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Ideazione
UNA GRANDE OCCASIONE RIFORMATRICE
di Domenico Mennitti

Siamo di nuovo di fronte ad una intensa stagione elettorale. Ad aprile sarà la volta del rinnovo delle assemblee e dei governi delle Regioni a statuto ordinario, che avvieranno una fase nuova della loro esperienza ormai trentennale; poi voteremo per i referendum che, pur dopo la falcidie della Corte Costituzionale, conservano enorme rilevanza sul piano delle regole elettorali, preliminari ai nuovi assetti costituzionali e politici; infine il suggello al quadro, che nel frattempo si sarà definito, verrà imposto dalle consultazioni generali politiche, che designeranno l’aggregazione e il leader destinati a governare il paese nel primo lustro del nuovo secolo. A parte la suggestione di un percorso così vario ed incerto, si può sostenere che i tre passaggi indicati sono quelli attraverso i quali probabilmente il paese uscirà dalla transizione, si muoverà quindi fra scenari più stabili e ricondurrà in limiti fisiologici il fenomeno del trasformismo, che ha segnato molto negativamente i primi sei anni di questo periodo. Pensiamo non sia azzardato prevedere che sino al 2001 si verificherà una accelerazione del processo di definizione delle aggregazioni in modo che si possa subito individuare – senza variazioni in corso di legislatura – chi vince e chi perde. Nell’esercizio della politica accadrà quindi che gli eletti non potranno tradire il mandato degli elettori ed i governi non si potranno più costituire grazie a maggioranze messe insieme con spezzoni di minoranze specializzate nel prendere i voti dichiarandosi di destra, utilizzandoli poi in Parlamento per far governare la sinistra. E’ un percorso che i partiti governeranno oppure si compirà, a loro disdoro e dispetto, determinato dalla forza dei fatti, perché il quadro attuale è francamente inqualificabile e nessuno può ritenere ch’esso possa durare ancora per molto tempo.

Per superare questa condizione di avvilimento e di confusione è necessario che i partiti più rappresentativi abbandonino le piagnucolose constatazioni d’impotenza ed assumano le iniziative che ad essi competono. Non è colpa del sistema elettorale maggioritario, per quanto imperfetto esso tuttora sia, se, invece di ridursi, le formazioni politiche si sono moltiplicate. Non è un fenomeno prodotto dagli elettori, ma dalla instabilità politica e dal mediocre livello di responsabilità del Parlamento, dove è possibile che si costituiscano gruppi formati da deputati e senatori di fatto senza elettori. Assistiamo al trionfo del voto marginale, ma perché quello più carico di consensi non riesce a produrre effetti aggreganti. La degenerazione è il risultato della debolezza culturale e programmatica dei partiti più forti che in un sistema bipolare hanno l’interesse, ma pure il dovere, di aggregare quelli minori intorno ad un nucleo forte di idee e di prospettive. Da sei anni le tre forze maggiori (Forza Italia, Ds ed An) hanno elevato al rango di materia strategica la contabilità sugli spostamenti dei parlamentari da un’area all’altra e cercato l’allargamento del consenso, invece che fra gli elettori, addirittura arruolando ex eletti, in gran parte personaggi usciti dal corso della storia e della politica. Sappiamo che l’affermazione non è originale, però la tenacia con la quale viene ignorata merita che sia ribadita con forza. L’operazione vincente in politica non è l’addizione, ma la moltiplicazione, la capacità di attivare una progressione geometrica del consenso intorno ad un programma e ad una classe dirigente. Altrimenti vale l’altra regola, che la somma fra due strategie confuse produce una grande confusione, non una strategia più forte. E la prima conseguenza è appunto il trasformismo, un malanno complesso perché coinvolge la sfera politica e quella morale.

Indirizziamo il monito a destra ma soprattutto a manca, dove D’Alema non perde occasione per utilizzare l’aggettivo europeo – ritenendolo ovviamente congeniale alla sua maggioranza – e finge di non rendersi conto d’essere il protagonista di un sistema che poggia sulla truffa degli elettori e le trame di palazzo. In verità regole di questo tipo ci rendono estranei all’Europa e al resto del mondo e perciò l’impegno delle forze politiche deve essere quello di recuperare la sensibilità riformatrice che nel 1994 fu esigenza primaria indicata in tutti i programmi elettorali ed è stata poi lasciata cadere con l’eterno pretesto di dover fronteggiare l’emergenza. Quasi che rinnovare forma e contenuto dello Stato non sia la più grave ed urgente, la madre di tutte le emergenze che sconvolgono la vita del paese. In particolare è il Polo che deve recuperare questa consapevolezza: non intendiamo associarci al coro di quanti evocano il cosiddetto spirito del ’94, ma sosteniamo che Berlusconi dispone di un patrimonio non solo elettorale, anche politico, costruito in sei anni di presenza del suo movimento nel paese e nelle sedi istituzionali. Esso deve ovviamente essere utilizzato per raggiungere obiettivi nuovi, non di certo per negare la ragione della sua origine, che coincide con quella del folgorante successo registrato al primo impatto con gli italiani. Ribadiamo che il precedente sistema (evitiamo di enumerare le repubbliche per non incappare in suscettibilità anche giustificate) non è caduto perché un gruppo di magistrati comunisti ha complottato contro la vecchia classe dirigente, piuttosto perché quella nomenclatura aveva  portato alla paralisi le istituzioni, non era stata capace di rinnovarle, di renderle moderne ed efficienti. Di essere cioè politicamente all’altezza del proprio compito.

La richiesta principale degli italiani era di rinnovare la organizzazione dello Stato ed il personale politico. Berlusconi vinse perché raccolse quella esigenza e la tradusse in una prospettiva politica, oltre le vicende che coinvolsero uomini e partiti. La raccolse e la interpretò nel modo giusto, perché stabilì con gli italiani un rapporto di fiducia così profondo che niente riuscì a scalfire, neppure le accuse sui rapporti intessuti con molti dei protagonisti incriminati. Egli introdusse un tipo di comunicazione sconvolgente per la vecchia propaganda politica italiana, padroneggiò il mezzo televisivo come nessun altro seppe fare, ma in verità questi sono elementi di contorno rispetto alla capacità d’incrociare il sentimento degli italiani e di siglare con essi un patto di fiducia per il futuro. La scelta di Berlusconi fu vissuta nella chiave del contratto per il cambiamento, dando per acquisito il principio della fine di un’epoca e dell’apertura di una fase nuova, che allora indicavamo come la stagione della grande riforma. E’ cambiato il clima rispetto ad allora: gli italiani hanno perso l’accanimento giustizialista e molti si sono sinceramente rammaricati che Craxi sia stato lasciato morire in esilio, non si raccolgono più agitando bandiere sotto i palazzi di giustizia e ritengono che molti magistrati abbiano fatto un uso politico della loro funzione. Non è cambiato però il giudizio sulla inadeguatezza della classe dirigente così bruscamente estromessa e non è cambiata la domanda di rinnovamento del sistema. I politici, quando non riescono a mantenere gli impegni assunti con gli elettori, s’inventano storie strampalate. Dicono che “le riforme non danno pane”, che i cittadini chiedono che siano risolti problemi urgenti come l’occupazione, la sicurezza, la sanità, la scuola, la giustizia, i trasporti. Tutto vero, ma è ancor più vero che queste citate (e tante altre ancora) sono emergenze settoriali, che potranno essere risolte quando e se il sistema delle decisioni avrà trovato un modo efficace di funzionare e non sarà più inceppato dentro un quadro legislativo vischioso e frammentario. Quando e se la politica uscirà dalla condizione di paralisi per assumere il primato che le spetta anche in una società liberale, dove la funzione più importante è quella di garantire ai cittadini l’esercizio concreto dei propri diritti.

Gli anni finali del Novecento sono stati convulsi e disordinati. Fa fatica ad emergere una proposta politica definita da realizzare nel medio termine. Berlusconi, particolarmente nell’ultima fase, è sembrato oscillare tra una ipotesi che viene indicata di restaurazione centrista e la determinazione a portare a compimento quella ch’egli stesso definì la rivoluzione liberale italiana. Questa constatazione non sottintende una accusa di doppiezza, neppure d’incertezza, intanto perché sappiamo ch’egli ha pagato in prima persona la reazione dei poteri che si ritrovarono improvvisamente scoperti a marzo del ’94 e reagirono con ferocia inaudita alla preoccupazione di perdere quanto avevano usurpato. Sulla debolezza della politica avevano costruito le loro fortune magistrati, tecnocrati, finanzieri, sindacalisti, anche alti prelati e si schierarono compatti in quei sette mesi di governo del centro-destra ad aprire contemporaneamente tanti fronti conflittuali, alcuni dei quali pretestuosi e perciò irresolubili. In primo luogo, complice il Quirinale, sconvolsero le regole della nostra giovane democrazia maggioritaria e affogarono il voto dei cittadini nella babele del Parlamento, dove partiti e dirigenti transitavano da una parte all’altra dello schieramento, modificando gli equilibri emersi dalle urne. Berlusconi non si ritrovò accanto molti determinati a giurare fedeltà alla rivoluzione liberale, perché in quel momento gli avversari pensavano di poterlo buttar fuori dalla scena e qualche amico cominciò a dubitare ch’egli potesse tenerla ancora a lungo: era il tempo del balletto detto del “passo indietro”, che non a caso vide Scalfaro nella veste di maestro delle danze. Ma bisogna dare atto a Berlusconi di aver resistito a questo assalto combinato di poteri esterni, fra i quali si è distinta per particolare accanimento la magistratura; e bisogna dargli atto che ha pure centrato obiettivi rilevanti, primo fra tutti l’ingresso nel Partito popolare europeo. Quella che viene definita ipotesi di restaurazione centrista scaturisce proprio dalla collocazione europea e perciò merita d’essere analizzata senza spirito polemico e senza affidare la valutazione alla sola analisi nominalistica. 

A noi sembra un dato positivo che Berlusconi si ponga oggi come il leader di un centro che ha modificato il suo atteggiamento nei confronti della sinistra, della quale non è più interlocutore sottomesso e soccombente ma espressione alternativa. Questa nuova configurazione del centro apre scenari di vaste intese con quanti lavorano alla costruzione di una società liberale. Tale prospettiva non era fra le opzioni del centro che guardava a sinistra, ma è nella natura del centro alternativo alla sinistra e perciò interessato a realizzare intese con  liberali e conservatori. Oggi il rappresentante italiano del Ppe si chiama Berlusconi e non Castagnetti, non Buttiglione e neppure Casini. Di questo hanno preso atto – non sappiamo quanto compiaciuti – Andreotti, Cossiga e persino la Chiesa. Non si capisce perché non dovrebbero valutarlo positivamente Fini e Pannella, che con il leader di Forza Italia hanno una originaria base d’intesa fondata sulla difesa della libertà e della dignità dell’uomo. Non è proprio vero che in questi sei anni è rimasto tutto fermo, è vero piuttosto che l’interpretazione degli eventi è sempre condizionata dalla diffidenza, dall’incomprensione ed anche dalla tutela delle botteghe alle quali ciascuno è legato.La politica ha subìto pressioni che hanno costretto il confronto in ambiti riduttivi, dando la sensazione che si perdessero di vista le grandi linee di contrapposizione, le ragioni per le quali un cittadino sente che vale la pena battersi per l’affermazione di una aggregazione rispetto all’altra. Che manchi il riscontro positivo lo si rileva dai dati dell’astensione, che riflettono la delusione, anzi la rabbia, più che la determinazione a tirarsi fuori dalla competizione. Il regime di sinistra è abile nel diffondere una sensazione d’inutilità e di rassegnazione, così può esercitare il potere senza resistenze, ora lusingando ora aggredendo brutalmente chi si oppone. Chi abbassa la guardia di fronte alle blandizie, si ritrova scoperto al momento dell’aggressione. Adesso è stato aperto il fuoco contro Berlusconi, questa volta tentando l’affondo finale. Hanno cominciato con la limitazione della propaganda televisiva ed ora puntano sulla ineleggibilità addirittura a deputato (siamo ben oltre la incompatibilità tra cariche nell’esecutivo e titolarità di concessioni governative). Si sottolinea l’anomalia senza riscontri, dovuta al fatto che l’opposizione è guidata dal padrone di tre reti televisive. E come si chiama il dominio della maggioranza e del governo sulle tre reti Rai? Come si può definire l’occupazione di tutti gli spazi da parte di una folla di presunti maestri che dettano tendenze da tutti i pulpiti della comunicazione? 

Tuttavia sarebbe grave se il Polo si facesse dettare l’agenda politica dei prossimi mesi dalla maggioranza e dal governo. Mentre su entrambi i fronti  fervono le iniziative per presentarsi ai nastri della competizione regionale nelle migliori condizioni, la richiesta che indirizziamo al Polo è che sappia seguire le esigenze tattiche senza dimenticare le grandi linee strategiche. Non sappiamo prevedere mentre scriviamo questo articolo quali delle trattative in corso riusciranno a superare gli scogli delle divergenti convenienze dei partiti, però a noi sembra che il tentativo di ricondurre nell’area moderata la Lega di Bossi ed i riformatori di Pannella vada addirittura oltre la legittima aspirazione a recuperare i voti di quei movimenti. Entrambi furono portatori di valori importanti nel 1994, quando l’aggregazione non s’era adattata a qualificarsi di centro-destra, ma si segnalava per il forte spirito riformatore, federalista e presidenzialista. Accade che il pragmatismo prenda la mano e che i responsabili riducano la preparazione di una competizione elettorale alla quadratura dei conti delle candidature. Non è la capacità di mediare l’unico ingrediente, soprattutto quando si opera in un sistema bipolare, che prescrive si realizzi nella definizione del programma il momento dell’unità politica della coalizione. In occasione delle consultazioni europee dell’anno scorso Forza Italia fu l’unico movimento politico che elaborò un dettagliato programma che indicava agli elettori il percorso che gli europarlamentari azzurri avrebbero seguìto per dare all’Italia una prospettiva non marginale nel processo di unificazione dell’Europa. Se ci fosse meno approssimazione nel valutare i comportamenti politici, gli osservatori avrebbero dovuto sottolineare che Berlusconi aveva molto utilizzato la televisione, ma per comunicare programmi, non banali slogan propagandistici che gli elettori non avrebbero apprezzato. L’impressione è che la maggioranza punti alla provocazione, spingendo nell’angolo il leader dell’opposizione per eliminarlo definitivamente con una sorta di esecuzione sommaria. La risposta deve sottrarsi alla tentazione di accettare la rissa e scegliere la grande proposta riformatrice che gli italiani accolsero con fiducia ed attendono con speranza. L’occasione è resa propizia dall’avvio nelle Regioni di una fase costituente, dato che per la prima volta i presidenti dei governi saranno eletti direttamente dal popolo e che ogni Regione dovrà porre mano all’approvazione di uno statuto che realizzi in concreto il principio dell’autonomia locale. I seminatori di trappole sanno come rendere incidentato il percorso quando la competizione è mediocre, ma sanno pure che l’astuzia è arma spuntata se il confronto politico si fa alto ed investe la riorganizzazione dello Stato.

(Ideazione Marzo-Aprile 2000)