La soluzione liberale
di Massimo Teodori
Ideazione di maggio-giugno 2000

Di solito si pensa che il finanziamento della politica, cioè il modo in cui si fa fronte alle necessità finanziarie dell’attività politica, sia una questione, per così dire, tecnica e finanziaria. In quest’ottica, fin dai primi anni della Repubblica, si è risolto lo spinoso problema delegandone la soluzione agli addetti ai lavori – gli amministratori di partito – e ai custodi delle borse delle correnti, dei gruppi, dei movimenti, delle coalizioni, delle liste e dei candidati. Personalmente ritengo che questa maniera di guardare al finanziamento della politica sia stata e continui ad essere assai sbagliata, e non è un caso che abbia contribuito non poco al corrompimento della nostra democrazia. Il finanziamento della politica è, invece, un problema a pieno titolo istituzionale e democratico sia per la natura dei rapporti che postula tra cittadino, forze politiche e Stato che per gli effetti che determina nel sistema politico, altrettanto importanti di quelli indotti dal sistema elettorale. Una buona soluzione al finanziamento della politica migliora il sistema politico; un cattivo finanziamento è prodromo di degenerazione. E la storia della Repubblica ne è stata uno specchio puntuale.

Non si possono tuttavia valutare i vantaggi e gli svantaggi nonché le implicazioni delle diverse soluzioni al finanziamento della politica se non si fa riferimento ad un quadro politico-ideale. In questa sede, perciò, prima di indicare una proposta per il caso italiano, vorrei rendere espliciti gli obiettivi da perseguire. Vale anche in questo caso il parallelismo con il sistema elettorale, il fatto cioè che non esistono sistemi di per sé buoni e cattivi di finanziamento e di elezione ma solo sistemi funzionali al raggiungimento di determinati obiettivi. Ecco dunque quali sono gli obiettivi di cui, secondo me, occorre tenere conto in Italia per una soluzione di tipo liberale.

Assicurare l’uguaglianza delle chances dei soggetti politici ed elettorali. Il denaro per finanziare l’attività politica deve affluire ai partiti e ai soggetti elettorali in modo da non creare disuguaglianze. Questo principio basilare in qualsiasi democrazia va perseguito anche attraverso il finanziamento. Il gioco politico è corretto solo a condizione che i diversi protagonisti possano teoricamente avere le stesse possibilità di successo. Scoraggiare la nascita di partiti senza radici, ed evitare la frammentazione del sistema politico. L’effetto da evitare è quello del denaro pubblico che crea partiti artificiali e mantiene in vita formazioni senza radici.Fare funzionare i partiti e le altre forme di attività politica democratica. Nelle moderne democrazie i partiti sono i principali strumenti di cui dispongono i cittadini per concorrere alla politica nazionale e quindi devono essere messi in condizioni di ben funzionare allo stesso modo di altre forme di partecipazione politica: candidati, correnti, gruppi, coalizioni, movimenti e referendum.

Scoraggiare la spirale dei costi. Le spese politiche in tutto il mondo democratico tendono ad aumentare: sembra perciò opportuno che le modalità di finanziamento scoraggino la tendenza all’aumento indefinito. Sottrarre la politica all’influenza economica. È questo uno degli obiettivi principali della regolamentazione del finanziamento della politica in quanto l’autonomia della politica dalle influenze esterne, a cominciare da quella economica e finanziaria, è condizione essenziale del gioco democratico. Favorire la partecipazione dei cittadini. Non c’è dubbio che l’obbligatorietà del finanziamento della politica alimenta l’estraniazione dalla politica. Rispettare le volontà individuali. La politica non è obbligatoria. Si può partecipare o non, e scegliere il partito e il candidato che si vuole. Lo stesso criterio dovrebbe presiedere alle contribuzioni per la politica. Tutelare i diritti dei membri di partito. Chi controlla le finanze di partito finisce per avere all’interno dell’organizzazione politica un potere che non ha nulla a che fare con il consenso democratico e con la leadership.

Mettere gli individui e i gruppi organizzati in grado di sostenere i propri interessi in politica. Pagare per affermare le proprie idee e i propri interessi in politica dovrebbe essere un fatto eticamente positivo purché trasparente, dichiarato ed entro limiti stabiliti. Evitare che la politica sia sottomessa a influenze esterne, compresa quella del potere giudiziario. Il prepotere giudiziario sulla politica non è meno nefasto di quello del potere economico e finanziario.

Per trovare una buona soluzione occorre partire da quella che è stata l’esperienza italiana del passato. La via maestra e univoca seguita dal 1974 ad oggi è stato il finanziamento pubblico distribuito proporzionalmente alle forze politiche sulla base dei risultati elettorali. Questo criterio di fondo è stato introdotto dalla primitiva legge del 1974, successivamente modificata ed ampliata a più riprese negli anni Ottanta, mantenendo tuttavia sempre immutata l’impostazione statalista, obbligatoria e proporzionalista. Anche dopo il 1993, nonostante il referendum avesse decretato con il 90,3 per cento dei “sì” il rigetto da parte degli italiani del finanziamento pubblico, le leggi del 1993 (forte aumento dei rimborsi spese di ogni tipo di elezione), del 1997 (cosiddetto quattro per mille che non ha mai funzionato se non per anticipi) e del 1999 (cosiddetto rimborso spese elettorali distribuite annualmente per un totale di circa 800 miliardi in 4-5 anni) hanno tutte riproposto il criterio di un finanziamento pubblico ai partiti di tipo annuale, centralizzato, obbligatorio e proporzionale. Questo indirizzo univoco è stato seguìto da pressoché tutte le forze politiche con l’eccezione dei radicali e dei liberali. Fino al 1993 lo hanno appoggiato tutti i partiti tradizionali, grandi e piccoli, di governo e di opposizione, Dc, Pci, Psi e partiti minori; e dopo il 1994 hanno continuato a sostenerlo Democratici di sinistra e Forza Italia, Lega Nord e Democratici nonché tutti gli altri gruppi di destra, centro e sinistra con l’eccezione di Alleanza nazionale che nel corso del 1999 si è diversificata. Lo schieramento convergente di quasi tutte le forze politiche ha rappresentato un segno tangibile di quello che potremmo chiamare il “consociativismo finanziario” che dalla Prima Repubblica, attraversando la crisi degli anni Novanta, è arrivato fino ai giorni nostri.

Dopo venticinque anni si può fare un bilancio della scelta del finanziamento pubblico che è stata condivisa da tutto l’arco dei partiti (con le eccezioni sopra ricordate) in contrapposizione con l’orientamento della stragrande maggioranza dei cittadini. Lungo tutto questo periodo sono stati sì cambiati i meccanismi tecnici ma mai l’impostazione di fondo del finanziamento pubblico ai partiti. È perciò possibile esprimere un giudizio complessivo su tutta l’esperienza italiana, giudizio che è decisamente fallimentare per almeno quattro importanti aspetti.

L’aspetto etico-funzionale. La legge del 1974 fu varata all’indomani dell’ennesimo scandalo tangentizio dei petroli con l’esplicito obiettivo di porre fine ai finanziamenti illegali. Ebbene proprio da quegli anni l’accelerazione della corruzione politica diventa nel corso degli anni Ottanta sempre più sistematica e rilevante. Per l’intero sistema dei partiti il rapporto tra finanziamenti legali ed illegali era nel 1975 di 1 a 3: nel 1992 lo stesso rapporto diviene 1 a 10 con un volume di spese relative solo ai centri dei partiti che si aggira sui 1500-2000 miliardi l’anno escluse le campagne elettorali. Il finanziamento pubblico non ha dunque provveduto in alcun modo alle esigenze dei partiti e tantomeno ha eliminato la corruzione.

L’aspetto politico. Il finanziamento pubblico non ha contribuito alla riorganizzazione del sistema politico. Anzi ha incrementato la frammentazione partitica ed ha tenuto in piedi gruppi e formazioni che altrimenti sarebbero sparite. Nel 1997 e 1998 il criterio proporzionalistico portato all’eccesso ha fatto sì che fossero finanziati oltre cinquanta partiti, pseudopartiti e pseudomovimenti, la maggior parte dei quali formatisi sulla carta solo per accedere ai contributi statali.

La divisione dei poteri. La cosiddetta “via giudiziaria” alla rivoluzione politica, cioè il vero e proprio cambio di regime con l’eliminazione dei partiti di tradizione non comunista, postcomunista e filocomunista è passata attraverso la legge sul finanziamento pubblico dei partiti applicata ai reati commessi in un ristretto periodo, dal 1989 (anno dell’amnistia) al 1992-93. È stato questo il pretesto che ha consentito l’abnorme espansione del potere giudiziario (più particolarmente delle procure di Mani Pulite) sul potere politico e che ha sostanzialmente vanificato la separazione dei poteri nello Stato di diritto. Il sistema di finanziamento pubblico, lungi dal creare più uguaglianza tra i partiti, ha quindi posto le premesse per ogni tipo di disparità.

L’aspetto partecipativo. Il finanziamento ai partiti è stato vissuto da parte della stragrande maggioranza dei cittadini come un’odiosa imposizione sia per il carattere obbligatorio della tassa che per la destinazione indifferenziata del finanziamento verso tutto il sistema. Ha così rappresentato un ulteriore fattore di allontanamento della pubblica opinione dalle istituzioni e di avversione ai partiti considerati tutti equivalenti nei confronti del denaro.

Questo il bilancio fallimentare della strada intrapresa fin qui. Ci si deve ora interrogare se è possibile e realistico percorrere una strada radicalmente diversa, basata sul finanziamento volontario e non obbligatorio, privato e non pubblico, diretto e non per via statale, basato sul consenso e non sul proporzionalismo elettorale. Un obiettivo equo dovrebbe anche essere il finanziamento non solo dei partiti e delle elezioni ma anche di tutte le altre forme di attività politica attraverso cui il cittadino sempre più partecipa alla vita pubblica: gruppi ideali, componenti politiche, articolazioni territoriali, campagne ad hoc, movimenti referendari, coalizioni e cartelli elettorali.

La proposta cui si fa riferimento qui – denominata Norme per il finanziamento volontario dell’attività politica – è stata messa a punto da Beniamino Caravita e da me stesso, quindi discussa in diverse pubbliche occasioni e infine sottoscritta da un centinaio di personalità d’ogni orientamento politico e culturale. Con essa si cerca di disegnare un sistema per l’Italia assolutamente nuovo che si basa sui seguenti punti fondamentali:

– le erogazioni liberali sia di persone fisiche che di persone giuridiche (società, associazioni, sindacati...) sono libere;

– ogni anno sono detassabili i contributi alla politica di persone fisiche fino a 20 milioni a favore dei partiti e fino a 10 milioni a favore dei candidati;

– per le persone giuridiche la detassazione riguarda 100 milioni l’anno a favore dei partiti e 50 milioni a favore dei candidati;

– i finanziamenti possono essere destinati non solo a partiti ma anche a movimenti, candidati, articolazioni territoriali e componenti;

– è costituito un Registro nazionale dei partiti e movimenti politici presso cui devono essere depositati statuti, nomi dei responsabili politici e amministrativi e rendiconti dei soggetti che vogliono raccogliere contributi defiscalizzati;

– è istituito un Comitato di garanzia per il finanziamento della politica indipendente con il compito di sovrintendere alle operazioni finanziarie della politica;

– sono previsti rendiconti analitici dei donatori e beneficiari dei contributi;

– è fissato un tetto alle spese elettorali;

– v’è un rimborso pubblico alle spese elettorali che non può superare l’entità dei contributi privati (matching funds);

– sono previste agevolazioni in servizi;

– le sanzioni amministrative sono volte a interrompere i benefìci finanziari.

La politica costa. Attualmente i partiti godono di molti finanziamenti dello Stato: 800 miliardi di cosiddetto rimborso spese elettorale in un periodo di 4-5 anni, finanziamenti per una cinquantina di miliardi ai giornali di partito; abbondanti finanziamenti ai gruppi parlamentari, oltre a svariate altre agevolazioni palesi e occulte. In un anno elettorale i partiti costano complessivamente circa 10.000 lire a cittadino, ed è probabile che questa tassa obbligatoria vada aumentando. Questa somma riguarda solo i finanziamenti pubblici palesi a cui vanno aggiunti quelli occulti e privati che seguitano a restare in ombra. La proposta alternativa qui presentata è semplice. Il flusso di danaro che dai cittadini va alla politica non deve essere obbligatorio ma volontario, e non deve passare attraverso lo Stato per finanziare genericamente il sistema dei partiti ma seguire una strada diretta dal contribuente al partito. I contributi a partiti, movimenti politici, candidati alle elezioni, articolazioni territoriali, componenti partitiche e ad altre iniziative politico-istituzionali sono liberi, lasciando alla mano pubblica il compito incentivante attraverso la leva fiscale.

Alla base del sistema c’è il principio secondo cui ciascuna persona fisica o giuridica deve avere la possibilità di finanziare l’attività politica che preferisce. Si valorizza così la libera scelta del cittadino esaltandone la facoltà di sostenere apertamente con mezzi finanziari le idee e gli interessi che più gli sono consoni e, di conseguenza, si pongono le premesse per dare la massima trasparenza al danaro per la politica. Alla base di quest’impostazione c’è il rifiuto delle condanne moralistiche di quanti decidono di pagare la politica e per la politica, mettendo in piedi un meccanismo trasparente che favorisce la legittimazione pubblica di tali scelte. L’obiettivo è di rendere socialmente ed eticamente apprezzabili coloro che investono apertamente nella difesa dei loro interessi, che siano economici, sociali, ideali, di impresa, di sindacato, di categoria professionale o di semplice organizzazione civile o filantropica.

C’è poi il nodo del contenimento dei costi dei partiti e delle elezioni per cui occorre stabilire dei limiti rigorosi. Le spese di ciascun candidato in un collegio uninominale per la Camera e il Senato non dovrebbero superare la soglia di 150-200 milioni e il partito nazionale non dovrebbe spendere oltre 10 miliardi. Calcolando il costo complessivo di una campagna elettorale con sei formazioni politiche che presentano candidati in tutto il territorio nazionale, i costi, nell’ipotesi teorica che tutti spendano il massimo, sarebbero dell’ordine di 600-800 miliardi, cioè un terzo in meno di quanto sono costate le elezioni nella Prima Repubblica e continuano tuttora a costare.

Con questo meccanismo sia i privati che le organizzazioni avrebbero convenienza a sostenere l’attività politica: tirerebbero fuori dalle proprie tasche del denaro che invece di andare allo Stato avvantaggerebbe i partiti, i movimenti e i candidati preferiti. Mettendo a confronto quello che oggi i cittadini pagano per la politica attraverso lo Stato e quello che è qui indicato, forse nell’insieme non vi sarebbe gran differenza. Con la differenza però che l’attuale sistema è irrispettoso delle volontà individuali e quello proposto si basa su libere scelte. L’effetto più importante sarebbe però di evitare l’ondata di ostilità che sta di nuovo investendo una politica arrogante e imbelle, e di rendere minime le probabilità di una nuova Tangentopoli.

Altri punti rilevanti riguardano la possibilità di finanziare organismi diversi da quelli centrali per non rafforzare le oligarchie burocratiche, e la previsione di iscrizione al Registro dei partiti e movimenti politici come forma di responsabilizzazione dei soggetti politici. La registrazione rappresenta una forma tenue di riconoscimento giuridico delle funzioni pubbliche dei partiti volto a consentire il controllo sulle finanze politiche da parte di un organismo neutrale.

Questa proposta di ispirazione liberale si inquadra nella prospettiva di una riforma della politica tendente a ribaltare il criterio dominante secondo cui i partiti dipendono dallo Stato e gli iscritti dipendono dai partiti. Si tratta di un’utopia? Forse. In ogni caso varrebbe la pena di sperimentarla per verificarne gli effetti sul buongoverno della democrazia.


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