista Brad Bird, divertente per i bambini e per gli adulti, si svolge intorno a una simpatica famiglia di cinque persone, che casualmente nascondono il fatto di essere superumani. Come altri con abilità superiori, i genitori Bob e Helen Parr (una volta Mister Incredible e Elastigirl) si sono “ritirati” grazie al “programma di trasferimento dei super-eroi” del governo federale. Il fatto è che avvocati maniaci degli illeciti civili, avevano intentato ai super-eroi un sacco di azioni legali spurie per conto di chi era stato salvato – «Non ha chiesto di essere salvato, non voleva essere salvato», lamentava istrionicamente un avvocato – ed era diventato impossibile usare le capacità speciali senza incorrere nella rovina finanziaria. I Parr ora crescono i loro figli in un tipico sobborgo americano, apparentemente una famiglia come tutte le altre.
La difesa dell’eccellenza – e la frustrazione per la guerra del politically correct contro di essa – è un tema centrale de Gli Incredibili, come nella scena in cui Helen rimprovera Bob per non essere andato alla “promozione” del figlio Dash dalla quarta elementare. «È psicotico», tuona Bob. «Continuano a creare nuove maniere per celebrare la mediocrità, ma se qualcuno è davvero eccezionale...». In un’altra scena, Dash vuole prendere parte agli sport scolastici, ma Helen dice che la sua super-velocità renderebbe la cosa ingiusta. «Papà diceva sempre che non dovevamo vergognarci dei nostri poteri – sono loro che ci rendono speciali», si lamenta Dash. «Tutti sono speciali, Dash», risponde stancamente la madre. «È solo un modo come un altro per dire che non lo è nessuno», risponde Dash tetramente.
Il cattivo del film, lo scienziato pazzo Syndrome, invidioso di quelli con i superpoteri (perché non ne ha), uccideva gli eroi con la sua tecnologia avanzata, che poi usava per darsi delle arie. «I tuoi poteri oh così speciali», ringhiava a Bob. «Gli darò dell’eroismo. Gli darò l’eroismo più spettacolare che il mondo abbia mai visto! E quando sarò vecchio, dopo essermi divertito, venderò le mie invenzioni e tutti potranno avere poteri. Tutti potranno essere super! E quando tutti sono super... non lo è nessuno».
Gli Incredibili abbraccia con affetto la famiglia borghese con i suoi difetti e tutto il resto. I Parr hanno le loro difficoltà: la teenager Violet è bisbetica, i bambini litigano, mamma e papà bisticciano, Bob odia il suo monotono lavoro da assicuratore. Ma per i ragazzi Parr il legame familiare è importantissimo: una Violet preoccupata, sospettando (a torto) che il padre di mezza età possa avere una tresca – Helen si è precipitata fuori per riprenderlo – dice a Dash: «La vita di mamma e papà potrebbe essere in pericolo. O peggio ancora, il loro matrimonio». E i genitori correrebbero qualsiasi rischio per proteggere i figli, come l’avvincente film dimostra più di una volta. Come il grande successo della Pixar del 2003, Alla ricerca di Nemo, il film mostra ai bambini «quello che dovrebbero fare gli adulti», scrive Federica Mathewes-Green su National Review Online, «essere coraggiosi e pronti al sacrificio, difendere i figli anche a rischio della propria vita, dare anche di fronte all’ingratitudine».
Spider-Man 2 e Gli Incredibili non sono gli unici film recenti che hanno portato sullo schermo valori conservatori, conquistando un pubblico entusiasta.
Cast Away di Robert Zemeckis (2000) è un Robinson Crusoe moderno, in cui Tom Hanks interpreta Chuck Noland, un tecnico della Federal Express isolato per anni su un’isola deserta. Il film ci rende profondamente consapevoli dei vantaggi – l’immenso progresso umano – di una società capitalistica avanzata. (Cosa strana per Hollywood, Cast Away dipinge una grande compagnia come un’organizzazione premurosa ed efficiente: quando Nolan ritorna dopo essere stato salvato, la FedEx lo accoglie come un familiare disperso da molto tempo). Per il naufrago Noland un dente marcio è un problema quasi letale, trovare un sorso di acqua fresca da bere una questione di sopravvivenza. «Zemeckis e [lo sceneggiatore William] Broyles mettono la parola fine alla causa Locke v. Rousseau, schierandosi chiaramente dalla parte della civilizzazione», scrive il critico Jonathan Last. «Non c’è niente di romantico né di bello nell’isola in cui Noland è bloccato. È una prigione». La sopravvivenza di Noland dipende dai rovinati detriti della civilizzazione: i pacchetti della FedEx che si trovavano nel suo aeroplano distrutto e la porta di una toilette chimica, che diventa una vela di fortuna.
Cast Away rifiuta senza troppo clamore anche la rivoluzione sessuale. Quando ritrova il suo vero amore, Kelly, Noland scopre che si è sposata ed è diventata madre. L’incontro è travolgente per entrambi – è evidente che Kelly ama ancora Noland, e sappiamo che il suo amore per lei ha dato a Noland la forza di sopportare anni di solitudine. Ma Noland riconosce che la sua felicità non è la cosa più importante. «Devi andare a casa ora», dice a Kelly con gli occhi pieni di lacrime: ora c’è di mezzo una famiglia e la famiglia è l’istituzione fondamentale dell’ordine civilizzato nel quale è appena tornato.
Alla fine, riflettendo, Noland capisce che per sopravvivere sull’isola serviva qualcosa di più della razionalità, per quanto importante; gli era stato necessario qualcosa come la fede. Dopo essere stato salvato, racconta a un gruppo di amici che da naufrago, in preda alla disperazione, aveva tentato – senza riuscirci – di suicidarsi. «Non avevo potere su niente», ricorda. «Ed è stato allora che ho sentito quel sentimento su di me, come una coperta calda. In qualche modo sapevo che dovevo restare in vita. In qualche modo... anche se non c’era nessun motivo per sperare. E la logica mi diceva che non avrei mai più visto questo posto... E un giorno la mia logica si è dimostrata sbagliata, perché è arrivata la marea e mi ha portato via». Forse abbiamo bisogno di qualcosa di più della semplice logica per innalzarci al di sopra della natura animale e diventare completamente umani, lascia intendere Cast Away. Anche se il regista Zemeckis per molti aspetti appartiene all’establishment di sinistra di Hollywood, questo è un film profondamente conservatore, come il suo precedente colosso Forrest Gump, che i conservatori applaudono come un ripudio degli anni Sessanta.

I film per la famiglia trainano il mercato
Le virtù marziali, a lungo dileggiate dalla sinistra hollywoodiana, hanno vissuto un ritorno sul grande schermo più o meno negli ultimi cinque anni. Il travolgente adattamento di Peter Jackson della trilogia de Il Signore degli Anelli di J. R. R. Tolkien (2001-2003) parla della necessità che gli uomini e le donne liberi si ribellino con la forza al male totalitario – e del potere di corrompere dall’interno anche le persone migliori. Molti osservatori hanno riscontrato delle somiglianze fra l’orrore distruttivo di Mordor nel film e gli islamofascisti che oggi minacciano l’Occidente, così come i lettori del libro di Tolkien avevano fatto col nazismo. I film hanno incassato oltre un miliardo di dollari negli Stati Uniti e il doppio all’estero. Anche il successo sulla seconda guerra mondiale di Spielberg del 1998, Salvate il soldato Ryan, di un realismo devastante nel cogliere l’orrore del combattimento militare, celebra le virtù marziali nell’eroismo e nell’onore dei soldati americani.
Tutto questo prima di arrivare a La passione di Cristo di Mel Gibson, il film del 2004 che è diventato il punto critico delle guerre culturali nazionali. Un racconto devoto e emotivamente toccante della crocifissione di Cristo in aramaico e latino, due lingue morte, La passione di Cristo ha riempito le sale di tutto il mondo di evangelici tradizionalisti e cattolici, molti dei quali vanno di rado al cinema. Nonostante sia stato ferocemente (e ingiustamente) criticato per essere intollerante e antisemita, La passione di Cristo, costato 30 milioni di dollari, ne ha incredibilmente incassati 370 negli Stati Uniti e 240 all’estero, facendone uno dei casi cinematografici più sensazionali di tutti i tempi.
Le dimensioni del mercato per questi film conservatori diventarono chiare per la prima volta fra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, quando Hollywood smise quasi di produrne. Spazzata dallo spirito rivoluzionario dell’epoca, l’industria abbandonò il suo codice di produzione vecchio di decenni – che imponeva il rispetto per il matrimonio, le forze dell’ordine e la religione e proibiva le bestemmie e la nudità – e si dedicò a film adattati a una «generazione ribelle... che sfidava ogni principio caro alla società americana», come dicevano con soddisfazione gli studiosi cinematografici Seth Cagin e Philip Dray. L’Hollywood dell’era del codice di produzione non aveva ignorato la faccia più in ombra dell’esistenza umana, ma persino i film noir più cinici non erano niente rispetto a quello che si sarebbe visto. I film controculturali della “nuova Hollywood” – come Bonnie e Clyde, violento e pro criminale, di Arthur Penn (1967), m.a.s.h., la cinica commedia contro la guerra di Robert Altman (1970), Shampoo, il sordido peana alla rivoluzione sessuale di Hal Ashby (1975) e l’incubo urbano di Martin Scorsese Taxi Driver (1976) – entusiasmarono i critici, che ne condividevano le posizioni antiamericane e contro l’establishment.
Ma gli spettatori non apprezzarono. L’affluenza settimanale ai cinema nel 1967, il primo anno dopo che Hollywood aveva abbandonato il codice di produzione, crollò a 17,8 milioni di spettatori, dai 38 milioni dell’anno precedente (la televisione aveva già eroso la frequentazione del cinema dai 90 milioni di spettatori settimanali della fine degli anni Quaranta). «In un solo anno», osserva Medved, «erano scomparsi più della metà degli spettatori, di gran lunga il declino più grave nella storia dell’industria cinematografica registrato in un anno». Nei tre decenni seguenti l’audience si aggirava sui 20 milioni di spettatori, nonostante la popolazione degli Stati Uniti aumentasse.
Non è strano che tanti rimangano a casa. Ancora dominata da tipi controculturali, Hollywood continua a sfornare film “spigolosi” – per molti, per esempio, i minori di 17 anni devono essere accompagnati – e gli americani continuano a bocciarli, come dimostra la correlazione fra i profitti e il divieto. Solo cinque dei cinquanta film campioni di incasso di tutti i tempi avevano facevano parte di questa categoria e tredici dei primi cento. Un grande studio condotto nel 2005 dalla Dove Foundation, ha preso in esame i 3000 film hollywoodiani più distribuiti dal 1989 a tutto il 2003 in ogni categoria. Hanno scoperto che i film che richiedono la presenza dei genitori per i bambini o per i minori di 13 anni incassano in media fra le tre e le quattro volte più di quelli vietati ai minori di 17 – e che i film per tutti, come il documentario naturalista di quest’anno La marcia dei Pinguini, sono ancora più redditizi. Il film vietato ai minori in media perde 6,9 milioni di dollari; il film che richiede la presenza dei genitori in media ne guadagna 30; il film per tutti tipico guadagna oltre 70 milioni di dollari. E uno studio della Christian Film and Television Commission sull’accoglienza ai botteghini dei primi 250 film degli ultimi tre anni, ha scoperto che i film che esprimono un forte messaggio morale tradizionale, a qualunque categoria appartengano, hanno guadagnato fra le quattro e le sette volte di più dei film che portavano avanti il programma culturale della sinistra.
Hollywood deve i suoi migliori anni recenti – il 2002 e il 2003 quando ha raggiunto i 30 milioni di biglietti venduti per la prima volta dal 1966 – principalmente all’enorme successo di un pugno di film conservatori per le famiglie, fra cui i primi due episodi de Il Signore degli Anelli, Alla ricerca di Nemo, e il successo low-budget de Il mio grosso grasso matrimonio greco, in pratica un Father knows best etnico. Questi film richiamano più bambini nei cinema, come ci si può immaginare, e anche più spettatori dai quarant’anni in su – i loro genitori. «In America il maggior segmento di consumatori è rappresentato dalle famiglie con valori tradizionali», sottolinea il presidente della Dove, Dick Rolfe. Il capo dell’Associazione nazionale dei proprietari di teatri, John Fithian, aggiunge: «I valori familiari vendono biglietti».
C’è un semplice motivo per cui Tinseltown sforna così tanti flop commerciali. I produttori d’élite vogliono fare denaro, ovvio – ne vogliono fare sempre, molto, ma non tanto quanto potrebbero farne. Dare al pubblico quello che vuole non è la loro motivazione principale. È più importante la loro voglia di essere riconosciuti come artisti dai loro pari, dai critici e dalle élite di sinistra, dice lo scrittore e regista nominato agli Oscar e agli Emmy, Lionel Chetwybd, uno dei conservatori di Hollywood che si fa più sentire. «E dagli anni Sessanta in poi è vero che, se si vuole essere riconosciuti come artisti, bisogna essere di sinistra – bisogna prendersela con il governo, essere arrabbiati», aggiunge. Avere la giusta visione artistica può implicare anche altri vantaggi sociali. «Facendo qualcosa che abbia successo commerciale e piaccia a un pubblico vasto, come Gli Incredibili, si hanno meno possibilità di portarsi a letto una sosia di Rebecca Romjin che facendo materiale oscuro, incisivo e acclamato dalla critica come Million Dollar Baby», dice Medved che da tempo studia Hollywood.
A rinsaldare ulteriormente gli orientamenti di sinistra di Hollywood ci sono i gruppi di interesse che controllano i contenuti delle sceneggiature alla ricerca di contenuti “offensivi” – cioè non politically correct. È una pressione che può trasformare profondamente il progetto di un film, come vi confermerà Tom Clancy. Nel suo romanzo The sum of all fear, dei terroristi musulmani fanno esplodere un’arma nucleare al Super Bowl. Quando si iniziò a lavorare al film, il Council on American Islamic Relations si mise all’opera. I cattivi del film del 2002: neonazisti bianchi, non fanatici musulmani. Alcune compagnie di produzione di Hollywood hanno uffici che contattano i gruppi di interesse per esaminare potenziali sceneggiature. «Tenete conto [che] spesso l’fbi o il governo o le imprese sono i cattivi perché tutti gli altri hanno un gruppo di sostenitori», indica Jack Valenti, l’ex capo della Motion Picture Association.

La dittatura del politically correct
Il politically correct, inculcato nelle teste degli sceneggiatori ancora prima che i difensori si lamentino, può produrre strane inconsistenze. True crime, dello scrittore e sceneggiatore Andrew Klavan, racconta di un uomo bianco innocente detenuto nel braccio della morte, mandato in prigione con false accuse perché i funzionari dovevano dimostrare che la pena di morte non viene applicata in maniera razzista. «L’unico che riesce a capire la questione è un giornalista politicamente scorretto, che riesce a districarsi in un mare di menzogne», riferisce Klavan. L’avvincente versione del 1999, diretta da Clint Eastwood che interpretava anche il giornalista Steve Everett, trasforma il detenuto innocente del braccio della morte in un nero (interpretato da Isaiah Washington). Il film funziona, ma toglie al romanzo di Klavan il suo taglio anti-politically correct.
Ma nel film rimane una sequenza in cui una donna nera affronta il giornalista Everett accusandolo di interessarsi solo delle ingiustizie contro i bianchi e non contro i neri – anche se ora il film si svolge intorno alla implacabile lotta del reporter per scagionare un afroamericano ingiustamente condannato. «Quella scena non ha più senso», ride Klavan. «A quanto pare lo sceneggiatore trovava l’originale politicamente inappropriato».
Anche così, scossa dall’enorme successo de La Passione di Cristo, Hollywood sembra iniziare a capire che sta trascurando gran parte del suo potenziale pubblico. «Quando qualcosa fa quasi 400 milioni di dollari ai botteghini americani e non è in inglese, fa una certa impressione» dice l’ex capo della Universal Picture, Frank Price. Il New York Times a luglio ha scritto che gli studios hanno ingaggiato «esperti nuovi di zecca in marketing cristiano» per aiutarli a vendere film con contenuti religiosi o familiari nell’America degli Stati rossi. Dopo aver ignorato Gibson quando cercava finanziamenti per La Passione di Cristo – è noto che ha dovuto finanziarsi da solo – gli studios hanno fatto la fila per distribuire il suo film successivo, Apocalypto in lingua Maya, e alla fine l’ha spuntata la Disney.
Ma un film scaturisce da una visione del mondo, ed è difficile che la Hollywood di Barbra Streisand, Rob Reiner e Alec Baldwin possa capirla. Murty di Libertas racconta che un agente pubblicitario del costosissimo flop di Ridley Scott, del 2005, Le Crociate, chiese a lei e a suo marito, il produttore Jason Apuzzo, dei suggerimenti per pubblicizzare il film fra i conservatori e i cristiani. Invitati a una proiezione per la stampa insieme ad altri rappresentanti di vari gruppi cristiani, i due guardavano increduli il film che si apriva con un prete cattolico che decapitava una donna, rubandole il rosario – e continuava sullo stesso tono, presentando invece i musulmani come nobili e saggi. «Nel film ogni singola persona associata con la Chiesa è un assassino o un bugiardo. E pensavano davvero che questa cosa sarebbe piaciuta ai cristiani», racconta Murty. «Questa gente vive completamente sigillata a West Hollywood e non si rendeva conto di quanto fosse offensivo il film».
Malgrado questo, molti indizi suggeriscono che il cambiamento della posizione culturale di Hollywood potrebbe implicare cambiamenti più drastici della semplice assunzione di nuovi agenti di marketing. Tanto per cominciare, a Hollywood inizia a crescere la presenza della destra, compresi importanti giovani produttori come Mike De Luca di DreamWorks e Gavin Pollone, e sceneggiatori in ascesa come Craig Mazin, Cyrus Nowrasteh e Klavan. Inoltre, se è vero quello che si dice, molti dei tipi nuovi di Hollywood sono di destra, ma non lo dicono pubblicamente per non danneggiarsi la carriera in una città ancora di sinistra. «Diventa sempre più chiaro che una significativa maggioranza dei giovani che arrivano a Hollywood è conservatrice», opinava Chetwynd quest’estate. Lo scorso autunno, la denuncia della rivista Details “Giovani e repubblicani a Hollywood” causò grande scompiglio, rivelando che l’attore comico Adam Sandler, l’attore Freddie Prinze Jr. e altri erano segretamente di destra. Il documentario di amc Rated R:Republicans in Hollywood, del 2004, diretto dall’ex speechwriter democratico Jesse Mosse, conclude che Hollywood si sposterà a destra man mano che quelli con meno di quarant’anni diventano il suo nuovo establishment. A rinforzare un’istituzione come il Wednesday Morning Club di David Horowitz, che ospita oratori conservatori per ascoltatori mentalmente aperti, ci sono nuovi salotti di destra come Hollywood Congress of Republicans e il discreto Sunday Evening Club, per quelli ancora più di destra.
Se uno che detta la moda come Polone (onorato da una scintillante storia di copertina sul New York Time Magazine nel 2004) osserva che «il nostro paese è molto più conservatore di quanto credesse l’industria dell’intrattenimento, che farebbe una cosa furba cominciando a spostarsi in quella direzione», allora possiamo scommettere che il nuovo establishment di Hollywood sarà molto diverso da quello che sta per essere sostituito.
Nessuno sembra più in grado di spostare Hollywood a destra del miliardario Philip Anschutz, il cui Anschutz Film Group dirige due studios: Walden Media e Bristol Bay Productions. Non molto tempo fa Anschutz, che possiede di tutto, dai giacimenti petroliferi alle ferrovie ai giornali ed è uno dei maggiori finanziatori di cause conservatrici, ha deciso di diventare un Louis B. Mayer del Ventunesimo secolo. Il suo programma: produrre film sulla natura umana per le famiglie. «Vogliamo che siano divertenti, ma anche in favore della vita e con un messaggio morale», ha detto agli studenti dell’Hilsday College l’anno scorso. Secondo Anschutz questi film offrono un’enorme opportunità di mercato.
«L’industria di Hollywood talvolta tende ad essere un’isola e non comprende bene il mercato», spiegava. Ma ha anche «visto l’opportunità di tentare dei piccoli miglioramenti nella cultura».
Come un grande produttore cinematografico di altri tempi, Anschutz ha definito bene la distribuzione. La sua Regal Entertainment è la più grande catena di sale cinematografiche degli Stati Uniti, e copre circa il 18 per cento di tutti i cinema al coperto. Sta molto attento al processo creativo. «Succedono molte cose fra il momento in cui nasce l’idea di un film e quello in cui il prodotto arriva al cinema – e la maggior parte sono cose brutte», diceva ai suoi ascoltatori dell’Hillsdale. «Quindi bisogna controllare il tipo di scrittori che hai, il tipo di registi che riesci ad avere, il tipo di attori che impieghi e il tipo di editori che lavora sul prodotto finale».
Anschutz, per esempio, pretese che il regista Taylor Hackford rivedesse il film biografico su Ray Charles del 2004, Ray, moderando l’attenzione che era stata data ai problemi di droga e alle prestazioni sessuali del musicista. Dopo aver minacciato di buttare tutto a monte, Hackford si adeguò alla visione di Anschutz più per le famiglie. Il film che ne è venuto fuori è un onesto – senza sforzi di cancellare la droga e le donne – ma in fondo fiducioso racconto della costanza di Charles nel combattere i grandi handicap rappresentati dalla sua cecità e dalle sue pecche morali e dal razzismo della società. Il film – finanziato interamente da Anschutz dopo che tutti i più grandi studios l’avevano rifiutato – ottenne cinque nomination all’Oscar vincendone due, compresa quella per il migliore attore, che andò a Jamie Foxx nel ruolo del protagonista.
Anschutz è partito in maniera straordinaria, non solo per Ray. L’agrodolce Because of Winn-Dixie, basato su un romanzo per bambini di Kate DiCamillo, racconta la storia di una bambina di dieci anni, Opal (la nuova arrivata Annasophia Robb) e del padre predicatore (Jeff Daniels), che all’inizio del film si sono appena trasferiti in una modesta cittadina della Florida. La madre di Opal, che non sopportava di essere la moglie di un predicatore, aveva abbandonato la famiglia diversi anni prima. Senza sentimentalismi, il film cattura il dolore e la solitudine che il divorzio causa ai bambini. Descrivendo con naturale simpatia sia l’America delle piccole città che la fede battista, Winn-Dixie ha coperto la maggior parte del suo modesto costo di produzione, 14 milioni di dollari, nel primo weekend di proiezione e al momento è uno dei Dvd più venduti nel paese.
Ma lo sforzo più ambizioso di Anschutz, costato 150 milioni di dollari, è l’adattamento di Le cronache di Narnia: il leone, la strega e l’armadio di D. S. Lewis, una coproduzione Walden Media-Disney – la prima di quella che Anschutz spera diventerà un franchising di lungo corso. I libri di Narnia – una vasta allegoria della resurrezione di Cristo – hanno venduto 120 milioni di copie in tutto il mondo, «più di Harry Potter e del Signore degli Anelli», osserva Anschutz suggerendo un potenziale ai botteghini da far strabuzzare gli occhi. Per pubblicizzare il film, la Walden lavorerà a stretto contatto con le organizzazioni cristiane.

Due festival per il rinascimento del cinema conservatore
Un terzo segno del fatto che il mondo del cinema sta diventando meno monolitico dal punto di vista culturale, è stato dato l’anno scorso dal lancio di due festival conservatori annuali: l’American Film Reinassance Festival a Dallas (che presto si estenderà ad altre città) e il Liberty Film Festival a Hollywood. Con film dal contenuto conservatore, gruppi di dibattito, premi ed altri eventi, entrambi hanno avuto enorme successo di pubblico e una vasta copertura della stampa, compresi articoli su Time e Usa Today.
Il festival ha anche prodotto inestimabili opportunità per stringere rapporti. Dopo una conferenza di Michael Medved all’American Film Reinassance, mi ha raccontato il co-fondatore del festival Jim Hubbard, molti aspiranti filmmaker nel pubblico hanno sventolato dvd già finiti, lamentandosi che non trovavano chi li distribuisse. «Eccomi qua», ha annunciato David Goodman, che aveva appena inaugurato la sua compagnia di distribuzione. Rapidamente si è messo a firmare accordi di distribuzione per diversi film, fra i quali Is it true what they say about Ann?, un divertente documentario sulla polemista Ann Coulter, terrore dei liberal (ha firmato la maglietta di uno studente universitario di sinistra con: «Buon divertimento a Guantanamo!»).
In entrambi i festival gli aggressivi documentari indipendenti hanno fatto la parte del leone; molti, come Celsius 41.11: the temperature at which the brain begins to die, erano acute confutazioni dell’opera mendace di Michael Moore. Il vincitore del premio per il miglior documentario al Liberty Film Festival è stato In the face of evil di Stephen Bannon e Timothy Walkin, basato sul bestseller di Peter Schweitzer, Reagan’s war. Lo spettatore va via dall’intelligente resoconto degli sforzi anticomunisti di Reagan, dai suoi giorni a Hollywood negli anni Quaranta alla caduta del Muro di Berlino, con un senso della grandezza del presidente scomparso – e della importanza decisiva della leadership politica. «Avendoli vissuti, mi sono commosso per il dettaglio e l’emozione con cui quei tempi sono stati trasposti nel film», ha detto l’ex presidente polacco Lech Walesa.
Se i festival hanno generato una potenziale star dei documentari, questo è Evan Coyne Maloney, 33 anni, un affabile ex sviluppatore di software. Il suo divertente e inquietante corto di 45 minuti, Brainwashing 101, denuncia le angherie del politically correct in diverse università. In una sequenza rivelatrice, il pomposo professore di economia della Bucknell, Geoffrey Schneider ammette allegramente il suo desiderio di sovvertire i valori che gli studenti hanno imparato dai loro genitori. «Immaginate il tipico studente molto benestante di Bucknell che segue un corso che è una critica del capitalismo e spesso dice cose come: “I vostri genitori fanno cose terribile nel mondo, direttamente o indirettamente”» si vanta Schneider. Il “grande pericolo” di Bucknell secondo Schneider? «I nostri amministratori ogni tanto parlano di intervenire nel programma per garantire che vi siano abbastanza prospettive diverse». Orrore!
Questi documentari rappresentano i primi sforzi della destra per competere su un terreno cinematografico a lungo dominato dalla sinistra. È uno sviluppo cruciale, dice Lee Troxler, una volta aiutante di Reagan che ha contribuito a scrivere e produrre Farenhype 9/11, una sobria confutazione del grande successo polemico di Moore, Farenheit 9/11, che è stato mostrato in 500 università e ha venduto mezzo milione di dvd. «Come il pamphlet era lo strumento di persuasione scelto durante la Rivoluzione americana, così il documentario oggi è diventato un importante strumento nella cultura e nella politica», sostiene Troxler. «Si può produrre in pochissimo tempo, senza spendere molti soldi – grazie alla tecnologia». Anche il co-direttore del documentario su Reagan, Bannon, un conservatore cattolico, è entusiasta del mezzo. «Se le ultime elezioni hanno dimostrato una cosa, è che è la cultura che guida la politica», ha detto al New York Times a giugno. «Voglio prendere una forma che ora è appannaggio della sinistra – il documentario – e usarla per guidare un programma politico generale a favore della cultura della vita».
Dopo aver a lungo usato la Hollywood di sinistra come un punching ball politico, i conservatori stanno adottando l’approccio “se non puoi sconfiggerli, unisciti a loro”. Se riescono a creare un cinema popolare che rifletta nell’arte la visione di destra del mondo – senza imporla rudemente – per la destra sarebbe un enorme vantaggio nella lotta politica attualmente in corso in America. In fondo, non saranno solo la ragione e le analisi a decidere il risultato di quelle battaglie. L’immaginazione e il cuore – i ferri del mestieri della Dream Factory – giocheranno un ruolo almeno altrettanto importante.

(© City Journal)

(Traduzione dell’inglese di Barbara Mennitti)


Brian C. Anderson, giornalista e saggista, è senior editor del City Journal. Ha scritto per il New York Post, il Washington Times e The Public Interest. È autore del libro South Park Conservatives.

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