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Feuilleton
SCRITTORI E POPOLO, TRENT'ANNI DOPO
di Pierluigi Battista

Populista, secondo Alberto Asor Rosa, era il Giovanni Pascoli che inneggiava alla Grande Proletaria e imprecava contro il mostro tentacolare che avrebbe inesorabilmente distrutto il buon tempo antico: «Il campicello è assorbito dalla natura, il campo dalla tenuta, la tenuta dal latifondo e via via. I più forti ingoiano i più deboli». Populista era Romano Bilenchi che idealizzava l’uomo «insofferente di ogni disciplina, irruento, cazzottatore, intelligente e testardo, modello degli strapaesani d’oggi, strapaesano avanti lettera, che procurava noie e grattacapi a quei cittadini che in ogni tempo sono purtroppo considerati il fiore di una città o di un paese». Populista di un populismo persino un po’ melenso e svenevole era la mesta litania che compare nella Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini: «Molto, molto offeso è il mondo, molto offeso, molto offeso, più che noi stessi non sappiamo». Populista era il Vasco Pratolini che proponeva la trasfigurazione lirica dell’elemento popolare: «I nostri sentimenti sono semplici ed eterni come il pane, come l’acqua che spicca dalla fontanella e ci disseta senza che ne percepiamo il sapore». Ma populista era, per Asor Rosa, anche l’esaltazione del “nazional-popolare” di Antonio Gramsci, oppure la raffigurazione del mondo arcaico-contadino di Carlo Levi, e anche Carlo Cassola, per non parlare di Pier Paolo Pasolini, summa del paradigma populistico contemporaneo, il cui populismo «non fa che riflettere la sua smania di identificazione col mondo» e in cui il popolo diventa «ciò che esso è e soltanto può essere nel fondo dell’ispirazione pasoliniana: simbolo religioso, oggetto di un’attenzione psicologica e spirituale, proiezione di odii e di amori». 

Si capisce bene perché, al suo apparire nel 1965, Scrittori e popolo di Alberto Asor Rosa, per di più pubblicato in una casa editrice in odore di eresia come era la Samonà e Savelli, laboratorio della cosiddetta “nuova sinistra”, venisse accolto dall’establishment culturale e letterario del tempo come un testo poco meno che “eversivo”. Marchiata a fuoco con il deprecabile timbro del “populismo”, a venir complessivamente svalutata e stroncata da Asor Rosa era la parte maggioritaria della cultura letteraria e non soltanto letteraria, quella più amata dalla sinistra “ufficiale”, vissuta e fantasticata come una sequenza che avrebbe trovato compimento e realizzazione nella linea culturale incarnata dal Partito comunista italiano, peraltro restato orfano di Palmiro Togliatti soltanto un anno prima della pubblicazione del libro. Il populismo così veementemente dissezionato da Asor Rosa non conosceva destra e sinistra. Aveva attraversato indenne l’Italia liberale, trovato spazio e nuove motivazioni in quella fascista (o “fascista di sinistra”, antiborghese, antimoderna e anticittadina), raggiunto la sua apoteosi nell’Italia democratica che aveva alle spalle l’epopea resistenziale. Il populismo rappresentava e dava veste culturale e simbolica a quell’irresistibile imperativo che imponeva a un ceto intellettuale fragile e nevrotico di “andare verso il popolo” come rito di autopurificazione. «Perché ci sia populismo», spiegava Asor Rosa, «è necessario che il popolo sia rappresentato come un modello». E infatti il popolo dei populisti italiani non era il “popolo” nella sua concreta espressione storica ma un popolo idealizzato e trasfigurato, angelicato e mitologizzato, ancora immune dalle “brutture” della modernità, e dunque puro e incontaminato, non ancora snaturato dallo stravolgimento consumistico. Beninteso, la requisitoria antipopulistica di Asor Rosa esprimeva una critica “da sinistra” del modello populista che a parere dell’autore paralizzava la linea culturale del Pci. 

Il punto di vista abbracciato da Asor Rosa per muovere all’assalto della tradizione populista non era quello della società dominata dal consumismo massificato e della modernità imperniata sulla diffusione democratica dei nuovi modelli “acquisitivi”. Era piuttosto il punto di vista di una giovane generazione intellettuale di sinistra che vedeva nella fabbrica del “neocapitalismo” il nuovo orizzonte che avrebbe determinato la configurazione fondamentale della società e nella classe operaia (ribattezzata “rude razza pagana” da Mario Tronti con un lessico che lo storico Silvio Lanaro ha severamente liquidato come “terribilista”) il soggetto storico fondamentale della trasformazione rivoluzionaria, destinato ad abbandonare il “popolo” a un destino di marginalità. Comune a questo nuovo punto di vista era il rifiuto dell’ancoraggio al “popolo”, al “concetto mitico di popolo” come specificava Asor Rosa, così come era stato elaborato dalla sinistra tradizionale e dal Partito comunista in particolare. Significativo è il fatto che la critica al modello populista equivalesse secondo l’autore a una demolizione radicale di quelle che definiva sprezzantemente «le posizioni del progressismo culturale antifascista», ripudiate sulla base di due ordini di motivi. Il primo consisteva nella certezza che la prospettiva antifascista fatta propria come connotato fondamentale della propria identità dal Pci significasse accettazione del modello democratico-borghese e rinuncia al salto rivoluzionario che avrebbe condotto “oltre” il mero orizzonte antifascista. Il secondo era che l’irrigidirsi di quel “progressismo culturale antifascista” veniva visto dai nuovi ribelli dell’“operaismo” come l’ossificazione conformista e retorica di un modello destinato a frenare e imbrigliare le energie trasgressive di una cultura che cercava nel richiamo alla “classe operaia” un veicolo espressivo che rompesse con i modelli tradizionali, arrivando addirittura a preferire le espressioni più alte della “cultura borghese” a quelle, mediocri e deteriorate, della cultura “populista”.

Molti dei riferimenti su cui si incardinò il dibattito scaturito dalla pubblicazione di Scrittori e popolo oggi appaiono elementi di un’archeologia politica e culturale oramai desueta. Nel frattempo è cambiato tutto. E’ cambiato Alberto Asor Rosa che in una nuova e recente edizione di Scrittori e popolo ripubblicato non più con la eretica Samonà e Savelli ma con l’ultraistituzionale casa editrice Einaudi ha spiegato come quella prospettiva sia profondamente mutata, anche, c’è da aggiungere, come riferimento all’evoluzione politica dell’autore, diventato nel frattempo uno dei più prestigiosi intellettuali del Pci, anche se critico nei confronti del nuovo partito che ha abolito la parola “comunista” dalle sue insegne. E’ cambiata la classe operaia, destinata a perdere per sempre la sua centralità sociologica e simbolica nella nuova realtà postindustriale. E’ cambiata la cultura degli eredi del partito accusato da Asor Rosa negli anni Sessanta di essere prigioniero di un modello populista. E’ cambiato anche il destinatario storico dell’accusa di “populismo”. Oggi il populismo, accusato delle peggiori nefandezze, è diventato decisamente di “destra”. La cultura legata al nuovo partito che ha preso il posto dell’antico Pci è diventata la principale fonte di scomuniche e lamentazioni contro la “deriva populista” che a suo dire costituirebbe il cemento ideologico dell’avversario. E anche gli intellettuali che muovono critiche per così dire da “sinistra”, a differenza dei loro antenati “operaisti” accusano il partito che espone la Quercia come simbolo, di essere troppo poco “popolare”, troppo legato, da partito di governo, agli interlocutori della finanza e della tecnocrazia. E’ davvero cambiato tutto. E, davvero, è difficile riaccostarsi a un libro coraggioso e intelligente come Scrittori e popolo, che tra l’altro al tempo calamitò con il suo fascino l’attenzione e la sete di novità di una nuovissima generazione pervenuta simultaneamente alla passione culturale e all’impegno politico, senza provare la sensazione di un’epoca oramai scomparsa, di una temperie culturale definitivamente svanita. Altro che “attualità” del populismo.

(Ideazione Marzo-Aprile 2000)