L'idiota musicale latino-americano
di Maurizio Stefanini
Ideazione di maggio-giugno 2005

Roma, estate 1978. La ragazza, due occhi imploranti incorniciati da una pettinatura ottocentesca, sta seduta su un letto a mani giunte, e parla come se pregasse. «Mi ha fatto molto piacere parlare con voi. Sono stata bene, sono contenta». Di lei, sappiamo che è napoletana; che, invece, “sta male”, nel senso che “ha dei disturbi” mentali; e che «non studia, lavora, però ora se ne deve trovare un altro». Quanto alla coppia che la fronteggia, dal «ma che è matta questa!» di commento alla telefonata con cui la ragazza si è autoinvitata abbiamo appreso che non si vedevano da anni, e che l’ospite non è particolarmente gradita. è con evidente disagio infatti che il padrone di casa si alza a mettersi la giacca, lasciando che sia la moglie a prendere il coraggio per parlare. «Olga, scusami. Noi dobbiamo andare». «No!», implora lei. «Perché? Restate ancora un po’!». Ma l’alibi colpisce come una mazzata. «Dobbiamo andare a vedere gli Inti-Illimani alla basilica di Massenzio». «Scusa, dov’è la mia borsa?», interviene il marito. «Ma no!», singhiozza la ragazza sofferente. Un attimo di buio, e poi cade inesorabile l’«andiamo!» dei due. In nome o forse solo con la scusa della solidarietà per le sofferenze lontane del popolo del Cile oppresso, la sofferenza immediatamente presente ma squallida e rompiscatole della ragazza implorante è stata espulsa, senza troppi complimenti.

Avranno riconosciuto in tanti la scena chiave di Ecce Bombo, a sua volta film emblema degli anni ’70. Scena chiave, non scena culto, perché di quelle la stessa pellicola ha passato alla storia del costume italiano un’autentica miniera: l’altra ragazza che «vede gente, fa cose»; il poeta “alternativo” che si presenta agli esami di maturità accanto all’amico che ha fatto la tesina su di lui; le analisi sulla situazione italiana dell’“amico etiope”; gli amici che vanno a vedere il sorgere del sole dal mare di Ostia senza riflettere che l’Est è dalla parte opposta… Ma Olga, l’amica sciroccata di Mirko interpretata da Lina Sastri, tornerà poi nella proposta di Cesare, alla fine delle tragicomiche “sedute di autocoscienza”. «Forse il nostro errore è pensare che questi nostri circoletti romani siano tutto il mondo, tutta la realtà. Ce ne dovremmo andare in qualche altro posto. Sentite, cerchiamo di dare un senso! Perché non andiamo a trovare Olga? Stiamo un po’ tutti insieme a lei, in questi giorni sta un po’ così». L’apologo è ormai scoperto: il vero impegno sta nel sopportare la compagnia di una poveretta semidemente, non nell’ostentare adesioni a pur nobili cause all’altro capo del pianeta.

Michele, l’alter ego di Nanni Moretti, ha il coraggio di confessare il suo disagio. «No, non mi va! Andate voi. Non ci riesco a stare con le persone che stanno male. Ho paura, fuggo, no, non mi va. Vi raggiungo dopo, forse. No, ciao, arrivederci, ciao». Gli altri, invece, si buttano a pesce sul nuovo slogan. «Andiamo a trovare Olga», dice un basettuto Giampiero Mughini con due occhiali vagamente equivoci . «Andiamo a trovare Olga», si passano parola gli amici al bar. «C’è la proposta di andare da Olga», decidono in stile assembleare alla Comune di Mirko. Ma quella Roma di agosto, vagamente felliniana e metafisica, attrae e distrae. C’è chi si mette a giocare a pallone per strada, chi fa gara a chi mangia più cocomeri. Mughini guarda le passeggiatrici sul Lungotevere, fa un elogio dell’essenzialità degli amori mercenari, e borbotta che di andare da Olga «non mi va proprio, non ne ho proprio voglia!». Gran finale: solo lo scettico Michele, della folla che si era annunciata, si troverà di fronte alla ragazza con le mani giunte. In questa sede, però, non ci interessa analizzare la poetica di Nanni Moretti, anche se vi ci siamo soffermati per un poco. Di Nanni Moretti, invece, ricorderemo un’altra battuta culto: «la vasca è di destra, la doccia è di sinistra». E la collegheremo al ruolo simbolico che tutta la cultura cui Ecce Bombo attinge ha dato agli Inti-Illimani per parafrasare un diffuso luogo comune: «la musica celtica è di destra, la musica andina è di sinistra». A questo punto, però, interloquiremo con Giorgio Gaber: «quasi tutte le canzoni son di destra/ se annoiano son di sinistra».

E andremo avanti nel nostro discorso con la citazione di Lucio Dalla: «la musica andina, che noia mortale/ sono più di tre anni che si ripete sempre uguale». Più di un fan del complesso cileno, di recente tornato di moda anche in Italia, a questo punto si è arrabbiato, definendo Dalla «un cantautore italiano lui sì affondato progressivamente nella noia senza idee»1. L’autore di queste righe in casa ha una quantità esorbitante di dischi degli Inti-Illimani e di altri complessi andini, e nessuna canzone di Lucio Dalla. Ma deve rilevare come gli Inti-Illimani stessi nelle loro interviste non incoraggino affatto certi toni da pasdaran. Al contrario, ci scherzano loro per primi su quei versi, ricordando che con Lucio Dalla sono amici, e che ci hanno fatto pure dei concerti assieme2.

De gustibus non disputandum est, dicevano d’altronde i latini. E un’opera d’arte può piacere anche se non ne condividiamo l’ideologia (o viceversa). Il bello, però, è che anche queste ideologie sono in realtà molto relative. E visto che la storia da noi raccontata in passato sulle giravolte di Giovinezza sembra essere stata molto gradita, adesso racconteremo una storia ancora più sorprendente, le cui tappe sono sei affermazioni che di primo acchitto sembreranno assolutamente eretiche. Primo: gli Inti-Illimani, così come li conoscono gli italiani, non esistono.

Secondo: il celeberrimo El pueblo unido non è una canzone degli Inti-Illimani. Terzo: la musica degli Inti-Illimani non è musica cilena. Quarto: la musica andina fu introdotta in Cile dal locale Partito comunista (Pcch) perché la vera musica folklorica cilena era vista come di destra. Quinto: però anche la musica andina in origine era stata inventata col concorso della Cia. Sesto: e alla fine la musica andina ha fatto da colonna sonora alla caduta del Muro di Berlino!

Inti-Iglimani
Non c’è bisogno di scavare in archivi segreti, né di scomodare sconvolgenti rivelazioni per dimostrare queste sei tesi. Le prime tre, in particolare, possono essere tranquillamente rilevate da chiunque conosca lo spagnolo per la prima; possegga il disco in questione per la seconda; sia stato in Cile per la terza. Cominciamo, dunque. La doppia “l”, “ll”, in spagnolo si pronuncia normalmente come la “gl” italiana di “giglio”, anche se ci sono varianti dialettali che dalla Spagna del Cinquecento si sono radicate in America Latina3. Ce n’è una, ad esempio, che la trasforma nella “j” italiana di Jolanda, che è tipica del Messico. Ce n’è un’altra, identica alla “j” francese di “jour”, che deborda un po’ per tutto il Continente. Ce n’è una terza, articolarmente sbracata, che segnala subito gli abitanti di Buenos Aires, e che si avvicina alla “sc” italiana di “sciocco”. E così via… Questi fenomeni vengono definiti coi nomi scientifici di yeísmo e rehilamiento, per cui rimandiamo alla letteratura specialistica (di cui abbiamo dato un campione reperibile su Internet in nota). In Cile stando a uno studio del 20034 uno scarso 0,7 per cento della popolazione pronuncerà dunque correttamente “Inti-Iglimani”, mentre il resto darà varie sfumature (almeno 6!) di “Inti-Igimani”. In altre aree del mondo ispanico si dirà “Inti-Ijimani”, “Inti-iimani”, “Inti-Iscimani”. Ma solo in Italia si dice “Inti-Illimani” con la doppia “l” di “grullo”: una grullata, è il caso di dirlo, che gli interessati hanno diplomaticamente imparato a sopportare, e fatto anzi propria, quando hanno capito che la massa degli italiani era troppo di coccio per venire a capo di quella sfumatura linguistica, e che non era il caso di formalizzarsi di fronte a tutto il successo che comunque ottenevano. E il bello è che invece la corretta pronuncia di Salvador “Agliende” l’hanno imparata tutti! A proposito: neanche Pinochet si pronuncia con quel ridicolo “Pinoscè” francese che da noi si è imposto, ma qualcosa come “Pinoccet”. “T” finale molto debole, ma distinguibile.

El pueblo unido
Ma andiamo avanti. Gli Inti-Illimani, pronunciati Inti-Iglimani (lo sottolineiamo l’ultima volta per darlo d’ora in poi per scontato) hanno portato al successo in Italia El pueblo unido: una canzone talmente simbolo che quando qualche anno fa un gruppo musicale nell’area di Rifondazione Comunista ha proposto un’antologia volta a ricostruire una storia d’Italia attraverso le canzoni non si è presentato con un nome nostrano, ma proprio come Pueblo Unido5. Un complesso che vorrà fare un’analoga operazione in Cile dovrà forse chiamarsi Bella Ciao o Bandiera Rossa? Questa canzone così centrale, però, non è nel primo storico lp con cui si presentarono a fine 1973 in Italia: Viva Chile!6. Invece, compare nell’lp numero due: La Nueva Canción Chilena7 dell’anno successivo. Dunque, non lo consideravano esattamente il loro principale biglietto da visita. Tra l’altro, anche in questo secondo lp non compare che al posto numero 6 del lato B: l’ultimo. E chi sono indicati come autori? “Quilapayún-Sergio Ortega”. Ora, Sergio Ortega Alvarado, nato ad Antofagasta il 2 febbraio 1938 e morto a Parigi il 15 settembre 2003, non era un membro degli Inti-Illimani, i cui componenti originari erano in media una decina di anni più giovani. Si trattava invece di un compositore che aveva fatto studi classici al Conservatorio Nazionale dell’Università del Cile. Cultore di etnomusicologia, era diventato famoso per aver collaborato con Pablo Neruda, molti dei cui versi aveva messo in musica, specie per rappresentazioni teatrali (in particolare l’opera Fulgor y muerte de Joaquín Murieta). Notoriamente legato al Partito comunista del Cile (Pcch), era sceso in campo anche per le elezioni che nel 1970 avevano portato alla presidenza Salvador Allende. E in quell’occasione aveva composto un inno per Unidad Popular da far cantare agli Inti-Illimani.

Quell’inno, però, era Venceremos, che infatti compare in Viva Chile! a firma “Sergio Ortega-Claudio Iturra”. Va detto che neanche il paroliere Iturra era un membro del gruppo. In quell’epoca, anzi, gli Inti-Illimani non sapevano neanche leggere la musica e suonavano dunque a orecchio, come ricordano onestamente oggi8. E delle 12 canzoni di quell’album, infatti, solo le strumentali Alturas e Tatati sono a firma di Horacio Salinas, il “direttore del complesso”. Alturas però sarebbe divenuta famosissima come sigla di un programma radiofonico di musica folk allora di gran voga, L’altro suono. I Quilapayún erano invece un altro gruppo, molto più famoso degli Inti-Illimani. Con loro, infatti, nel 1971 Victor Jara aveva inciso Canciones Folkloricas de América9: un album che in Italia è sconosciuto, ma che i sudamericani considerano una pietra miliare della musica andina made in Chile (che, come vedremo, è cosa un po’ diversa dalla musica andina tout court). E Victor Jara, pur non facendo formalmente parte del gruppo, ne era direttore artistico. Lo stesso Victor Jara, cantautore assassinato dai militari dopo il golpe militare dell’11 settembre 1973, era stato il padre della cosidetta Nueva Canción Chilena, assieme alla suicida Violeta Parra. Se vogliamo, lo stesso nome indica un maggior radicamento nella realtà cilena. Quilapayún, infatti, che significa “tre barbe”, è una parola in mapudungun, la lingua dei mapuche: principale etnia indigena locale10. Inti-Illimani, invece, sta per “sole del monte Illimani” in runa simi, o quechua come è spesso chiamato più diffusamente ma impropriamente, confondendo la lingua con l’etnia. E il runa simi, antica lingua dell’Impero Inca, è parlato da milioni e milioni di persone in Perù, Bolivia e Ecuador, ma solo da un’eccentrica e ridotta minoranza dell’estremo nord in Cile11. L’Illimani, d’altra parte, è una vetta di 6682 metri che si trova non in Cile, ma in Bolivia, nei pressi di La Paz. Se vogliamo, la questione è ancora più complicata dal particolare che quella zona non è di lingua quechua ma aymara, e Illimani in aymara vuol dire “condor”. Inti è poi anche il nome del dio sole degli incas, e si può pure ricordare che nel 1985 la riforma monetaria voluta dal governo peruviano per combattere l’iperinflazione sostituì come moneta il sol, nome spagnolo, con l’inti, che ne era la tradizione in quechua. Salvo poi, al precipitare ulteriore del valore, rimpiazzarlo un’altra volta nel 1992, col nuevo sol. Inti-Illimani potrebbe dunque anche rendersi come “Condor del Dio Sole” in un ibrido quechua-aymara (ma non significa “condor dell’Illimani” in aymara come spesso si ripete). Va comunque ricordato che i mapuche resistettero con ferocia al tentativo degli incas di estendere il proprio impero sulle loro terre, al punto che ancora oggi in mapudungun “straniero” e “invasore” si dice winca. Anche se oggi la parola si applica principalmente ai “bianchi”, nel senso spregiativo descritto nei film western quando si parla di “visi pallidi”. Particolare significativo: il verbo wincan significa rubare! E se la resistenza mapuche agli incas fu la prova generale per la successiva feroce resistenza contro gli spagnoli, in tempi più recenti l’identità nazionale cilena si è forgiata proprio con l’ottocentesca Guerra del Pacifico contro Perù e Bolivia. Insomma, per un complesso cileno prendersi un nome di sapore incaico sarebbe un po’ come per un complesso italiano assumere un nome di sapore asburgico, o gallico anti-romano: Radetzky, o Brenno. è vero: lo fanno i leghisti. Ma, appunto, in chiave consapevolmente antinazionale.

E in effetti, se Venceremos Ortega l’aveva fatta per gli Inti-Illimani, El pueblo unido era invece il contributo che per la campagna elettorale del 1970 aveva dato ai Quilapayún. Scrivendola assieme a loro in seduta collettiva perché, appunto, loro avevano una maggior preparazione musicale. Come mai allora El pueblo unido in Italia è identificato con gli Inti-Illimani? Molto semplicemente, perché quando il golpe costrinse tutti questi gruppi all’esilio i più importanti Quilapayún andarono in Belgio per riservarsi la più importante piazza francofona, confinando i più marginali Inti-Illimani nella più marginale Italia. Fu un accidente della storia se negli anni successivi il Partito comunista francese entrò in una storica crisi facendosi sorpassare come principale forza a sinistra dai socialisti di Mitterrand, proprio mentre il Pci conosceva invece i suoi maggiori fasti. E fu appunto sull’onda dell’avanzata politica e culturale di tutto ciò che era collegato al Pci, che gli Inti-Illimani si trovarono di colpo proiettati alla testa delle hit parade italiane, mentre in Francia e Belgio i Quilapayún vivacchiavano. Paradossalmente, il successo rimbalzò in Cile, dove dopo qualche anno i dischi dei due complessi ripresero a essere venduti legalmente, anche se i musicisti erano ancora in esilio e Pinochet si manteneva al potere. E gli Inti-Illimani superarono così anche in patria gli antichi maestri.

Di buon accordo, i due gruppi avevano nel frattempo messo gran parte dei rispettivi repertori in comune. Ma il maggior successo degli Inti-Illimani tradusse l’operazione in un’annessione di El pueblo unido, che nell’immaginario dura tuttora. «Raccogliemmo un successo tale, che ancora oggi gli italiani credono che El pueblo unido sia una canzone nostra» ricordava onestamente Salinas in un’intervista alla stampa cilena rilasciata nel luglio del 200112. Detto tra parentesi, perché i gusti personali sono evidentemente opinabili, l’autore di queste righe preferisce Venceremos, che considera una melodia trascinante degna erede di quella tradizione rivoluzionaria che inizia con la Marsigliese. El pueblo unido, invece, è a suo parere una terribile lagna, e forse il pezzo peggiore di un complesso che ha amato molto, pur essendosi sempre ideologicamente collocato a grande distanza da loro. Ma capisce bene il perché in Italia ha avuto più successo l’uno dell’altro. Venceremos, purtroppo, da noi ricorda troppo certi infelici slogan mussoliniani, che il disastro della seconda guerra mondiale porta oltretutto a considerare jettatori. E poi, per la sinistra era imbarazzante una tale contiguità di linguaggio! Al contrario, El pueblo unido non solo era più in linea con le sue parole d’ordine tradizionali, e di un partito che aveva l’Unità come giornale ufficiale. Con la sua parte gridata si prestava anche magnificamente agli slogan da manifestazione, gridati a pugno chiuso. Anche da questo particolare si comprende d’altronde che sia stata una canzone composta in seduta collettiva.

Musica popolare non-cilena
Né El pueblo unido né Venceremos, però, sono musica popolare in senso stretto. Sono infatti musica d’autore, e di un autore come Ortega che come abbiamo visto aveva fatto anche studi di alto livello. Pure d’autore sono le numerose altre canzoni di Victor Jara e Violeta Parra disseminate per i vari lp, assieme a altre composizioni di Ortega, in particolare su versi di Neruda. E sono queste in particolare le canzoni che riempiono metà del primo album degli Inti-Illimani, oltre agli interi album 2 e 413. Invece, la musica etnica vera e propria è presente nell’altra metà delle canzoni di Viva Chile!, oltre che nei volumi 3 e 5, intitolati non a caso Canto de Pueblos Andinos14. Ma qui è la terza sorpresa: praticamente nessuna di queste canzoni è cilena! E lo spiegano con tranquillità gli stessi cileni a chiunque si prenda la briga di visitare il loro paese. Se poi si passa anche negli Stati circonvicini, ci si rende conto facilmente che quella è musica che si suona in Bolivia, Perù e Ecuador. E come mai un gruppo cileno portava un nome boliviano-peruviano e alternava canzoni di autori cileni a canzoni popolari dei paesi vicini? Come mai questa strana operazione, che sembra quasi evocare gli scimmiottamenti celtici scoto-irlandesi venuti di moda tra la Lega in chiave antiunitaria?

Sì. Si tratta anche in questo caso di un’operazione politica. Ma, va detto a attenuante degli Inti-Illimani, in risposta a un’operazione politica altrettanto disinvolta di segno opposto. Il punto di partenza è nel 1964 l’elezione alla presidenza della Repubblica del democristiano Eduardo Frei Montalva, che aveva promesso una “rivoluzione nella libertà” per togliere spazio ai social-comunisti, nello spirito dell’Alleanza per il Progresso kennedyana. E il fulcro di questa politica fu appunto una radicale riforma agraria, del tipo di quella che sempre per togliere spazio alle sinistre e costruire un potente ceto medio rurale di contadini proprietari il generale MacArthur aveva imposto in Giappone e i governi democristiani avevano fatto in Italia. Ma da noi, si ricorderà, il contraccolpo era stata la rivolta dei ceti agrari contro la Dc, su cui avevano fatto blocco in chiave anticomunista nel 1948, e da cui si erano sentiti traditi. Nel 1953, dunque, questi ceti avevano votato in massa per il Partito nazionale monarchico e il Movimento sociale italiano, proprio mentre gli alleati laici della coalizione centrista erano a loro volta soggetti a un’emorragia di voti a sinistra come contraccolpo alla polemica sulla cosidetta Legge Truffa. Come è noto, il risultato fu che il quadripartito centrista mancò per una manciata di voti la quota del 50 per cento più uno che avrebbe fatto scattare la legge maggioritaria, che fu ritirata. E con lei si ritirò lo stesso De Gasperi, mentre la formula centrista entrava in una crisi irreversibile.

Mutatis mutandis, qualcosa di analogo accadde in Cile tra 1964 e 1970. Con la differenza che mentre la Dc italiana dopo la maggioranza assoluta del 1948 aveva voluto comunque imbarcare al governo Psdi, Pri e Pli, la Dc cilena dopo la maggioranza assoluta del 1964 snobbò gli storici partiti radicale, liberale e conservatore, che ancora nel 1958 avevano mandato alla presidenza Jorge Alessandri, e che apparivano ridotti ai minimi termini. Ma mal gliene incolse. Da una parte, infatti, i radicali si radicalizzarono (scusate il bisticcio) a sinistra, entrando nell’alleanza social-comunista. Dall’altra liberali e conservatori si fusero nel nuovo Partito nazionale, che si radicalizzò invece a destra, raccogliendo appunto la protesta degli agrari espropriati. Inoltre i dc avevano dimenticato che nel 1964 Frei aveva vinto su Allende proprio perché il divieto costituzionale della rielezione immediata toglieva dal gioco Alessandri. Nel 1970, invece, toccò a Frei restare a guardare il grande scontro tra Allende e Alessandri, dietro ai quali lo scialbo Tomic, candidato dc di ripiego, non arrivò che terzo a distanza. Per ripicca, al momento del ballottaggio in Congresso i dc votarono per l’elezione di Allende, che pure aveva preso meno voti che nel 1964, malgrado avesse in più l’appoggio dei radicali e di gruppi dc scissionisti. Salvo poi litigarci subito, lasciando Allende prigioniero delle spinte massimaliste del proprio elettorato, senza arrivare neanche al 30 per cento dell’appoggio popolare. E tutti sanno come andò a finire15.

Qui, però, interessa ricordare l’aspetto culturale di questa risurrezione della destra cilena. E per chi vuole approfondire si può senz’altro consigliare la preziosa lettura di un libro scritto nel 1996 dalla storica italiana Maria Rosaria Stabili: Il sentimento aristocratico. élites cilene allo specchio (1860-1960)16. La scommessa della Stabili è quella di ricostruire il “sentimento di sé” di un’oligarchia attraverso le testimonianze orali di alcuni membri di cinque nobili famiglie: cioè, rileggere le vicende di un’élite dominante con il più classico degli strumenti usato di solito per studiare le classi subalterne. E al centro dell’analisi emerge quasi subito il rapporto tradizionale fra queste élite e la terra, considerata il santuario del loro sistema di valori. «Quando si passano tutte le vacanze e i fine settimana alla proprietà di famiglia con cinquanta cugini» spiega una intervistata «è naturale che finisci per sposarti con uno di loro»17. Così come era naturale che anche nelle imprese di città si assumessero quei “fedeli” contadini con cui da piccoli si giocava e che da grandi divenivano “fedeli” elettori dei candidati di famiglia. Si spiega anche così la reazione “naturalmente” violenta che, dopo le riforme agrarie di Frei e Allende, porterà l’élite latinoamericana più attaccata alla democrazia ad appoggiare il golpe.

E simbolo di questo rimpianto divenne il huaso, il cow-boy cileno, testimone di un mondo patriarcale e feudale che la riforma agraria aveva cancellato. Scrive appunto la Stabili: «Negli anni Sessanta, durante la riforma agraria di Frei, un gruppo musicale folkloristico, Los Huasos Quincheros, cantava la nostalgia della terra… I quattro membri che lo componevano erano tutti figli della élite, vicini a un gruppo politico di estrema destra, Patria y Libertad, che negli anni del governo di Allende avrebbe contrapposto la violenza della destra alla violenza della estrema sinistra. Cantavano vestiti da huasos e alla figura del huaso avevano dedicato una canzone di orgogliosa affermazione di identità: Huaso per donde me miren. Anche le loro melodie erano quasi tutte romantico-nostalgiche»18. La Stabili riporta a questo punto le confessioni rivelatrici di una figlia dell’oligarchia che si era invece spostata a sinistra. «Nonostante fossi convinta che fosse necessaria la riforma agraria e militassi in un gruppo attivissimo che la promuoveva, devo dirti che io e i compagni militanti della mia stessa estrazione sociale, sentivamo molta emozione quando ascoltavamo i Quinceros»19.

Il folk della destra
Insomma, la musica folk cilena era diventata un’arma in mano alla destra. E quale miglior risposta, allora, che promuovere un’altra musica folk che si dichiarasse invece come di sinistra? Un esperimento fu la Nuova Canción Chilena di Violeta Parra e Victor Jara: quest’ultimo, non a caso, membro del Comitato Centrale dei Giovani Comunisti del Cile, e con incarichi formali di promotore culturale in campo giovanile20. Ma quello, appunto, non era vero folk, quanto piuttosto composizione cantautoristica di generica ispirazione folklorica21. Insomma, qualcosa tra De Andrè e Pino Daniele. Se i latifondisti si lamentavano perché gli avevano tolto le terre, d’altra parte, perché non ricordare quegli indios di cui all’alba di tutte le cose gli espropriati dell’oggi erano stati in passato gli espropriatori? C’era però il problema che i contadini mapuche erano sì tra i più ardenti militanti dei movimenti per l’occupazione delle terre, nell’unica tra le tredici regioni cilene in cui sono tuttora presenti. Ma la loro musica è, purtroppo, assolutamente inascoltabile per chi non sia o mapuche egli stesso, o appassionato di etnomusicologia. A un profano, piuttosto, i loro terzetti a base di trutruka, kultrún e pifilkka, che sarebbero poi un rustico corno, un tamburo e un fischietto, danno l’impressione di un guidatore di tir che dia di clacson in un ingorgo22.

Insomma, contro gli huasos fu mobilitata la più orecchiabile musica andina. Che in Cile era presente, all’estremo nord, allo stesso modo in cui lo yodel fa parte del folklore italiano, dal momento che Bolzano è provincia della nostra Repubblica. Ma i cui strumenti divennero onnipresenti nei raduni della sinistra, allo stesso modo in cui da un po’ di tempo agli appuntamenti leghisti abbondano le cornamuse. Scozzesi, beninteso: non le pive e le müse dell’autentica tradizione nord-italiana (o padana, come la si voglia chiamare). D’altra parte, che l’operazione fosse tutt’altro che filologica lo si comprende chiaramente dal modo in cui gli Inti-Illimani inserirono nel loro strumentario anche il tiple colombiano e il cuatro venezuelano, che nei veri organici andini sono altrettanto esotici che non gli ottoni balcanici nelle orchestrine di liscio romagnolo. Il che non vuol dire che, se si fa la prova, non possa venirne pure fuori qualcosa di coinvolgente. Secondo Horacio Salinas, la trovata era stata di Violeta Parra. «Il Cile non è un paese che presenti uno strumentario tradizionale molto ricco. Violeta ha aggirato l’ostacolo: ha preso il cuatro venezuelano, il charango dell’altopiano, e ha composto canzoni, inventato ritmi nuovi, utilizzato ritmi tramandati oralmente fuori dai contesti regionali»23… E la novità degli Inti-Illimani fu poi che in chiave andina proposero non solo alcuni classici del folklore boliviano, ecuadoriano e peruviano e alcune loro composizioni, ma riarrangiarono anche tutti i pezzi più noti della Nueva Canción Chilena. Insomma, un’operazione di invenzione della tradizione di quelle su cui Hobsbawm ha scritto il suo famoso libro24, ma che ha avuto un successo eccezionale.

La cospirazione della Cia
Ma il bello, e siamo così arrivati alla tesi numero cinque, è che la stessa musica andina originale è una tradizione inventata! Anche qui è utile procedere con una citazione integrale. In questo caso, dal capitolo dedicato alla musica andina di Musiche dal mondo. Atlante sonoro della World Music: «La rivoluzione boliviana del 1952 ebbe un effetto galvanizzante sul mondo musicale: provocò un’ondata d’interesse verso il patrimonio tradizionale. Le popolazioni amerinde, i quechua e gli aymara, ottennero finalmente maggiori diritti politici e più stabilità economica, nonché l’appoggio morale della classe intellettuale. Nacquero numerosi festival, le radio cominciarono a trasmettere musica tradizionale. Il “rinascimento andino”, se così può essere chiamato, fu guidato dai Los Jairas di Edgar Jofré, con una line-up che comprendeva bombo, charango, chitarra, quena»25. Il bombo è il tamburo; il charango la piccola chitarrina con la cassa in corazza di armadillo; la quena un flauto dolce di bambù. «Si trattò di una piccola rivoluzione», continua l’Atlante. «Questi strumenti, infatti, non erano mai stati riuniti, prima di allora, in uno stesso gruppo. Non solo: Los Jairas adattarono la musica tradizionale rurale ai canoni estetici europei, che nel frattempo si erano imposti a La Paz, in Bolivia. I boliviani Los K’jarkas, fondati dai fratelli Hermosa ne seguirono le orme, diventando i portavoce di un forte orgoglio etnico, che permeava anche l’iconografia del gruppo, tutta tesa a evocare lo splendore delle civiltà precolombiana»26.

Altra citazione d’obbligo è quella di Raymond Thevenot: uno svizzero diplomato di conservatorio in flauto traverso che negli anni ’50 si appassionò di musica andina fino a diventare un virtuoso di quena, e a inventarne e promuoverne una versione in legno, da concerto. Thevenot è stato anche autore di un manuale di apprendimento dello strumento in inglese, francese, spagnolo e tedesco, con accluse alcune preziose note storico-antropologiche. E anche lui, dopo aver delineato una precisa mappa organologica sull’uso degli strumenti nel folklore delle varie regioni andine, scrive che «il Cile rappresenta un caso particolare nel folklore andino. Le tradizioni indigene di questo paese non furono mai sviluppate in quanto alla musica perché la maggior parte della sua popolazione è costituita da razza bianca di origine europea»27. In realtà i “bianchi” cileni hanno per la maggior parte evidenti tracce di meticciamento con il sostrato mapuche, ma Thevenot ha ragione nel senso che in questo meticciamento l’apporto culturale europeo è risultato nettamente prevalente.

Continua Thevenot che, ricordiamolo, scriveva nel 1979: «Fino ad alcuni decenni fa non si suonavano né quena e né charango in Cile. Ma in seguito alle avventure “liberatrici” di certi guerriglieri sud-americani il Cile divenne il pioniere e il campione del folklore di protesta politica e di carattere sociale, adottando per questo la strumentazione tradizionale dei suoi due vicini Bolivia e Argentina. Questa forma di arte discutibile ha ottenuto tuttavia un grande successo presso le masse popolari di Europa quando gruppi cileni di talento si misero a viaggiare nel Vecchio Continente. Brasile e Argentina seguirono immediatamente questa nuova ondata di Neo-Folklore»28. Ma per spiegare come funzionano certe cose, con un certo sarcasmo Thevenot in questo libretto ripercorre anche la storia di El Condor Pasa, la melodia andina più conosciuta. «I boliviani e gli argentini rivendicano ciascuno la paternità di questa melodia», annota. «Il tema si incontra in alcuni dischi di folklore argentino sotto la denominazione generica “Tradizionale”. Il direttore del complesso Los Incas, argentino, firma El Condor Pasa sotto lo pseudonimo El Inca (quando l’unica cosa che ha fatto è stata di arrangiarlo), e certi suonatori di quena argentini e complessi stabiliti in Europa continuano a incidere El Condor Pasa con il nome El Inca invece del compositore vero. Il duo americano Simon & Garfunkel usa l’arrangiamento dei Los Incas come sfondo alla versione in inglese che in breve fa il giro del mondo e diventa una hit internazionale. Certi interpreti qualificano El Condor Pasa come “Fox Incaico” o come “Canzone Andina”. Nello stesso Perù, certi folkloristi negano che l’opera sia una composizione, dicendo che Robles si contentò di raccogliere varie melodie tradizionali e metterle assieme per farne un tema andino lungo. In generale i peruviani lo interpretano con lo stile della regione di Cuzco, quando in realtà l’opera non ha stile ben definito»29.

Ebbene, stando a Thevenot esiste una partitura originale con firma di Daniel Alomías Robles: nato nel villaggio peruviano di Huánuco nel 1871, morto nel 1943. E El Condor Pasa è registrato ufficialmente sotto copyright negli Stati Uniti fin dal 1933. E si tratta di un poema sinfonico per pianoforte! Una “fantasia andina” che comincia con una prima parte di introduzione a base di arpeggiati, a simboleggiare il condor che vola; continua col tema principale, che Alomías Robles definì “Fox Incaico”, ma secondo Thevenot è invece piuttosto una passacaglia lenta; e infine conclude con un terzo tempo a ritmo di huayno, una vivace danza andina tradizionale. «Ad ascoltarla al piano non sembra tanto folklorica», è l’osservazione di Thevenot30. Ma poi gli arrangiatori peruviani l’hanno reinterpretata sopprimendo la prima parte. Il tema principale viene allora ripetuto due volte: la prima lentamente, “come un yaraví quadrato”; la seconda più rapida, da “passacaglia agile”. Infine viene il huayno, aumentato con varie ripetizioni. «Dobbiamo riconoscere che così suona meglio», ammette il puntiglioso svizzero31. Boliviani e argentini saltano invece la passacaglia, passando direttamente dal yaraví al huayno, mentre Simon & Garfunkel si sono accontentati del solo yaraví. «L’unico dubbio che resta», conclude Thevenot, «è sapere se la melodia centrale e il huayno furono composti da Daniel Alomías Robles, o furono ispirati da qualche tema tradizionale da lui ascoltato. Ma solo Daniel Alomías Robles avrebbe potuto risponderci»32.

All’origine, dunque, c’è la Rivoluzione boliviana, che diede la terra ai contadini, nazionalizzò le miniere di stagno e riconobbe diritti civili e politici a una popolazione indigena che, benché maggioritaria, era stata tenuta fino ad allora in condizioni che possiamo definire tranquillamente feudali. Ma chi fece quella rivoluzione? Il Movimento nazionalista rivoluzionario (Mnr) di Victor Paz Estenssoro: un partito populista nato nel 1941, che all’inizio era addirittura filo-fascista, che in seguito evolverà in senso socialdemocratico, e che da ultimo, a partire dagli anni ’80, sotto la guida dello stesso Paz Estenssoro, evolverà verso quel tipo di posizioni che in America Latina definiscono oggi neo-liberales. Come per una nemesi, è stato proprio un presidente esponente del Mnr, Gonzalo Sánchez de Lozada, che il 18 ottobre 2003 è stato costretto alle dimissioni da una rivolta popolare guidata dai due leader indigeni: l’aymara Felipe Quispe, ex guerrigliero, e il quechua Evo Morales, capo del sindacato dei piccoli produttori di coca. Sic transit gloria mundi… Ma quel che più ci interessa è che fin dalla sua prima presa di potere l’Mnr era già saldamente inserito in un’orbita di movimenti politici riformisti filo-Usa, su cui il Dipartimento di Stato e la Cia puntavano come “terza via” tra la sovversione comunista e un immobilismo sociale che questa sovversione minacciava di alimentare33. Appunto, come il già citato Frei, o come in futuro il salvadoregno Napoleón Duarte. Non a caso, quando Ernesto Guevara non ancora el Che ma già molto anti-yankee passa per la Bolivia rivoluzionaria durante il suo famoso viaggio di apprendistato rivoluzionario per l’America Latina, nei suoi diari scriverà con disprezzo di questo tentativo di cambiare le cose d’accordo con l’imperialismo. “Rivoluzione del Ddt” sarà la sua acre definizione, alla vista degli indios in fila avvolti dalle nuvole di polvere insetticida messe a disposizione dai programmi anti-malaria della Fondazione Rockfeller34. è una sottovalutazione, questa, che gli sarà però fatale, quando nel 1967 cercherà di replicare la Sierra Maestra in Bolivia accendendo un fuoco guerrigliero proprio tra quei contadini che la rivoluzione dell’Mnr ha reso proprietari, piuttosto che tra i minatori sindacalizzati come la sinistra boliviana gli aveva consigliato. Non a caso, si trovò isolato e ci rimise la pelle. Quegli stessi minatori sono stati poi in gran parte licenziati con le ristrutturazioni degli anni ’80, e costretti a improvvisarsi contadini si sono buttati in massa sulla coca, scontrandosi con i programmi di sradicamento imposti dal governo su pressione americana. Per questo la campagna boliviana oggi è ridiventata rivoluzionaria, e ha trasformato in icona quell’immagine del Che che da vivo aveva respinto. E per esaltarlo utilizza quelle melodie andine già create per celebrare una rivoluzione voluta dalla Cia!

Musica comunista per il crollo del Muro
Ma qui siamo arrivati alla tesi numero sei. E per spiegarla dobbiamo fare un passo indietro, tornando alla miscela organologica di base della musica andina: strumenti a fiato amerindi, con relative melodie pentafoniche di origine incaica; più strumenti a corda ispanici, con relative armonie di accompagnamento di origine europea; più strumenti a percussione afro-americani, con relativi ritmi di sostegno di origine negra. Senonché i negri, numerosi in Colombia e Venezuela e anche presenti in cospicue minoranze nel nord dell’Ecuador e sulla costa peruviana, sono invece pochissimi in Bolivia. Per essere più precisi, si limitano a una piccola comunità di 5-10.000 individui, stanziati nella zona delle yungas. Discendenti di schiavi che nel periodo coloniale erano stati posti a coltivare coca per i minatori indigeni, nei secoli si sono integrati a tal punto nell’ambiente rurale della montagna da acquisire addirittura l’aymara come lingua madre. Mentre la loro struttura sociale si articolò attorno ai discendenti del principe di una dinastia africana che avevano scoperto essere stato deportato tra di loro dagli schiavisti.

È una comunità così eccentrica da essere quasi ignota alla massa degli altri boliviani, eccetto che per qualche calciatore. Diciamo che potrebbero equivalere a quel che rappresentano in Italia i valdesi francofoni delle Alpi Cozie, o i ladini della Val Gardena, o i catalanofoni di Alghero, se anche queste comunità producessero campioni del pallone. E tuttavia, è proprio dal loro sostrato africano che è scaturita la saya: il ritmo di danza che poi nel calderone della musica andina ha acquisito un peso assolutamente sproporzionato, rispetto a quella che era l’importanza degli afro-boliviani nella popolazione del paese. E che la saya tra tutti i ritmi andini sia il più coinvolgente, lo dimostra il particolare che anche gli Inti-Illimani lo usarono come proprio primo biglietto da visita in Italia. è il ritmo di tamburo di una saya boliviana, La fiesta de San Benito, che dà inizio infatti all’lp germinale, Viva Chile!

Ovviamente, non senza polemiche. Molti puristi in Bolivia sostengono che le numerose saya presenti nel repertorio dei Los K’jarkas non sono in realtà tali, ma rientrano nell’altro ritmo cosidetto caporales, proprio invece dei meticci, ma contrabbandato come danza negra. Altri dicono invece che non si tratta né dell’uno e né dell’altro, ma di un mix. Un simile mix è d’altronde quello che in Perù ha di recente dato vita alla musica chicha, salutata da Mario Vargas Llosa come bandiera di un nuovo melting pot che avrebbe finalmente superato la storica incomunicabilità tra le caste etniche peruviane in nuova realtà multiculturale. Chicha, come l’antica birra andina che dal tempo degli inca le donne fabbricavano masticando i chicchi del mais e poi sputandoli a fermentare in un’anfora, termine che per estensione è stato poi esteso anche a tutte le bevande fatte in casa a partire da frutta e cereali. Ni chicha ni limon era stato il titolo di una famosa canzone di Victor Jara contro i democristiani cileni. “Né bevanda alcolica né limonata”, nel senso italiano di “né carne né pesce”: insipido pateracchio centrista35. Per Vargas Llosa, invece, è proprio nella chicha il simbolo di una new wave. «è stata chiamata musica chicha quella che combina gli huaynitos andini con i ritmi alla moda caraibici e perfino con il rock e che ha incendiato come un fuoco le borgate di contadini che dalle Ande erano emigrati alla capitale», ha scritto il romanziere, da giovane ballerino in un gruppo folklorico andino. «Per estensione, designa ora questo nuovo paese composto da milioni di persone di origine rurale, brutalmente urbanizzate dalle vicissitudini politiche ed economiche, tra cui è venuta fuori una maniera di essere e di fare che nessun indigenista o ispanista avrebbe potuto sospettare mai»36. Insomma, l’ideologia di quel capitalismo popolare informale in cui Mario Vargas Llosa e Hernando de Soto hanno salutato l’incipiente rivoluzione liberale latinoamericana37.

Ma non solo latino-americana. A questo punto, bisogna infatti sconfinare nell’Amazzonia brasiliana: una regione che dal punto di vista musicale è certo meno nota nel resto del mondo che non la Rio de Janeiro della samba e della bossanova, o il Nordeste del forró. Ma anch’essa ha i propri ritmi e danze. Tra cui la più famosa è il carimbó, «un allegro e gradevole stile dance che venne elettrificato negli anni ’60 e divenne la base della vita notturna di Belem»38. Anche qui negli anni ’70 iniziò a sorgere un fenomeno chicha locale, a base di mix tra carimbó e i ritmi di merengue dominicano, salsa cubana e reggae giamaicano che venivano costantemente ascoltati dalle radio della contigua Guyana Francese. E ne venne fuori negli anni ’80 un nuovo ballo basato su colpi di fianco: per questo, da un lambo variante dialettale di lombo, chiamato lambada. Dall’Amazzonia la moda arrivò fino a Salvador, dove generò una versione più leggera, a base di sintetizzatori. E lì nel 1988 la ascoltarono alcuni produttori radiofonici francesi in vacanza e in cerca di idee nuove, che raccolsero un po’ di ballerini e musicisti e se li portarono a Parigi, formandovi il gruppo dei Kaoma. Evidentemente, però, oltre che in Brasile qualcuno di loro doveva essere passato anche per la Bolivia. Come che sia, la cover che trascinò al successo europeo e mondiale il disco e il ritmo dei Kaoma, proprio quello che fu intitolato Lambada tout court, non era altro che una saya dei Los K’jarkas: Llorando se fue. Tradotta letteralmente in portoghese, e adattata in un arrangiamento falso brasiliano che ne celava la melodia andina, pur sfruttando l’esotismo del suo sapore pentafonico, e ne esaltava invece la ritmica africana.

Come è noto finì non solo con una causa ma con una protesta ufficiale del Congresso di La Paz, che costrinse i Kaoma a riconoscere in copertina del loro album di essersi “liberamente ispirati” a un originale boliviano. Fu però nella versione dei Kaoma che il sensuale ritmo boliviano-brasiliano-francese divenne colonna sonora delle rivoluzioni anticomuniste del 1989. Eterogenesi dei fini: la musica inventata grazie alla Cia divenne icona comunista, ma finì per accompagnare la caduta del Muro di Berlino.

 

Note
1.     Guido Festinese, “Inti-Illimani”, in World Music, luglio 2000.
2.     Cfr. s.f. (ma di Maurizio Stefanini), “Il ‘líder’ ha lasciato gli Inti-Illimani in tour nell’Italia cilena”, in Il Foglio, 3 agosto 2001.
3.     Cfr. Miguel Calderón Campos, s.d., Los conceptos de modalidad regional, dialecto y variedad estándar en la delimitación de las variedades del español, www.upol.cz/res/ssup/hispanismo2/calderoncampos.htm#llamada39; Rafael Lapesa, s.d., El español de América, www.elcastellano.org/america5.html; Maria Grazia Menegaldo, s.d., Lo spagnolo d’America, venus.unive.it/aliasve/moduli/lingua_e_cultura/ispamer_Menegaldo.pdf.  4.     Claudio Wagner e Claudia Rosas, 2003, Geografía de la "ll" en Chile, www.scielo.cl/scielo.php?pid=S0071-17132003003800012&script=sci_arttext&tlng=es
5.     Pueblo Unido, 1997, Storia d’Italia attraverso le canzoni popolari, Libera Informazione Editrice 1 (A 180497), 2 (A 1905897), 3 (200697). I tre cd furono distribuiti in edicola col settimanale Avvenimenti.
6.     Inti-Illimani, 1973, Viva Chile!, Zodiaco Vpa 9175.
7.     Inti-Illimani, 1974, La Nueva Canción Chilena, Zodiaco Vpa 8207.
8.     Guido Festinese, “Il presente e la memoria. Intervista a Horacio Duran”, in World Music, luglio 2000.
9.     Victor Jara e Quilapayún, 1971, Canciones Folkloricas de América, Emi 15139.
10.     Sui mapuche cfr. José Bengoa, 1985, Historia del pueblo mapuche, Sur, Santiago; Carlos Aldunate del Solar, 1986, Cultura mapuche, Departamento de Extensión Cultural del Ministerio de Educación, Santiago; Maurizio Stefanini, “L’albero della vita” in La Nuova Ecologia, dicembre 1989.
11.     Sulle lingue indigene americane cfr. Maurizio Stefanini, “Le lingue native d’America. Recupero e riconoscimento” in Federalismo & Libertà, numero unico 2002. Sugli indigeni d’America cfr. Maurizio Stefanini, “La riscoperta degli amerindi”, in Limes, 4/2003 Panamerica Latina.
12.     Cfr. “Il ‘líder’ ha lasciato gli Inti-Illimani in tour nell’Italia cilena”, op. cit.
13.     Il volume 4 è del 1975: Inti-Illimani, Hacia la libertad, Zodiaco Vpa 8265.
14.     Inti-Illimani, 1974, Canto de Pueblos Andinos, Zodiaco Vpa 8227, e 1976, Canto de Pueblos Andinos II, Zodiaco Vpa 8229. Del 1977 è invece Chile Resistencia, Zodiaco Vpa 8355, con composizioni in stile nueva canción chilena. Prima di questi sei album il complesso ne aveva già incisi altri nove, e altri 20 ne avrebbero in seguito incisi fino al 1999, anno in cui lascia il gruppo Horacio Salinas: ultimo concerto, il 28 luglio 2001. «Salinas era il motore, gli altri la carrozzeria», commenta in quell’occasione l’ex manager Eugenio Llona (cfr. “Il ‘líder’ ha lasciato gli Inti-Illimani in tour nell’Italia cilena”, op. cit.). Ma il mito della memoria italiano degli Inti-Illimani è legato essenzialmente alle incisioni del periodo 1973-77.
15.     Nel 1958 Alessandri, appoggiato da liberali e conservatori, aveva ottenuto il 31,18 per cento dei voti contro il 28,51 per cento di Allende (socialisti e comunisti), il 20,45 per cento del dc Frei e il 15,36 per cento del radicale Bossay. Nel 1964 Frei ebbe il 55,67 per cento contro il 38,64 per cento di Allende e il 4,94 per cento del radicale Durán. Nel 1970 Allende, appoggiato da socialisti, comunisti, radicali, un gruppo uscito a sinistra dalla dc e due gruppi minori, prese il 36,22 per cento contro il 34,89 per cento di Alessandri, sostenuto dal Partito Nazionale, e il 27,81 per cento del dc Tomic. Se nessuno otteneva la maggioranza assoluta del voto popolare i due candidati più votati andavano al ballottaggio in Congresso, che per tradizione eleggeva il più votato. Ovviamente, però, presidenti senza solide maggioranze si accontentavano di fare da notai, e non si avventuravano in programmi ambiziosi come quelli di Allende. Sulla storia del golpe in Cile cfr. s.f (ma di Maurizio Stefanini) “Pinochet fu tiranno, ma la storia del Cile non è così semplice” in Il Foglio, 27 settembre 2002.
16.     Maria Rosaria Stabili, 1996, Il sentimento aristocratico. Élites cilene allo specchio (1860-1960), Congedo, Galatina.
17.     Stabili, op. cit., p. 135.
18.     Stabili, op. cit., p. 199.
19.     Ibidem.
20.     Guido Festinese, op. cit.
21.     D’altra parte, il fenomeno della Nueva Canción era nato tecnicamente in Argentina attorno al 1962, a opera di cantanti come Mercedes Sosa e Armando Tejado Gómez. è vero però che all’inizio non si trattava di un tipo di canzone espressamente politica, quanto piuttosto del recupero di alcuni generi musicali dimenticati, tipo la chacarera, la zamba o il chamame. è dal passaggio in Cile che la Nueva Canción perde questo carattere esplicito di folk revival per configurarsi espressamente come arte di protesta politica. Quanto alla Cuba di Pablo Milanés e Silvio Rodríguez, che mettono il movimento al servizio della rivoluzione castrista, il “contagio” è ancora più tardo, e risale sostanzialmente al grande festival della canzone di protesta tenutosi all’Avana nel 1967. In proposito, cfr. Aa.vv., Musiche dal mondo. Atlante sonoro della World Music. Volume 1. Centro e Sud America. Nord America. Asia e Oceania, Fabbri, Milano, 2000, pp. 99-110.
22.     Un esempio di musica mapuche è il brano numero 6 nel cd del 1999 Ibericamerica, Mar Nero 3004091, distribuito col numero della rivista World Music del giugno 1999.
23.     Guido Festinese, “Violeta, Victor e la Nueva Canción. Intervista a Horacio Salinas”, in World Music, luglio 2000.
24.     Eric Hobsbawm e Terence Ranger, 1987, L’invenzione della tradizione, Einaudi, Torino.
25.     Aa.vv., Musiche dal mondo.
Atlante sonoro della World Music. Volume 1. Centro e Sud America. Nord America. Asia e Oceania, Fabbri, Milano, 2000, pp. 89-91.
26.     Ibidem.
27.     Raymond Thevenot, Quena y and et und Folklore Latinoamericano, Los Pinos, Lima, 1979, p. 9 (la traduzione in italiano è nostra dal testo in spagnolo).

28.     Ibidem.
29.     Thevenot, op. cit., pp. 12.
30.     Thevenot, op. cit., pp. 13.
31.     Ibidem.
32.     Ibidem.
33.     Sull’Mrn cfr. Jean-Pierre Bernard, “Bolivie”, in Aa.vv., Tableau des partis politiques en Amerique du Sud, Colin, Paris, 1969, e Christopher Mitchell, “Bolivia”, in Aa.vv., Political parties of the Americas, Greenwood, Westport, 1982.
Sulla rivoluzione boliviana cfr. Alison Raphael, “Rivoluzione Boliviana” in Marcello Carmagnani (a cura di), Storia dell’America Latina, La Nuova Italia, Firenze, 1970; Piero Confalonieri, Bolivia, Asal, Roma, 1987; e Julio José Chiavenato, La guerra del Chaco Petróleo, Carlos Schaumann, Asunción, 1989.
34.     Cfr. Sergio De Santis, “Quel fuoco guerrigliero”, in Storia Illustrata, ottobre 1987. Le quattro biografie fondamentali su Che Guevara sono (edizioni italiane): Paco Ignacio Taibo II, Senza perdere la tenerezza: vita e morte di Ernesto Che Guevara, Il Saggiatore, Milano, 1997; Jon Lee Anderson, Che: una vita rivoluziionaria, Baldini & Castoldi, Milano,1997; Jorge Castañeda, 1997, Compañerp: vita e morte di Erneso Che Guevara, Mondadori, Milano. Pierre Kalfon, Il Che: una leggenda del secolo, Feltrinelli, Milano, 1998. Una testimonianza particolarmente critica sul personaggio e sul tentativo di guerriglia boliviano viene però dal libro scritto dal suo ex-braccio destro in Bolivia dopo il suo passaggio all’opposizione e in esilio: in italiano, Dariel Alarcón Ramírez Benigno, La rivoluzione interrotta. Memorie di un guerrigliero cubano, Editori Riuniti, Roma, 1996.
35.     Ciro De Rosa, “Biografia di Victor Jara”, in World Music luglio 2000.
36.     Mario Vargas Llosa, 1996, La utopía arcaica. José María Arguedas y las ficciones del indigenismo, Fondo de Cultura Económica, Mexico, p. 332. La traduzione in italiano è nostra.
37.     Sulla rivoluzione informale cfr. Maurizio Stefanini, “Alle origini della Rivoluzione Informale. Dalla Società Plurale all’‘Altro Sentiero’”, in Ideazione gennaio-febbraio 2005.
38.     Alberto Giraldi, “Axê Brazil!”, in Etnica & World Music numero 13 (novembre 1997).


Maurizio Stefanini, giornalista e saggista.

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