Congetture & Confutazioni
UN DOPOGUERRA CAPOVOLTO

di Alberto Pasolini Zanelli

La terza guerra mondiale è finita, se lo ricordano tutti, una decina di anni fa e, se qualcuno se lo ricorda ancora, con un vincitore, l'Occidente, e un vinto, il comunismo. Dico se, perché quello che sta succedendo in forme svariate attraverso tre o quattro continenti potrebbe dare l'impressione, a uno smemorato, a un disattento o semplicemente a un giovane, che l'esito sia stato quello opposto. Da Berlino a Santiago, da Tokyo a Madrid, da Giakarta a Parigi, si stanno celebrando in serie processi contro i vincitori, condotti in gran parte da "pubblici ministeri" usciti dai ranghi degli sconfitti. I dittatori comunisti imposti da Stalin e dai suoi successori ai paesi satellizzati in Europa dopo il 1945 hanno goduto quasi tutti di una amnistia pressoché automatica. In quella che fu la loro fetta della Germania divisa, i gerarchetti della Sed si sono placidamente riciclati come parlamentari del Pds, i cui leader siedono nel Bundestag sui banchi della prima fila del loro settore dell'emiciclo. Helmut Kohl, invece, è stato deportato all'ultimo banco del settore della Cdu. Ha perduto tutte le sue cariche e aspetta di essere tradotto a giudizio. Per reati che dicono "comuni" ma che sono direttamente collegati nel modo in cui egli, identificata nella caduta del Muro una occasione irripetibile, ha perseguito la riunificazione e la stabilizzazione delle regioni liberate e trovate in condizioni di fame. Se il suo fu delitto, poche volte un delitto fu così chiaramente politico. 

All'altro capo del mondo ha appena riacquistato la libertà un uomo, Augusto Pinochet, che nulla accomuna a Helmut Kohl se non il fatto di avere avuto gli stessi nemici press'a poco negli stessi anni e di averli combattuti con i loro metodi. L'America Latina non aveva l'"ombrello nucleare" americano né la Nato a proteggerla dagli spasmi dell'espansionismo sovietico: aveva la guerriglia armata su scala continentale e gli rispondeva per le rime. A un Castro un Pinochet, alla teoria e alla pratica guevariane della guerra de guerrilla la pratica e la teoria della controguerriglia, studiata nelle giungle e nelle metropoli ma anche nelle accademie specializzate di Washington. A chi proclamava che il potere è "sulla bocca del fucile" si rispondeva col fucile. Una lunga guerra sporca, che è finita soltanto con il crollo in Europa del "fronte" principale del comunismo. E contemporaneamente adesso. Sono solo due esempi, casi estremi, ma ce ne sono molti altri, in mezzo. Il peculiare sistema politico-economico del Giappone e di molti altri paesi dell'Asia orientale era rispettato, ammirato, invidiato quando era parte, con i suoi successi del "braccio di ferro" planetario. 

Ricordate il lirismo sulle "virtù confuciane"? E l'appoggio deciso dell'America alla Corea del Sud abbarbicata a un armistizio decennale senza pace, a Taiwan "piccola ed eroica" contro il gigante della Cina comunista, all'Indonesia "chiave di volta del Pacifico" e alle Filippine preziose per il nutrimento logistico della sacrosanta guerra americana in difesa del Vietnam del Sud? Di tutti quei governi alleati, democratici o semidemocratici o poco democratici, si sono scoperti, dopo il "cessate il fuoco" universale, i lati neri e i difetti. Marcos e Suharto da "statisti amici" sono diventati "sanguinari tiranni". Perfino la piccola Singapore, ieri vetrina di quelle virtù confuciane, è guardata con sospetto. Si è reclamato a gran voce il processo contro i generali sudcoreani, mentre la Corea del Nord andava avanti con i suoi esperimenti nucleari e il suo popolo moriva di fame. In Africa i cardini delle alleanze con l'Occidente, a cominciare da Mobutu nello Zaire, sono stati spinti via e hanno lasciato puntualmente il posto al caos e a quella che gli osservatori di Washington hanno definito "la prima guerra mondiale africana". L'America Latina, respinti ovunque gli assalti della guerriglia, è ritornata alla democrazia attraverso patti di riconciliazione generosi e lungimiranti tra i condottieri delle "sporche guerre" e i restauratori, a guerra finita, delle libertà. E in Europa, Kohl è diventato "impresentabile" mentre i governanti socialdemocratici stringono alleanze quasi ovunque con i comunisti e li associano al potere. Boris Eltsin, l'uomo che ha fatto ammainare la bandiera rossa dalle torri del Cremlino segnalando così la fine della terza guerra mondiale, ha visto molti in Occidente plaudire ai tentativi di deputati e magistrati comunisti di processarlo per "alto tradimento".

Si moltiplicano, in compenso, gli accenni di nostalgia per un'era che nessuno osa ancora definire "buon tempo antico". L'Occidente mostra il suo pugno armato e inflessibile alla Serbia, a un Milosevic che non è la continuazione all'ultima spiaggia del regime comunista jugoslavo, ma non nasconde il rimpianto che non possa tornare un qualche Tito. Il pericolo pubblico, adesso, sono i "nazionalismi", da quelli sanguinari delle fazioni nella ex Jugoslavia (ma molto meno, chissà perché, quello dei terroristi baschi: forse perché non erano nostri alleati nella Guerra Fredda) a quelli verbali e velleitari di Jörg Haider. Dipinto come uno dei fantasmi di Hitler che spuntano un po' ovunque. La sensazione, allora, si precisa e si approfondisce. C'è in alcuni una grande urgenza di dimenticare, minimizzare, voltare pagina sulla terza guerra mondiale, e di ricominciare a combattere contro i fantasmi della seconda.

Alberto Pasolini Zanelli
inviato, editorialista de il Giornale


Torna al sommario