L'Occidente, il denaro, il potere
di Vittorio Mathieu
Ideazione di maggio-giugno 2000

Oggi la frase suona forse antiquata, ma trenta o cinquant’anni fa, entrando in un negozio, avremmo trovato normale sentirci dire: “In che cosa posso servirla?”. L’espressione è forte, perché “servire” è il residuo di un linguaggio feudale, e ci si può domandare perché sia usato da una delle due parti che stanno per concludere una transazione. Concluso l’affare, poi, non è inconsueto che colui che riceve il denaro ringrazi l’altro; e anche il gratias agere è una forma di omaggio feudale. La dissimetria non può esser dovuta a un diverso valore pecuniario delle cose scambiate perché, se le due parti si accordano, ciò significa che a quel prezzo e in quelle circostanze giudicano i valori equivalenti. La dissimmetria risiede, dunque, nella qualità delle cose scambiate: da un lato un bene fruibile, dall’altro una ricchezza potenziale, ovvero la possibilità di tornare a scambiare il denaro con qualche altro servizio, non importa da chi fornito. Il denaro è una energia potenziale. La sua liquidità dà un vantaggio, per ottenere il quale si è disposti, appunto, a servire. Potenziale di che cosa? Di altro servizio o lavoro, perché la merce stessa esiste a condizione che vi si incorpori un lavoro. E il valore in numerario della merce è una stima del lavoro; ma non (come sembra a volte, leggendo Ricardo o Marx) del lavoro necessario a produrre l’oggetto, bensì del lavoro che si presume di poter ottenere “realizzandolo”. Strana espressione anche questa. Vendendo un oggetto, si dovrebbe dire piuttosto che se ne idealizza il valore, perché il denaro è una semplice aspettativa. Ma il trapasso tra beni direttamente fruibili e denaro consiste in un rovesciamento di tutti i valori, sicché il bene che si idealizza in una aspettativa si suol dire, da questo punto di vista, che si realizza.

Notiamo che, se il denaro venisse scambiato contro un bene strumentale di produzione, poniamo una azienda, chi lo riceve non ringrazierebbe chi lo dà: perché l’azienda è un insieme di “cose da fare”, o di servizi che si assume il compito di prestare, non un servizio che il venditore renda all’acquirente. L’aspetto feudale del rapporto si manifesta solo quando lo scambio implica una sorta di servitù personale. Così il cliente, quando “si fa servire”, diviene il signore del vassallo che gli rende omaggio, in cambio di un denaro con cui costui conta di farsi servire a sua volta. In questo senso il denaro è lavoro potenziale o, come diceva già Adam Smith, “comanda lavoro”.

2. La trasformazione dell’economia feudale in economia finanziaria presenta vantaggi che la rendono inevitabilmente vincente; ma porta anche inconvenienti morali che la rendono oggetto di infinite deprecazioni. In verità, il vantaggio è anche morale: la dipendenza di chi serve diviene impersonale, nel senso che il cliente, purché paghi, non importa chi sia. Inoltre il servizio è accettato in qualche modo volontariamente: potrebbe sempre, in teoria, essere rifiutato, o gli si potrebbe preferire un servizio diverso. La possibilità di rifiutare, tuttavia, viene ridotta enormemente dal bisogno, e la scelta del servizio prestato dal tipo di richieste del mercato. Innumerevoli persone amerebbero dipingere e vivere vendendo i loro quadri, o i loro romanzi, ma pochissimi ci riescono. Altre, non dotate di tecniche richieste dal mercato – o, addirittura, di nessuna tecnica – hanno difficoltà a fornire un servizio qualsiasi. Di conseguenza non riescono a ricevere denaro per farsi servire a loro volta. Ciò non toglie che il rapporto di signoria-servitù nell’economia finanziaria sia un progresso di libertà rispetto al corrispondente rapporto dell’economia feudale dove, al limite, la servitù della gleba si avvicinava a una schiavitù vera e propria, seguendo il servo le sorti del fondo a cui era legato, ed essendo le sue prestazioni personali e non surrogabili. Il corrispettivo, data la scarsità di circolante, era soprattutto in natura: protezione, elargizioni, concessioni diverse. Anche a livello più elevato la gerarchia feudale era uno scambio di servizi quasi contrattuale, in cui però le prestazioni erano prestabilite e legate alle persone. Per contro i servizi che si possono ottenere per denaro sono del tutto indeterminati e, purché la quantità di denaro sia grande, si può sempre presumere di trovare qualcuno disposto a prestarli. Questa, naturalmente, è un’obiezione che frequentemente si pone all’onnipotenza del denaro. Vi sono inoltre nell’economia monetaria difetti e particolarità curiose. Una è l’avarizia, per cui, pur di conservare la ricchezza in forma potenziale, si rinuncia anche per sempre a impiegarla. Altro fatto singolare è che anche chi dispone di denaro in quantità sufficiente per vivere senza prestare servizi ad altri rinuncia a questa libertà e lavora, in attività spesso più logoranti di un lavoro dipendente, in cambio di una ulteriore ricchezza, che non ha possibilità di godere. Quest’ultimo fenomeno, tuttavia, non è così sfavorevole, perché elimina quella figura del rentier per diritto ereditario, che tanta indignazione solleva nei moralisti. A qualcuno venne in mente di eliminarla escludendo ogni diritto a ereditare: ma non si riuscirebbe a eliminare per legge l’eredità cromosomica, che rende facile a qualcuno e difficilissimo ad altri il guadagnare: sicché le “ingiustizie” rimangono in ogni caso.

3. È nota la critica socialistica all’economia monetaria, con tentativi di eliminare il denaro dalla società. Ne sperimentò uno Robert Owen, divenuto ricco grazie alla rivoluzione industriale, che fondò in America una comunità descritta in A new view of society: malauguratamente il denaro tornò subito a circolare in forme diverse, surrogatorie, anche senza monete coniate. Il socialismo meno utopistico si limita giustamente a escludere che tutti i tipi di collaborazione e, quindi, di dipendenza reciproca, possano fondarsi sul denaro. Se, però, il principio si generalizzasse non si farebbe altro che riproporre la regressione a un modo di collaborare tipico della società feudale ai suoi inizi. In essa la subordinazione di un soggetto all’altro dipendeva solo dalle rispettive funzioni. A un certo punto, però, tutte le funzioni tendono a divenire ereditarie (nella Corea del Nord, ad esempio, la funzione di capo dello Stato). Ciò ha il vantaggio di rendere più facile a ciascuno sapere quel che deve fare. Non rende più probabile, però, che lo faccia. Inoltre irrigidisce i rapporti. Una società di funzionari più o meno ereditari (e anche le funzioni di notaio o di diplomatico o di impiegato in un ministero tendono a diventare ereditarie), non solo soddisfa meno bene ai propri bisogni, ma peggiora i rapporti personali. Quand’anche, poi, si riuscisse a nominare i funzionari esclusivamente in base ai loro meriti (intesi come capacità di giovare alla cosa pubblica) resterebbe il problema: a) di riconoscere questi meriti; b) di prevedere di che cosa la società avrà bisogno. Alle origini prevedere il bisogno della società era facile: si trattava della difesa militare. Il potere sovrano affidava questo compito a chi appariva meglio in grado di farvi fronte. Si faceva accompagnare dai compagni (comites o conti) più fidati, affidava il contado ai più saggi “langravi” (conti territoriali) e spediva i più valorosi, come “marchesi” nelle marche di confine. Ciascuno di costoro pensava poi a scegliersi i migliori collaboratori, vassalli o milites. Irrigiditasi ereditariamente, tale nomenklatura dava luogo a risultati comici già ai tempi di Dante («mai voi torcete alla religione…» eccetera). Eppure qualche buon risultato lo si ebbe, ad esempio, in Germania, fino all’Ottocento. Frattanto, però, un ben diverso tipo di dipendenza reciproca (“borghese”) si installava nei borghi, dove, pur con vincoli corporativi, la collaborazione si apriva a un servire reciproco grazie alla moneta. Chiunque disponesse di denaro diveniva al tempo stesso signore e vassallo di molti altri che non conosceva neppure. L’inventiva ampliava i bisogni e i modi per soddisfarli; e chi non prevedeva giusto spariva dal mercato, fallendo. L’inevitabile disparità suscitava ribellioni come quella, verbale, di Leporello: «Voglio fare il gran signore, e non voglio più servir».

Con tutto ciò, non c’è dubbio che servire per contratto fosse preferibile a servire per nascita, anche se ciò rendeva più facili rapporti occulti e illeciti. Passaggi erano frequenti, ma più dalla signoria finanziaria alla feudale che viceversa. Una famiglia di mercanti poteva acquisire a Firenze il titolo di arciduca, più difficilmente un titolo nobiliare dava influenza sui mercanti. Accadeva bensì che i sovrani spogliassero i banchieri (o, più facilmente, gli ordini religiosi: si pensi a Filippo il Bello o a Enrico VIII), ma ciò avveniva con operazioni violente, non strutturali. Oggi ogni alleanza tra un potere politico non più aristocratico e il denaro appare come una contaminazione. Eppure più che mai il potere politico ha bisogno di ricevere e di erogare denaro per ottenere consensi non coercitivi. Con quali conseguenze? La libertà politica fondata sul principio no taxation without representation si ritorce contro se stessa, perché nei parlamenti attuali nessuno è in grado di conservare la representation senza spendere più denaro di quanto ne abbia, e senza farne erogare dallo Stato più di quanto possa spremerne dai cittadini. Sicché, paradossalmente, a contenere la spesa pubblica pensano più i governi che i parlamenti. La formula anglosassone della libertà non funziona più. Che cosa la tiene ancora in vita, in qualche misura, negli Stati Uniti? Solo una capacità produttiva ingentissima, grazie alla flessibilità dell’economia monetaria; grazie, cioè, al rispetto di una libertà contrattuale che evita (però solo fino a un certo punto) la contaminazione tra pubblico e privato. Modello difficile da conservare e ancor più da raggiungere, quando si torni a sovrapporre alla signoria-servitù del denaro il più antiquato rapporto di tipo feudale, di una società di funzionari.

4. Non nascondiamoci, però, che una regressione a fenomeni ancor più lontani rischia di prodursi nella stessa economia monetaria. La si può individuare seguendo la strana storia della parola “cliente”. Nell’economia monetaria il cliente acquista dapprima la posizione del signore, ma poi rischia in certi casi di ricadere in una dipendenza analoga a quella dei clientes romani. Cominciamo col notare che l’apparente omogeneità del denaro è illusoria. Un miliardo di dollari non è la somma di mille patrimoni di un milione di dollari. Non per nulla esistono marchingegni per concentrare il denaro e rendere possibili risultati che altrimenti non si potrebbero raggiungere: ad esempio le società per azioni, l’Enalotto o, più modestamente, la mendicità. Solo così si rende effettiva la capacità del denaro di “comandare lavoro”. Tali processi, però, danno luogo a tipi di controllo molto diversi. La capacità di controllo dei piccoli azionisti è praticamente nulla, per la difficoltà di coalizzarsi. E così la sovranità del consumatore può rovesciarsi in una dipendenza dal produttore, come avveniva in Roma, dove i clientes non davano, bensì ricevevano sovvenzioni. In cambio fornivano servizi in natura (in particolare elettorali). Il patrono (da cui ancora il “padrone” e il francese patron) li otteneva appunto grazie a una ricchezza concentrata. E clienti si diventava, non per libera scelta, ma per la situazione. Diventavano clientes, ad esempio, gli schiavi liberati, o i vicini di casa, o gli artigiani. Sotto l’impero c’era tutta una gerarchia di clienti dell’imperatore. Al sommo stavano gli “amici” (come nella Dc), un po’ al di sotto i “compagni” (come nel Pci), poi i convivae, i familiares, eccetera, fino ai semplici milites, come i militanti degli odierni partiti. In particolare il termine comes (compagno), che diviene “conte”, mostra come, col frantumarsi del potere centrale nel basso impero, il clientelismo si trasformi in feudalità. E ciò avviene in tutti i livelli della gerarchia. È caratteristico che Dante chiami “vassalli” i semplici sguatteri, a cui i cuochi ordinano di pungere «la carne con gli uncin, perché non galli». Nelle grandi occasioni il signore “tenea corte bandita”, offrendo cibi e bevande. Ancora nell’Inghilterra moderna le elezioni si vincevano nei “borghi corrotti” a colpi di boccali di birra. E si ricordano due famiglie rovinatesi nel contendersi in questo modo uno stesso borgo (una è la famiglia dell’attuale lord Northampton, l’altra quella da cui discendeva la compianta Lady Diana). Oggi in zone d’Italia dove la tradizione romana è meglio conservata rapporti “clientelari” sono ancora vivi come scambio di favori in natura a livelli diversi.

Vediamo ora perché la stessa organizzazione monetaria possa dar luogo a una regressione del genere. Il principio che il cliente ha sempre ragione è messo in pericolo dal monopolio; ma, in mercati relativamente ristretti, ancor peggiore è il monopsonio, in cui, cioè, l’acquirente tende a divenire uno solo. I subfornitori possono offrire in pratica i loro prodotti a un unico acquirente: a volte in campo industriale, ancor più spesso in campo agricolo. Allora i piccoli produttori divengono clientes in senso romano, pur essendo quelli che vendono che non quelli che comprano.

5. Il sospetto che il “capitalismo selvaggio” suscita dal lato del produttore fa sì che sorgano innumerevoli authorities contro il monopolio, e il loro nome ne rivela l’origine anglosassone. Al tempo stesso, però, si insiste in tutti i campi (banche, chimica, autoveicoli) sulla necessità della concentrazione, per realizzare economie di scala. Sembra inevitabile che le due preoccupazioni si contraddicano. Per di più, in concreto, le misure per evitare, sia i monopoli sia i monopsonii, in particolare di prodotti agricoli come la soia, risultano spesso inefficaci. I decreti legislativi non ottengono l’effetto voluto se non si sposano con tendenze spontanee dell’economia. Anche qui naturae non imperatur nisi parendo. Per fortuna tendenze autonome dell’economia si manifestano nell’età del “postfordismo”. In luogo di aziende a struttura piramidale, legate tra loro solo da transazioni finanziarie, si affermano reti di piccole e medie aziende, legate tra loro da informazioni capaci di far convergere il loro lavoro verso fini comuni.

Tali fini sono sempre, in primo luogo, il profitto. Questo, in realtà, nell’economia capitalistica non è il fine ultimo, come si suol pensare, bensì uno strumento per sviluppare l’attività. Ciò che fa bene sperare è che il profitto oggi si realizza spesso attraverso una collaborazione, in cui la parola “concorrenza” riprende il significato etimologico di correre insieme verso un fine comune. La cosa è resa possibile dal progresso delle comunicazioni, che permette di scambiarsi “in tempo reale” le informazioni necessarie per adattare l’attività a esigenze che mutano rapidamente. Ciò elimina quell’irrigidimento che minaccia la stessa economia monetaria, rischiando di riportarla a una condizione prefeudale.

Il cambiamento cominciò a prodursi anni fa, là dove la produzione “spinta” si trasformava in produzione “tirata”. Il produttore, anziché mettere sul mercato una gran quantità di merce e cercare poi il modo di esitarla, produce rapidamente tutto e solo ciò che l’acquirente gli chiede. Ciò si ottiene all’interno della stessa azienda facendo dei reparti a valle i “clienti” dei reparti a monte, che lavorano solo su richiesta: in mancanza, possono anche restare inattivi, cioè pensare ad altro. Ciò richiede, naturalmente, un rapporto molto più organico, sia con i clienti terminali, sia con i subfornitori. Per ridurre gli sprechi di una temporanea inattività occorre in ciascuna fase flessibilità e capacità di passare rapidamente ad altro. Si noti, però, che per questa via si eliminano altre forme di spreco: in particolare l’immobilizzazione di capitali in magazzini intermedi o finali, in attesa di smercio. In breve, alle economie di scala del fordismo si sostituiscono le “economie di scopo” del postfordismo.

Inoltre la trasformazione del rapporto di dipendenza tra un reparto e l’altro in un rapporto flessibile fornitore-cliente estende anche all’interno dell’azienda rapporti tipici di aziende diverse, rapidamente variabili in funzione della richiesta. La rete di aziende così legate prende il nome alquanto ampolloso di “azienda olonico-virtuale”; ma esperimenti già tentati con successo escludono che si tratti di mera eloquenza. La collaborazione simile a un mercato aperto e competitivo all’interno di ogni azienda offre vantaggi che compensano i costi dovuti alle necessarie “pause di riflessione”. E queste giovano, d’altro canto, alla elasticità mentale dei lavoratori, che tendono a passare, pur restando “dipendenti”, al modo di pensare e di agire proprio dell’imprenditore: il quale, di solito, lavora di più e più volentieri che un dipendente. Ciò è importante perché le finalità della produzione da un lato e la realizzazione di sé da parte del lavoratore dall’altro si avvicinano (pur senza pretendere la perfezione), se convergono spontaneamente, meglio che se si cerca di imporre l’una sull’altra.

L’economia monetaria può così correggere i propri difetti senza regredire a ordinamenti sociali simili al feudalesimo o, al limite, alla schiavitù. Per contro, la guerra alla libertà contrattuale, là dove i contratti non abbiamo per oggetto un crimine, lungi dal civilizzare il capitalismo selvaggio lo rende ipocrita, ostruzionista, distruttore, corruttore, evasore e profittatore. Ossia fa il contrario di ciò che dovrebbe una buona politica.


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