Commissari d'Europa
o Europa commissariata?

IL "PURGATORIO"
DI ROMANO PRODI

di Giuseppe Sacco

Il fuoco concentrico di critiche di cui è stato fatto bersaglio Romano Prodi, nei primi mesi di attività della Commissione da lui presieduta, è stato troppo intenso e troppo sistematico perché lo si possa considerare come il normale prezzo da pagare quando si occupa una posizione di massima responsabilità in un campo, come quello europeo, in cui convergono gli interessi presenti e i demoni del passato, le aspirazioni future e i timori per l'avvenire di tutto un continente. Non solo per l'interesse nazionale italiano ad evitare un insuccesso della Presidenza Prodi, ma soprattutto per impegno politico europeista, non si può più evitare di constatare che si tratta di una situazione assai preoccupante. Non ci sono, infatti, nell'ostilità che Romano Prodi fa evidente fatica a contenere, solo gli attacchi della cosiddetta "stampa popolare" britannica, la stampa dedita a ciò che gli stessi inglesi chiamano il muckcraking, il rimestare nel fango. Né ci sono solo le critiche di una parte della stampa italiana, che prendono di mira non tanto il presidente della Commissione europea, ma il politico italiano; critiche ispirate da altri uomini pubblici italiani, soprattutto appartenenti alle forze politiche a Prodi più vicine, che pensavano di essersi liberati di un concorrente che aveva dimostrato la capacità di condurre il centro-sinistra ad un successo elettorale del tutto insperato.

Non ci si preoccupa insomma per gli attacchi rivolti a Prodi da quegli italiani che sfruttano grandi e gravi questioni internazionali in funzione di miserabili risse interne, e che possono quindi essere in questa sede ignorati. Ci si preoccupa invece per le critiche e per i sarcasmi rivolti all'italiano che occupa la posizione di più grande responsabilità politica in Europa, e provenienti da organi di stampa che non si possono sempre ignorare con disdegno, perché rappresentano l'opinione di circoli che contano molto nel mondo internazionale del potere e degli affari. Al tentativo di linciaggio del Professore hanno infatti partecipato tanto il Financial Times, che lo ha sottoposto ad una ben studiata "doccia scozzese", che il francese Le Monde, con una presentazione che voleva essere obiettiva del "Purgatorio" di Prodi".

In aprile si sono poi aggiunti al coro Der Spiegel e il Frankfurter Allgemeine Zeitung (Faz), che sono entrati nella disputa con toni così aspri e poco usuali da sorprendere soprattutto i lettori del normalmente assai compassato Faz. Qui, più che del nostro compatriota che presiede la Commissione europea, si è parlato di suoi ipotetici nemici, e del complotto che questi avrebbero ordito contro di lui. Tutti hanno naturalmente e immediatamente smentito con toni più o meno indignati. Ma è un fatto che gli articoli pubblicati in Germania davano una spiegazione plausibile di quanto accaduto sino ad allora. I due Commissari britannici, diceva in pratica il quotidiano di Francoforte, stanno preparando un "regicidio". Con una campagna che mette Prodi in obiettiva difficoltà, si tenta, secondo Faz, di farne un capro espiatorio, di aprire così la porta ad una Presidenza Kinnock, e ad un'Europa finalmente depurata da ogni ambizione federale e trasformata, secondo il modello britannico, in un'area di libero scambio.

Il quadro diventava così più complesso, anche perché incominciavano ad emergere nuovi punti di vista, che tendevano a riportare la disputa dal livello della rivalità tra persone e tra paesi membri, a quello delle istituzioni. Gli osservatori, e sono autorevoli, che hanno seguìto questa linea, sottolineano che l'Europa si trova attualmente in una fase in cui i governi nazionali tentano, dopo l'enorme passo in avanti fatto con l'euro, di riappropriarsi di una parte dei poteri comunitari, o almeno di non cederne ulteriormente. E la situazione politica li favorisce. In particolare, l'avvento di Schröder, dotato di scarsa sensibilità ai grandi disegni di portata storica, ha segnato una svolta rispetto a Kohl che, gestendo la riunificazione della Germania senza creare irreparabili rivalità in Europa, era riuscito là dove aveva fallito addirittura Bismarck. 

Con l'uscita di scena di Kohl e per colpa di Schröder è stato poi indebolito l'asse franco-tedesco, che era la struttura portante della riconciliazione e della sovranazionalità, ed ha avuto inizio una sorta di entente anglo-germanica, fondata su una sintonia politico-ideologica con il new labour di Tony Blair, cui non ha mancato di affiancarsi l'Italia di D'Alema. E' in questo quadro che le burocrazie e le forze nazionaliste in ciascun paese hanno tentato di recuperare terreno. Ed è in questo quadro che il Consiglio dei ministri, dove i paesi membri sono presenti come Stati indipendenti e tutti uguali tra di loro, ha potuto dar vita a una sorta di riflusso dopo gli anni dei grandi successi della Commissione e del rapido sviluppo dei poteri del Parlamento. 

La Commissione è quindi in difficoltà, non da oggi, e neanche dalla debole e "spezzata" Presidenza Santer. Il malessere risale, in realtà, alla primavera del 1992, cioè al momento in cui la Commissione Delors, con il Trattato di Maastricht e la moneta unica, aveva praticamente completato il proprio disegno. La costruzione dell'Europa economica era giunta alla piena attuazione, e si era a quel punto riproposta in maniera che era - e sarà - sempre più difficile ignorare, il problema della costruzione dell'Europa politica. La decisione di fondere le monete nazionali ha accentuato - ed era inevitabile - la necessità di mettere insieme le politiche economiche, fiscali e sociali. Il quadro dell'evoluzione mondiale, peraltro, va tutto in questo senso: la sicurezza comune è una necessità ormai ineludibile dopo che la fine della Guerra Fredda ha marcato una crescente divergenza di interessi con gli Usa; l'immigrazione dall'Est e dal Sud ha assunto caratteristiche che rendono inevitabile una politica europea della popolazione; la giustizia e la polizia europea, in un mondo in cui la tecnologia annulla le distanze e abbatte le frontiere, necessitano un immediato coordinamento. Tutte queste materie politicamente sensibili sono poste sul tavolo dell'Europa in maniera che non può essere elusa, in maniera anzi che, specie per quel che riguarda le questioni economiche e di controllo dell'immigrazione, impone la massima urgenza. Ma tutto ciò si scontra ad un riflesso dei governi a tutela del proprio potere.

Nella primavera di quello stesso 1992, Delors annunciò anche la sfida dell'allargamento, definendola "uno shock culturale, intellettuale ed istituzionale; una sfida per la quale bisogna intraprendere senza tardare profonde riforme interne. Per includere questi nuovi partner era chiaro che la macchina istituzionale dell'Europa andava trasformata in maniera tale da garantire il funzionamento della Ue non solo con un numero ormai eccessivo di paesi membri, ma anche avendo al proprio interno paesi "europeisti per convenienza", senza alcuna tradizione democratica e federalista. Londra e Copenaghen hanno invece bloccato ogni riforma, dando inizio ad un "Purgatorio della Commissione" di cui il "Purgatorio di Prodi" non è altro che l'ultimo risvolto. Lo stesso Delors lascerà così la Presidenza con il merito di aver ridato smalto all'istituzione, messo in piedi il mercato unico e la moneta comune, disinnescato la crisi di bilancio. Ma la lascerà anche dopo vari mesi di "fine di regno" assai più inoperosi di quanto non sarebbe stato lecito attendersi.

La sua successione è stata da questo punto di vista assai significativa. La scelta dei paesi decisi ad andare avanti sulla moneta unica di lasciare da canto l'Inghilterra, è stata vissuta a Londra come una bruciante umiliazione, come il segno di una sostanziale irrilevanza nei destini dell'Europa; un'Europa che con Delors è riuscita a conquistare addirittura il diritto di essere presente ai vertici dei G7, in una posizione che finisce per indebolire quella dei paesi membri. La furibonda volontà di Londra di porre termine a tutto ciò si tradusse nella ostilità insormontabile alla nomina, al posto di Delors, del belga Dehaene, e all'avvento dell'ineffabile Santer, vacua personalità espressa dal più piccolo e insignificante dei paesi membri, il Lussemburgo. La Francia e la Germania, dal cui compromesso era nata la candidatura Dehaene si piegarono al diktat di Londra; un chiaro segno che erano ormai gli Stati a tenere il timone. E mentre la Commissione si ripiegava sempre più su se stessa, con l'inevitabile prevalere di interessi affaristici, il Consiglio dei ministri diventava il vero pilota dell'impresa europea. 

Finché l'asse franco-tedesco ha continuato, con Kohl e Mitterrand, ad ispirare un grande disegno politico, nulla sembrava perduto. Ma dopo la partenza di Delors da Bruxelles, anche Mitterrand è scomparso dalla scena, e lo stesso Kohl verrà poco dopo travolto da un'indagine giudiziaria passabilmente sospetta. Frutto di questa situazione indebolita sono l'idea che l'euro possa essere affidato a un organo puramente tecnico, e lo svilupparsi della strategia di Tony Blair di mettere la Gran Bretagna e la sua raffazzonata politica neolaburista "al centro dell'Europa". 

E' in questo contesto paludoso di assenza di leadership e di crisi istituzionale che atterra Romano Prodi, dopo che una congiura di palazzo lo aveva privato della premiership in Italia. Un autorevole commentatore italianoi gli ha dato la croce addosso, accusandolo di insufficienze culturali e caratteriali nel gestire il suo nuovo ruolo. Ma è una spiegazione ingiusta, e che finisce per non comprendere la gravità del problema. La principale colpa di Prodi, se di colpa si può parlare, è semmai di condividere l'errore di moltissimi italiani, che già considerano la Commissione come il "governo dell'Europa", e di essersi lasciato scaraventare in un ambiente di cui non conosceva le regole vere, la "colpa" di venire da un ambiente e da attività completamente diverse e di non essersi forse reso conto di quanto sarebbe stato isolato una volta giunto al vertice della struttura comunitaria.

A rendere più difficile la sua posizione c'è poi il fatto che, con l'applicazione dei trattati di Maastricht e di Amsterdam, e soprattutto con la reazione al caso Santer, la Presidenza alla Commissione è diventata una posizione così potente e importante da svegliare molti appetiti, invidie, e ostilità. Ciò si è visto sia con la creazione di nuove figure e di nuovi personaggi che tendono a mettere in ombra Prodi e il suo ruolo (lo spagnolo Solana, che è al tempo stesso Mr. Pesc e segretario del Consiglio dei ministri, e il futuro Mr. euro che dovrebbe, nel quadro del potenziamento di Ecofin, il Comitato economico e finanziario, essere responsabile per il coordinamento delle politiche nazionali in questo campo). 

La possibilità di una controffensiva della Commissione appare però assai dubbia, perché gli attacchi della stampa sono accompagnati da un'infinità di manovre e piccoli complotti con cui i burocrati di Bruxelles occupano le loro molte ore vuote e ben pagate. La natura dell'istituzione comunitaria si presta bene a queste forme di sabotaggio. La Ue è un animale ibrido, dove i Commissari e pochi altri devono concepire e portare avanti progetti politici grandiosi e innovativi sino al limite dell'utopia, mentre da ogni lato li circonda una palude burocratica divisa da rivalità nazionali, di competenze e di persone; una palude in cui anche il più generoso ed audace dei progetti politici rischia di annegare. 

Prodi ha tentato di superare questo dualismo, ma senza molto successo. Il suo impegno per la costruzione della Europa unita è rapidamente diventato più retorico che utopico, e i suoi stessi tentativi di scuotere il tran tran burocratico di Bruxelles si sono rapidamente tramutati in una marcia indietro. Questo contesto non deve però frenare l'iniziativa politica che a questo punto - come ha fatto notare Delors - è indispensabile assumere. Prodi si trova nella fortunata posizione di non doversi andare a cercare, come tante altre personalità politiche del passato, un'occasione per conquistarsi un po' di gloria. Le sfide storiche per l'Unione europea gli sono già state affidate. Più di qualsiasi precedente presidente della Commissione, egli è dotato di poteri nuovi e più ampi, mentre i suoi oppositori non sono in definitiva che dei burocrati. Come diceva De Gaulle, l'importante è prendere iniziative politiche, e "l'intendenza seguirà". Per loro stessa natura, se un grande uomo politico prende un'iniziativa, i funzionari seguiranno addirittura con eccesso di zelo. Questo tipo di persone non è veramente temibile che quando si è in difficoltà. I burocrati, come tutte le folle anonime, sono terribili in una sola cosa: la lapidazione. Tocca a Prodi, con un'iniziativa politica veramente europeista, non mettersi in condizione di esserne l'oggetto.

Prodi però si è troppo impegnato a favore dell'allargamento che, come ha detto addirittura il Commissario olandese Bolkenstein è fortemente propugnato dalla Gran Bretagna solo "per diluire l'Europa". Tra i grandi problemi con cui si è già confrontato, l'allargamento della Comunità, la riforma delle sue istituzioni, la politica estera comune, sono tra loro drammaticamente diseguali. La via da seguire non può essere che una sola, e la hanno già indicata altre illustri personalità come Ciampi, quando ha scritto su La Stampa del 18 aprile che "nella presente realtà dell'Unione europea, la priorità l'ha il rafforzamento delle strutture. È indispensabile rafforzare prima di allargare, per non compromettere, anzi per migliorare, l'efficacia del sistema comunitario". Qualche giorno prima, sul Figaro del 10 aprile, lo stesso concetto era venuto dalla dichiarazione congiunta di due grandi statisti che - loro - sono già passati alla storia tra i costruttori dell'Unione europea, Helmut Schmidt e Valéry Giscard-d'Estaing.Esso è stato infine rilanciato con grande tempismo e intelligenza politica dal ministro degli Esteri tedesco Fischer, che ha cosi dimostrato che la Germania non cessa di essere il cuore pulsante dell'Europa.

Senza un approfondimento, senza istituzioni più salde, l'allargamento sarà un disastro. Non è perciò necessario che qualcuno - si tratti di Joschka Fischer o del vertice franco-tedesco di Magonza - intervenga dall'esterno ad incoraggiare Prodi ad una scelta capace di qualificare la sua Presidenza. La responsabilità che egli si trova oggi ad avere, e la condizione in cui gli equilibri mondiali di potere lo costringono, hanno già predeterminato questa scelta: la battaglia è quella della riforma delle Istituzioni, nel senso dell'approfondimento della integrazione sovranazionale tra un numero ridotto di paesi. 

E' un fatto che la Ue è troppo grande, che ha troppi membri estranei all'originario spirito che aveva spinto alla riconciliazione e al riavvicinamento tra Francia e Germania, che se essa si deve sviluppare, la decisione su chi può e chi non può farne parte non può essere evitata. L'errore fondamentale di Prodi, errore - questo sì - che ha cominciato a pagare dal primo giorno, e che dovrà continuare a pagare fino in fondo per la mano stessa di coloro che traggono vantaggio dalla sua scelta strategica, è stato quello di credere che una tale situazione potesse essere "gestita". Egli ha pensato di poter sposare una retorica europeista spinta sino al punto di parlare di "esercito europeo", con un sostanziale allineamento strategico con le forze che antepongono l'allargamento a qualsiasi approfondimento dell'Unione, e con un forte distacco da quei paesi, la Francia, la Germania e la stessa Italia che, perfino nella loro attuale gravissima crisi d'identità, avvertono tutta l'attrazione e l'urgenza di dar vita ad una "cooperazione rafforzata" tra sei o sette paesi al massimo. Va aggiunto a questo proposito che questa non è la scelta obbligata soltanto per la Commissione. Essa è la scelta obbligata anche del suo naturale alleato: il Parlamento europeo. In un mondo di Stati sovrani, quale quello che oggi taluni, dentro e fuori la Ue, pensano di poter restaurare in Europa, il Parlamento europeo rappresenterebbe infatti un neo della natura, che sarebbe, per il suo stesso carattere sovranazionale, spazzato via e gettato nella pattumiera della storia. Esso è perciò l'esercito di questa guerra che Prodi è chiamato a combattere.

Non sembra che egli possa farsi illusioni su uno dei punti centrali di quanto scritto da Faz. Continuando così le cose, Prodi non arriverà al termine del quinquennio, la sua sarà un'altra Presidenza spezzata. Spezzata forse per ragioni diverse, certo più nobili di quelle per cui è stata spezzata la Presidenza Santer, ma comunque spezzata. Il Purgatorio in cui la stampa internazionale lo sta facendo cuocere a fuoco lento ha un chiaro significato: qualsiasi insuccesso insuccesso sarà - Prodi può starne certo - attribuito soltanto a lui. E i primi a dargli addosso saranno, assieme ai suoi rivali italiani, quei media di lingua inglese di cui il Professore - ben sapendo che sono gli unici che veramente contano sul piano globale - cerca così tenacemente l'approvazione, come si è visto in occasione dell'allontanamento di alcuni suoi collaboratori, un olandese e un italiano, e la loro sostituzione con un irlandese e un inglese. Una mossa che segna un ulteriore sbilanciamento della Ue verso la cosiddetta "preferenza anglosassone" di Prodi.

Sul fair play degli ambienti internazionali dei media sarà bene che l'ex presidente del Consiglio italiano non si faccia illusioni. Egli non deve vedere la sua esperienza bruxellese come una parte del proprio curriculum di uomo politico, né come una Presidenza più o meno di successo nella storia dell'Europa unita. Questa non è la politica italiana, dove, come disse Andreotti, "ci sono molte Pasque e molte Resurrezioni". Qui non c'è pietà per i vinti. Nel mondo della globalizzazione, se si perde la scommessa audacissima dell'euro in cui ci siamo lanciati quasi in un momento di absence of mind, per l'Europa rischia di aprirsi un'epoca di decadenza rapida e dalle prospettive assai oscure. Sarebbe un fallimento tragico: un fallimento che andrebbe oltre la persona di Prodi, per travolgere grandi figure storiche, da Jean Monnet a Kohl, e cancellare le speranze di un intero continente, che ha tentato di rompere con un passato carico di gloria e di sangue, per dar vita ad un soggetto politico di tipo nuovo. L'iniziativa che la realtà dell'Europa chiama Prodi ad assumere è nel campo della cooperazione rafforzata. E richiede qualità più di statista che di politico, perché richiede in definitiva un sacrificio dello stesso ruolo della Commissione. 

L'elemento istituzionale che più risponde alle esigenze della "cooperazione rafforzata" è infatti l'emergere del cosiddetto "euro-11/Ecofin" che si profila quasi come un'alternativa alla Commissione quale leader della corsa all'integrazione europea. L'Ecofin è una delle incarnazioni degli Stati perché raccoglie i 15 ministri dell'Economia e delle Finanze dei paesi membri. Però al suo interno undici paesi sono legati dalla moneta unica, e su questo gruppo più ristretto cade la fortissima esigenza di un'azione di politica economica unica a sostegno dell'euro, la cui debolezza - tutti concordano - è dovuta al fatto che un'area monetaria non può esistere senza unità politica o - in alternativa - senza una potenza egemone. 

E' chiaro che l'euro dovrà portare ad una di queste due cose. Ma la seconda è improbabile, in particolare perché la Francia resisterebbe a diventare un satellite monetario della Germania, con la rinuncia alla sovranità economica che ciò implica, mentre la prima è favorita, nel quadro "euro-11", anche dal fatto che il crescente dominio inglese della Commissione la rende sempre più estranea alla comunità degli undici paesi dell'euro. La Commissione in questo quadro sembra diventata più un'area di scontro per conquistarsi fette di potere, anziché il "governo dell'Europa" cui Prodi aveva, all'inizio della sua Presidenza, dato segno di credere di essere a capo.

L'evoluzione da un organo fondamentalmente intergovernativo come l'"euro-11" in un "governo" economico dell'Europa pone però un delicato problema di interpretazione dei Trattati e di adattamento delle istituzioni. E se poi, sotto l'urgenza ormai ineludibile della questione euro, si dovesse avere un'evoluzione dell'"euro-11" a nuovo "motore" dell'integrazione europea, la formula inevitabilmente verrebbe ad ispirare gli altri casi di "cooperazione rafforzata" tra alcuni soltanto dei quindici paesi (per non parlare dell'ipotesi irrealistica della Ue a trenta membri), in primo luogo i casi della sicurezza interna, dell'immigrazione e della difesa. Ed è interessante, a questo proposito, notare negli incontri franco-tedeschi con cui, in previsione del semestre di Presidenza francese, si è cercato rilanciare l'asse tra Francia e Germania, non solo la cooperazione rafforzata è stata indicata come uno dei campi di crescita dell'Europa (assieme a una migliore ponderazione dei voti in seno al Consiglio e una limitazione dei membri sia della Commissione che del Parlamento), ma è stato anche indicato che sull'avvio di "cooperazioni rafforzate" in nuovi campi, non sarà ammissibile il veto di chi non intende partecipare. 

Sarebbe un passo avanti straordinario. E se - col sostegno che l'opinione pubblica italiana non mancherà di dargli - il nostro connazionale Romano Prodi impegnerà la sua Commissione in questo senso, fino a farle sacrificare un po' dei propri poteri per l'obiettivo dell'unione politica, il suo Purgatorio sui media britannici e spagnoli sarà forse più duro, ma gli aprirà certamente la strada al pantheon dei costruttori dell'Europa.

Giuseppe Sacco
ordinario di Relazioni e sistemi economici internazionali
alla Luiss-Guido Carli di Roma


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