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Le virtù del populismo
POPULISMO, OLTRE GLI STEREOTIPI
di Alessandro Campi

In Italia più che altrove il populismo gode, come suol dirsi, di una pessima stampa e di una reputazione assai dubbia. Colpisce, in effetti, il significato liquidatorio e dispregiativo che il termine – peraltro controverso e sfuggente anche agli occhi degli studiosi – presenta nel linguaggio comune, nel frasario degli uomini politici e nel vocabolario dei mass media, allorché esso viene utilizzato per qualificare un movimento o un partito, una presa di posizione o un orientamento. Nelle discussioni politiche, l’epiteto populista di solito equivale, se non ad un vero e proprio insulto, certo ad una grave accusa: indica qualcosa a metà strada tra la demagogia e l’intolleranza. Nell’accezione prevalente, il populismo connota una posizione politica estremista, una forma di regressione e di imbarbarimento del costume politico, una vera e propria patologia politica: qualcosa, insomma, da censurare e da condannare.

Stando ai suoi critici, esso esprime il lato oscuro ed irrazionale della politica, quello nel quale prendono corpo i sentimenti peggiori e più inconfessabili delle masse: da qui la sua assimilazione all’egoismo sociale, all’aggressività, alla xenofobia ed al razzismo. Dal punto di vista sociologico, il populismo viene abitualmente presentato come l’espressione, in chiave di protesta politica, delle frustrazioni, delle paure e dei risentimenti propri di determinate fasce sociali: quelle culturalmente meno attrezzate e socialmente marginali, come tali più facilmente inclini al qualunquismo ed all’uso di poche e rassicuranti parole d’ordine. Dal punto di vista storico-culturale, invece, viene dipinto come un fenomeno obiettivamente reazionario ed antimoderno: l’espressione del disagio con cui taluni gruppi sociali vivono le trasformazioni indotte da una modernità con la quale non riescono, evidentemente, a sintonizzarsi. Dal punto di vista politico, infine, gli vengono attribuite una visione complottista e cospiratoria della lotta politica, una spasmodica ossessione per il nemico, un modo totalizzante e romanticamente torbido di richiamarsi all’idea di popolo, una concezione carismatico-plebiscitaria del potere e dei rapporti di obbligazione politica: da qui la sua inclinazione verso l’autoritarismo e la sua incompatibilità con le regole della democrazia rappresentativa.

Ciò che prevale nel discorso politico pubblico è, dunque, una visione assolutamente negativa, quasi caricaturale, del populismo, visto alla stregua di una pericolosa sindrome politica o, nella migliore delle ipotesi, come un segno di immaturità ed arretratezza. Ma si tratta di una visione accettabile? Non esiste per caso un modo diverso di intendere questo complesso fenomeno? Il populismo è realmente la negazione della democrazia e della civiltà politica liberale o presenta anche un’altra faccia? Molti di coloro che si sono occupati del populismo in sede di analisi scientifica convengono, in effetti, nel definirlo una realtà bifronte, ambivalente e camaleontica, tutt’altro che unitaria e come tale difficile da definire. Storicamente, si sono avute forme talmente diverse di populismo da rendere quasi impossibile l’individuazione di un tipo-ideale o l’elaborazione di una tipologia che sia realmente esaustiva. Spesso esso ha assunto un volto indubbiamente autoritario ed illiberale, ma altrettanto spesso si è presentato sulla scena politica sotto una veste democratica e rispettosa del pluralismo politico. Per descriverlo, dunque, non basta richiamare l’immagine di masse popolari disperate e violente manipolate da leader politici senza scrupoli; in certe sue incarnazioni storiche, infatti, il populismo ha anche significato affermazione di una autentica sovranità popolare, richiamo al “buon senso” dell’uomo comune contro l’eccessiva intellettualizzazione dell’esistenza, rifiuto dello spirito burocratico, del centralismo e di un’ingegneria sociale troppo spinta, naturale diffidenza per un potere eccessivamente concentrato e per oligarchie politico-economiche non solo molto distanti dal modo di vivere e di pensare dei comuni cittadini, ma anche poco attente alle reali necessità di questi ultimi.

Scopo del presente dossier è proprio quello di mostrare come sia possibile offrire del populismo una chiave di lettura molto diversa da quella corrente, sia dal punto di vista storico (con riferimento dunque alle molteplici e spesso contraddittorie forme che esso ha assunto nei più diversi contesti nazionali) sia dal punto di vista politico (con riferimento quindi al modo con cui il termine viene oggigiorno abitualmente utilizzato, per indicare polemicamente alcuni dei movimenti e dei partiti emersi sulla scena politica internazionale nel corso dell’ultimo quindicennio). Capire cosa il populismo può essere realmente, di là da quelle interpretazioni che tendono a presentarlo unicamente sotto una luce negativa, è importante soprattutto nel caso dell’Italia, dove in anni recenti tutto un insieme di avvenimenti e di personaggi – l’ondata giustizialista scatenata dall’inchiesta Mani Pulite, la mobilitazione antipartitocratica ed antipolitica di larghi settori dell’opinione pubblica, la fondazione di Forza Italia ad opera di Silvio Berlusconi, la crescita delle leghe autonomiste nel Nord Italia, l’ascesa politica di un personaggio come Antonio Di Pietro, la nascita di un nuovo modo di fare informazione politica in televisione, l’accresciuto utilizzo dello strumento dei referendum, l’emergere di un ceto politico svincolato dai tradizionali canali di selezione partitici – è stato visto come espressione, pur con differenti modalità, di una ondata politica tipicamente populista; ondata che, a giudizio di molti osservatori, ha investito l’Italia con una non casuale coincidenza rispetto ad altri paesi occidentali, a dimostrazione di come il crollo del muro di Berlino abbia segnato, con ogni probabilità, l’inizio di un nuovo ciclo politico. In questi anni, nel nostro paese si è parlato spesso di “deriva populista”, di “peronismo”, di “telepopulismo”, dando per scontato che l’emergere ed il diffondersi di istanze definibili populiste in senso lato – su tutte la richiesta di un rapporto più diretto e simpatetico tra governati e governanti, resa impellente dalla crisi dei soggetti politici protagonisti della cosiddetta Prima Repubblica – abbia comunque rappresentato qualcosa di negativo se non un vero e proprio rischio per la democrazia.

Contrariamente a tale vulgata, ciò che si vuole mostrare in queste pagine è, per cominciare, che non esiste alcuna correlazione automatica tra populismo ed autoritarismo politico: al contrario, in certe sue espressioni il populismo – inteso alla lettera come appello legittimante alla fonte della sovranità politica, vale a dire al popolo considerato come una potenziale riserva di virtù morali, di valori, di stili di vita e di norme di condotta – è qualcosa di profondamente connesso con lo spirito e la prassi del governo democratico. Non solo, ma si vuole anche suggerire l’idea che nell’attuale fase storica – segnata dalle profonde trasformazioni sociali politiche ed economiche che si è soliti imputare ai processi di globalizzazione – istanze ed ondate di populismo politico (con ciò che esse possono portare con sé, magari confusamente, di passione, di entusiasmo, di coinvolgimento e di impegno diretto e personale), lungi dal rappresentare un pericolo per la democrazia, possono invece costituire addirittura una risorsa, un momento di ricarica, una scossa energetica per ordinamenti politici (come è ad esempio quello italiano) in crisi crescente di rappresentatività ed ormai sempre più incapaci di suscitare la benché minima passione o emozione, sempre più percepiti come freddi e distanti rispetto alla vita reale delle persone, visti unicamente come erogatori di (peraltro spesso scadenti) servizi e non anche come aggregati di valori sociali condivisi; ordinamenti nei quali – come mostrano numerose rilevazioni statistiche – vanno crescendo non a caso la sfiducia nei confronti dei governanti, l’apatia politica, il numero dei cittadini che non si sentono adeguatamente rappresentati e quello di coloro che non votano più alle consultazioni politiche, il divario (non solo politico, ma anche di stile di vita, di linguaggio e di sensibilità) tra la gran massa dei cittadini e le cosiddette classi dirigenti. Il populismo odierno costituisce, a ben vedere, una reazione a tutto ciò, ad una democrazia le cui basi psicologiche, culturali e spirituali si vanno facendo assai fragili, al punto da pregiudicare anche la solidità delle sue architetture istituzionali.

Prendendo lo spunto dai molteplici cambiamenti che nel corso degli ultimi tempi si sono verificati sulla scena politica italiana ed internazionale, si è quindi cercato di capire se l’ascesa di leader e movimenti che a diverso titolo sono stati etichetti come populisti rappresenta – come spesso banalmente si sostiene – una nuova forma di irrazionalismo politico o peggio la minaccia (sotto mentite spoglie) di un nuovo fascismo, o non stia piuttosto ad indicare la pressante richiesta di un modo nuovo di fare politica a fronte, da un lato, della obiettiva involuzione in senso oligarchico-burocratico dei regimi politici democratico-rappresentativi contemporanei, e dall’altro, del vero e proprio deficit di legittimità democratica di cui soffrono molti degli organismi, delle istituzioni e delle organizzazioni che, a livello sovranazionale, ormai orientano e gestiscono la vita di buona parte dell’umanità, nei confronti dei quali non a caso va montando, a livello popolare, un misto di avversione e di diffidenza. Si pensi, tanto per fare un esempio, all’ostilità, comune a molti movimenti populisti odierni, nei confronti dell’Unione europea,  percepita da questi ultimi come un costrutto burocratico oppressivo e senz’anima, unicamente come uno strumento di pianificazione sociale e di regolamentazione economico-giuridica, del tutto autoreferenziale e privo di una autentica radice democratica e popolare.

Il populismo, sostiene chi lo ha studiato, non è una ideologia o un programma politico. Non presenta cioè un profilo organicamente strutturato. E’ piuttosto uno stile argomentativo, una retorica, una modalità del discorso politico. Ciò che lo caratterizza, in generale, è il suo eclettismo ideologico,  la sua dimensione interclassista, il suo oscillare tra destra e sinistra, la sua natura reattiva e protestataria, il suo presentarsi sulla scena nei momenti di crisi. Date tali caratteristiche, il populismo non può rappresentare, si sostiene, una soluzione politicamente efficace. Esso è tuttavia efficacissimo, crediamo, come indicatore del disagio, come termometro con il quale misurare la temperatura del corpo sociale nelle fasi di più rapido e traumatico cambiamento. Per quanto riguarda la rinascita del populismo nel contesto attuale, dopo il crollo del comunismo e l’apertura di una fase dominata dalla unipotenza americana, concordiamo con chi, come Ludovico Incisa di Camerana, ha sostenuto qualche tempo fa che essa deve essere vista «come una forma di resistenza alle istanze più radicali del neoliberalismo, alla negazione dello Stato nazionale, alla generalizzazione dello spirito di competizione, all’omologazione economica ed informativa, agli stereotipi introdotti dalla rivoluzione delle telecomunicazioni». Il fatto che il populismo spesso articoli pubblicamente le proprie ragioni con un linguaggio rude e folcloristico, poco aderente in effetti al palato dei politologi e dei commentatori politici, non può farci trascurare le complesse questioni che la sua sola presenza sulla scena politica contribuisce a sollevare a proposito, ad esempio, del modo con cui la politica subisce oggi l’invadenza dell’economia o di come effettivamente funzionano le democrazie.

Gli interventi che seguono offrono del populismo una chiave di lettura, certo problematica, ma anche, come già accennato, piuttosto diversa da quella corrente e a nostro giudizio più adeguata per comprendere quanto sta accadendo sotto i nostri occhi. Lo scritto di Paolo Pombeni – che circoscrive la sua analisi al contesto europeo occidentale – ha un taglio rigorosamente storico e mostra come le radici del populismo (del quale suggerisce una originale tipologia) siano strettamente intrecciate con quelle dei sistemi costituzionali fondati sul principio di rappresentanza; nei confronti di questi ultimi il populismo si presenta, spiega lo studioso dell’Università di Bologna, come «quella ideologia che propone di far risiedere la legittimazione politica nella esistenza di una “consonanza” fra le sedi del potere politico ed il “popolo”, che viene programmaticamente considerato come un qualcosa di diverso dalle istituzioni che raccolgono e rappresentano il consenso delle componenti politiche».

L’articolo di Paul Piccone costituisce un’appassionata difesa del “populismo democratico”, una tradizione peculiare della storia politica americana a cavallo tra il XIX ed il XX secolo – un misto di democrazia diretta, localismo, difesa della piccola proprietà e rifiuto del centralismo – che il direttore della rivista Telos ha avuto il merito di rilanciare in una chiave, come egli la definisce, postliberale e postmoderna, neofederalista e neocomunitarista, e in forte polemica con la New Class politico-manageriale che ormai governa la politica statunitense. Chi, in anni recenti, più di altri ha tematizzato il nesso “virtuoso” tra  populismo e democrazia, richiamando l’attenzione su ciò che, parafrasando Ortega y Gasset, ha definito la “ribellione delle élites”, vale a dire il crescente distacco, comune a molti paesi occidentali, dello stile di vita e della mentalità delle classi alte rispetto al resto della popolazione, è stato lo storico statunitense Christopher Lasch, che rappresenta non a caso una delle fonti ispiratrici di Piccone. Proprio a Lasch – indimenticato autore di un piccolo classico del pensiero sociale contemporaneo quale La cultura del narcisismo, ma ancora non particolarmente apprezzato in Italia nella sua veste di storico e teorico del populismo –  è dedicata la nota di Consuelo Angiò. Al populismo visto come fonte di democrazia, come legittima reazione contro lo statalismo centralizzatore e contro l’onnipotenza dei tecnocrati che governano gli Stati sociali contemporanei, è dedicato l’intervento di Alain de Benoist, fautore – anch’egli sulla scia di Lasch – di un modello di democrazia diretta e partecipativa e di forme di cittadinanza attiva su base comunitaria.

Ludovico Incisa di Camerana è da lunghi anni uno studioso attento del populismo, con particolare attenzione per quello latino-americano (sul tema del “populismo autoritario” e del “nazional-populismo” ha scritto importanti studi a firma Ludovico Garruccio, il suo storico nome de plume). Nel suo contributo, egli affianca provocatoriamente alla “terza via” socialdemocratica, oggi tanto in voga, una problematica ma non del tutto irreale “quarta via” populista, alimentata dall’opposizione che anche all’interno del mondo sviluppato occidentale va crescendo nei confronti della globalizzazione e dei suoi effetti. Il testo di Eugenia Roccella cala le sue riflessioni nel contesto della lotta politica italiana, mostrando quanti diversi volti il populismo possa in realtà assumere: quello giustizialista e demagogico di Di Pietro, quello seduttivo e liberale di Berlusconi, quello opportunistico del “partito dei sindaci”. Ad alcune tra le più vistose espressioni del populismo politico contemporaneo – a partire da quella, assai controversa, incarnatasi nel partito liberal-nazionale austriaco di Jörg Haider – è invece dedicato il reportage di Pierluigi Mennitti, che mostra ancora una volta come tale fenomeno, diffusosi ormai su una scala europea, vada, più che esorcizzato o brandito polemicamente, compreso nelle sue reali scaturigini e nel suo più profondo significato politico. Per concludere, una chicca, offerta anch’essa dalla Angiò: quanti, tra coloro che hanno letto ed amato Il Mago di Oz, sapevano che il capolavoro pubblicato esattamente un secolo fa, nel 1900, da L. Frank Baum, è in realtà un apologo populista e che dietro le avventure della piccola Dorothy, dello Spaventapasseri, del Boscaiolo di Stagno e del Leone Codardo si nascondono l’insofferenza verso il potere, il rispetto di sé, il buon senso, lo spirito di autonomia, l’amore per la propria terra, l’etica del lavoro, la difesa della piccola proprietà, il senso comunitario ed il parlare semplice e chiaro così tipici della tradizione del populismo democratico?

(Ideazione Marzo-Aprile 2000)