Il sistema italiano delle tangenti
di Luciano Cafagna
Ideazione di maggio-giugno 2000

Esiste un’etica della politica in materia di danaro? Io credo che esista e che, prima di tutto, riguardi un’area diversa dalla legalità dei comportamenti dei soggetti politici e dall’accertamento giudiziario di tale illegalità. I soggetti politici possono essere eticamente condannabili anche senza incorrere in comportamenti illegali accertati. Oppure essere giudiziariamente perseguibili, per esempio per concorso nel finanziamento illegale a partiti, senza che questo, in molti casi, leda veramente la loro immagine etica: per esempio, se lo hanno fatto senza vantaggio personale. Io credo che esista, dunque, un’etica della politica in questo campo, ma che tale etica non stia nelle tavole dei dieci comandamenti, né in un codice scritto. L’ottica, a parer mio, deve essere quella adottata da Max Weber in un celebre suo saggio sulla professione politica. In più credo empiricamente che quella etica la definiscano i cittadini ponendo dei vincoli alla loro disponibilità al consenso nei confronti di un politico o di un gruppo politico, in relazione ai comportamenti che questi hanno con i flussi di danaro coi quali entrano in contatto nel loro fare politica. Probabilmente esiste anche, nel modo di giudicare queste cose, una certa differenza fra aree protestanti e aree cattoliche. Cosa chiedono, eticamente parlando, i cittadini a un politico? Normalmente, mi pare (dico “normalmente”), i cittadini chiedono al politico o al gruppo politico – sopra ogni altra cosa – di dar prova di cura effettiva degli interessi della collettività e di tenere questo obbligo al primo posto nella propria attività; di rappresentare effettivamente con dignità e onore la collettività stessa; di non far prevalere interessi o passioni private sull’interesse pubblico; di operare, almeno, con discrezione quando non si può fare a meno di navigare sott’acqua con i sommergibili di quella che è stata chiamata la “politica invisibile”, e di osservare un tenore di vita nel privato conforme a quel che era il proprio stato sociale anteriormente alla assunzione degli incarichi politici. Credo che l’ordine in cui ho ricordato queste domande dei cittadini sia, più o meno, quello stesso della importanza che da loro viene ad esse attribuita. Forse, se un codice non scritto in qualche modo esiste in materia, i suoi primi paragrafi sono questi.

Qualche volta alcuni di questi aspetti, nel comportamento di un politico, possono entrare in conflitto fra loro. Probabilmente il caso più clamoroso, nella storia della vecchia Italia, fu quello di Francesco Crispi. A lui molto fu perdonato dalla opinione pubblica del suo tempo perché era impossibile negare – al di là degli stessi dissensi politici – che l’impegno per il paese fosse per lui il primo dei pensieri e che egli fosse capace di rappresentare il paese con dignità e autorità. (Credo che qualcosa di simile pensi la gran parte dei francesi di oggi a proposito di François Mitterrand). Nocque certamente assai di più, a un uomo come Crispi, l’insuccesso della sua politica coloniale che non l’essere invischiato nello scandalo della Banca Romana: anche se, per questo, dové pagare per qualche tempo il suo prezzo. Ma nessuno dei suoi storici, da Volpe a Manacorda, per citare campioni di opposte tendenze, nel giudizio sul personaggio, dà rilievo significativo a quei suoi comportamenti.

“Scandalo”: allora così si chiamavano, oppure, più eufemisticamente, si diceva l’“affare”, come s’era fatto, negli anni Sessanta, per il grande precedente della “regia dei tabacchi”. Quello della Banca Romana fu cosa grossa. Coinvolse la gran parte della classe politica del tempo e fu parte integrante di quella che gli storici chiamano la “crisi di fine secolo”. Giolitti stesso, come si sa, non ne restò indenne, anche se, come persona, fu coinvolto solo marginalmente: e, certo, fu quella, per lui, una lezione che valse a consigliargli l’irreprensibilità più radicale per il resto della vita. E senza questa aura di irreprensibilità – tra l’impopolarità che gli cagionavano i suoi metodi politici per farsi le maggioranze e quella che gli procurava, specie fra gli intellettuali, la sua arte politica troppo mediatoria e prudente – chissà se avrebbe avuto la stessa fortuna.

Che la politica abbia dei costi lo si sa da sempre. E che siano maggiori quelli dei regimi liberali e competitivi, soprattutto quelli della democrazia rappresentativa del suffragio universale, pure. Basti pensare al costo degli organi di stampa. E così pure si sa che il finanziamento dei costi della politica prende spesso forme non trasparenti, di “mercato” della decisione amministrativa o politica, dalla vendita dell’interesse generale a privati, alla manomissione delle regole di parità nei rapporti dello Stato o dell’ente pubblico con i suoi fornitori, al semplice mercato dei “tempi” di esecuzione di una decisione magari, per altri versi, non influenzata. Il caso della Banca Romana fu esemplare della prima e più grave tipologia: si chiudevano gli occhi sull’abuso della Banca nel creare circolazione, in cambio di “tangenti”, le quali avevano la forma di aperture di credito bancario – di cui, poi, nessuno chiedeva il “rientro”... – a singoli politici. Quella vicenda testimonia di un mutamento certamente avvenuto nella classe politica italiana con il suffragio allargato (1882): il declino del sistema di rappresentanza a candidatura elettorale designativa e notabilare e la composizione ormai meno “abbiente” e più rampante e aggressiva del ceto politico. Sarebbe interessante riprendere quel caso – ampiamente narrato in un vecchio libro, ormai introvabile, di Nello Quilici e poi da Eligio Vitale – specie per ricostruire i percorsi del suo “disvelamento”, nonché la parte avuta, in questo, dalla opinione pubblica e da alcuni protagonisti più attivi di questa, come il Colajanni, il Pantaleoni, il Labriola. La non trasparenza, d’altro canto, rende automaticamente impossibile distinguere fra quei movimenti illeciti di danaro che servivano propriamente al finanziamento della politica e quelli che andavano a comporre il beneficio puramente privato che dalla attività politica derivava, per queste illecite vie, a singoli soggetti. Il ristabilimento in Italia di un regime democratico, per le modalità che questo ha storicamente avuto, ha però comportato mutamenti profondi e una enorme amplificazione del problema. Il regime fascista aveva prodotto cospicui arricchimenti personali di tipo illecito, come documenta la polemica interna alla classe politica fascista esplosa al tempo della Repubblica di Salò. Ma non poneva, per sua natura, salvo che nel suo primo periodo di ascesa e consolidamento, specifici problemi di illecito finanziamento della politica: primo, perché il regime aveva soppresso le libere elezioni competitive e la conseguente costosa autogestione delle candidature, e, secondo, perché lo stesso regime poteva provvedere al finanziamento dell’unico partito, della sua stampa e delle sue strutture collaterali con decisioni la cui liceità era automaticamente garantita dalla natura autoritaria del sistema politico... Però il costo della politica, in se stesso, durante il regime fascista, nonostante la mancanza delle spese elettorali, ebbe certamente una lievitazione considerevole. E ciò a causa dello sviluppo, in quel periodo, della costosa “forma-partito” (come la chiama Paolo Pombeni) e delle molteplici attività che essa generava in concomitanza con la notevole evoluzione tecnologica, allora avviatasi, appunto, nelle comunicazioni di massa.

Il ritorno alla democrazia trovò pertanto, nella conduzione della politica, abitudini consolidate di un “regime di massa” (grossi apparati, struttura capillare di sedi, grandi macchine propagandistiche, stampa di manifesti opuscoli e giornali, scenografie imponenti), che andavano a moltiplicarsi, però, nella competizione aperta fra “più” partiti. Questi potevano avvalersi di qualche “infrastruttura” materiale (per esempio le sedi) o immateriale (abitudini e prassi) ereditata dal regime autoritario: ma, per il grosso, dovevano far fronte alle spese del moderno partito di massa con mezzi appositamente raccolti. Si aggiunga che, in più, dovevano affrontare crescenti costi di competizione. La solida affermazione del partito comunista – un fortissimo partito di apparato – fu per gli altri una sfida sullo stesso terreno. Nasceva, insomma, nel campo delle necessità finanziarie della politica, proprio una nuova realtà, una realtà che l’Italia liberale non aveva conosciuto affatto.

L’assestamento prodotto dalle elezioni del 2 giugno 1946, e poi, soprattutto, da quelle del 18 aprile 1948, lasciò in primo piano, nella nuova democrazia italiana, solo tre grandi partiti. Uno di questi – la Democrazia cristiana – aveva posizione dominante nel governo. Era, al tempo stesso, un partito-apparato e un partito di notabili (“notabili” in un senso in parte simile a quello ottocentesco, in parte modificato). Il sistema di finanziamento della Dc si organizzò, più o meno rapidamente, intorno a quella posizione dominante – sfruttandone le chances ai fini delle pratiche tradizionali di finanziamento illecito – con doppia articolazione, notabilare e di apparato. Il partito Dc si avvalse, a un certo punto, di un’altra “infrastruttura” (uso qui l’espressione in senso figurato) creata dal fascismo: e cioè il sistema della impresa pubblica, il quale, in regime democratico – almeno nella fase successiva agli anni della ricostruzione – venne perdendo le originarie caratteristiche più spiccatamente tecnocratiche per entrare sempre più in una sfera di “ingerenza” (per dirla alla Minghetti) partitica. Fu la segreteria Fanfani ad accentuare – come è noto – il profilo apparatistico del partito Dc e, contemporaneamente, a puntare sul sistema della impresa pubblica come fonte di finanziamento politico. Per contro, il nuovo colosso postfascista del settore economico pubblico, l’Eni, attraverso il suo capo Mattei, diede vita a un mostro inedito in materia di finanziamento della politica, vale a dire a una figura di manager che gestiva finanziamenti illeciti con potere autonomo e decisioni proprie: il “boiardo”, come si disse poi, per richiamare una figura feudale di forte indipendenza dal potere centrale e influente, invece, su quest’ultimo.

Dei due partiti della opposizione – il comunista e il socialista – il primo divenne rapidamente egemone della opposizione stessa. Non solo esso aveva, in virtù del proprio posizionamento economico ideologico e internazionale, proprie fonti estere di finanziamento – l’Unione Sovietica – ma era riuscito a sottrarre praticamente alla tradizionale influenza socialista il grande patrimonio “infrastrutturale” costituito dal sindacato, dalle municipalità rosse, dalla rete cooperativa. Quest’ultima, in particolare, era una importante fonte potenziale di aiuti finanziari per i partiti della sinistra. Il partito socialista, a questo punto, si trovò in pratica a dipendere finanziariamente dalle elemosine comuniste. Quando, dopo il 1956, abbandonò la politica frontista a fianco del Pci per orientarsi verso una coalizione di centro-sinistra con la Democrazia cristiana, passò a dipendere, invece, dalle elemosine del sistema finanziario-politico costruito e controllato dalla Dc e dai suoi “boiardi”. Il Psi era un partito di apparato, ma di tipo “debole”, il cui funzionario, o politico delegato dall’apparato, nel nuovo clima determinato dalla svolta verso il centro-sinistra cominciò a cambiare progressivamente fisionomia. Prese a diventare, in molti casi, come una cosa di mezzo fra un funzionario gerarchico e un libero professionista, libero acquirente di voti elettorali e di partito per se stesso e libero venditore di servizi politici, fino a rendersi – abilità e circostanze permettendolo – qualcosa di simile a un notabile. Ma un tipo di “notabile” radicato non nella società, e da questa proiettato nella politica, bensì interamente ed esclusivamente radicato nella politica da cui era nato. Del politico di tipo notabilare il politico socialista tendeva a prendere crescentemente, però, la caratteristica libertà relativa, anche in materia di finanziamento politico. Questa metamorfosi si compì interamente, dopo il 1976, con la segreteria Craxi.

Craxi arrivò al centro della scena politica italiana in un momento di crisi acuta della possibilità stessa di governare il paese. Ripristinò l’autorità del governo e la capacità di decisione e di comando. Fu certamente uomo di notevoli meriti politici. Però non tanto grandi, evidentemente, per riprendere il ragionamento accennato più sopra, da indurre nella opinione pubblica la disponibilità a “compensare”, per gratitudine politica, il risentimento negativo prodotto dalla spregiudicatezza straordinaria con cui egli affrontò i problemi del finanziamento della politica. Egli aveva una visione ambiziosa dei compiti del socialismo democratico in un paese come l’Italia in cui la sinistra era bloccata dalla dominante opzione comunista e costretta, per questo, a lasciare indefinitamente il potere politico nelle mani di una forza centrista e non laica. Non sbagliava, vedendo nella debolezza di mezzi finanziari del partito socialista rispetto agli altri due grandi partiti, una ragione importante della sua stessa debolezza politica. Ma il modo in cui si adoprò per colmare quella inferiorità, se risultò efficace in se stesso, si rivelò alla fine politicamente perdente, perché aprì, a carico suo, una “questione morale” di proporzioni ben superiori a quelle della “questione morale” dei tempi di un Crispi.

Craxi usò, in pratica, il prestigio acquisito come restauratore della governabilità e di chiave di volta della ritrovata capacità di decisione politica, per farsi crocevia di quel sistema finanziario parallelo di tributi alla politica che la Dc aveva costruito negli anni sulla base di uno statalismo economico invadente. Quello statalismo economico aveva ormai perduto via via negli anni ogni traccia di quella che potremmo chiamare la sua antica e più o meno gloriosa “legittimità tecnocratica” – quella dei Beneduce, dei Menichella, dei Mattioli, dei Sinigaglia, dei Saraceno – per entrare pressoché interamente e senza scampo nella sfera della “ingerenza” dei partiti: e perché “senza scampo”? Perché l’indipendenza tecnocratica era fatto aurorale e creativo, inesorabilmente destinato a degenerare, una generazione dopo, in servilismo o, peggio, in potere “boiardo”. (Sia detto qui di passata, ma delle tre classiche vie che Marco Minghetti vedeva per combattere quella “ingerenza”, la diminuzione delle attribuzioni pubbliche nel campo oggetto di ingerenza – via americana –, il decentramento verso enti morali autonomi – via inglese –, una forte giustizia amministrativa – via tedesca –, in questo caso non pare possa esservi ormai altra via da battere che quella chiamata dal Minghetti “americana”, la quale – come lui diceva – “toglie la materia soggetta all’abuso”: le altre due essendo di fatto, nella esperienza italiana del rapporto partiti-impresa pubblica, chiaramente fallite). 

Quel sistema finanziario parallelo, inoltre, Craxi lo rafforzò addirittura con una sorta di “caccia all’evasore”... Fu il primo leader politico italiano a prendere in mano direttamente la gestione della finanza politica. E questo attivismo personale gli diede un grande vantaggio nel controllo di quelle risorse, assai superiore al rapporto di forze che esisteva per numero di voti fra i partiti, e avviò, così, a favore del suo proprio potere politico, che se ne giovava direttamente, addirittura una sorta di perverso accrescimento di ritorno: un “circolo virtuoso”, se ci è consentito l’impertinente paradosso...

Ma c’era qualcosa, in questo sistema, che non poteva proprio funzionare: ed era l’estensione del meccanismo dal centro alla periferia. Nel mondo di vetro della democrazia della opinione pubblica si può realizzare la penombra in un angolo, non nell’intero edificio. Una Tangentopoli alla luce del sole non può avere vita lunga. Vediamo cosa accadde. Craxi, come si è detto, aveva una visione ambiziosa dei compiti del socialismo democratico in Italia. Non aveva però altrettanta fiducia nel partito che quei compiti avrebbe dovuto assolvere e non aveva la pazienza e il gusto di adoprarsi a trasformarlo. Usò allora la scuderia che si ritrovava, credendo di poterla dinamizzare con il consentirle di ricorrere in proprio alla droga: la droga delle tangenti. Pensò forse di poter applicare al suo partito quel principio che Richelieu applicava alla corruzione dei suoi tempi: “questo disordine è utile all’ordine dello Stato”. Ma, ai tempi di Richelieu, l’opinione pubblica stava appena nascendo. Quello che Craxi sottovalutava lo comprese, invece, e lo sfruttò appieno, una magistratura che gli era di certo ostile, ma che non si può negare avesse legittimamente il coltello dalla parte del manico. E che cercò, con successo, il consenso della opinione pubblica.

Craxi, invece, l’opinione pubblica non l’aveva più dalla sua. Aveva finito col sopravvalutare la fonte finanziaria del potere a scapito dei compiti politici maggiori, ai quali pur non era insensibile, ma di cui, dopo aver suscitato grandi speranze, non si era occupato più molto. Così facendo, però, aveva perduto la disponibilità a quella possibile benevolenza compensativa della opinione pubblica di cui si è detto prima. Cadde, alla fine, in un’imboscata e non sul campo di una battaglia politica come Crispi. L’unico grande compito politico che continuava a coltivare – battersi in Italia per l’alternativa socialdemocratica al comunismo – glielo aveva tolto la storia, con la caduta del muro di Berlino.


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