Congetture & Confutazioni
I MONITI DEL RAPPORTO OCSE

di Antonio Marzano

Il Rapporto Ocse sull'economia italiana parla chiaro. E tuttavia esso ha suscitato interpretazioni di segno diverso. Esponenti del governo lo hanno commentato come se esprimesse un giudizio positivo sulla politica governativa. L'opposizione lo ha interpretato in senso diametralmente diverso. Come è potuto accadere che un rapporto denso di cifre e ricco di tesi inequivocabili abbia suscitato posizioni così diverse? In altre parole: chi ha ragione e chi ha torto? Il Rapporto prevede per l'Italia un miglioramento della congiuntura. Il tasso di sviluppo sarà più alto (2,9 per cento nel 2000 e 3,1 per cento nel 2001) che in passato (la media del periodo 1996-'99 è stata pari all'1,4 per cento) e vi sarà una certa ripresa degli investimenti fissi lordi (4,4 per cento nel 2000 e 5,5 per cento nel 2001 contro una media del periodo 1996-'99 del 3,3 per cento). Naturalmente il governo si è esercitato nell'enfatizzazione di questi aspetti di natura congiunturale. Ma così facendo ha trascurato due elementi fondamentali.

Il primo è che, in realtà, il miglioramento della congiuntura è in larga parte dovuto ad una ripresa congiunturale dell'economia internazionale, a cui si aggiunge poi l'effetto di stimolo derivante dal deprezzamento dell'euro. Se è così, intanto si tratta di fattori del tutto esogeni rispetto alla politica economica del governo. E poi si tratta di tendenze di natura transitoria: il ciclo internazionale è fatto di alti e bassi, ed il deprezzamento dell'euro non può durare all'infinito. Questo significa che indebolendosi, cessando o invertendosi questi fattori, l'Italia si troverebbe priva di carburante. Si aggiunga poi che la debolezza dell'euro ha anche effetti negativi: ci impoveriamo tutti in termini di potere d'acquisto sui mercati del dollaro; crescono i costi delle materie prime importate (a cominciare dal petrolio) e dunque si sviluppano pressioni inflazionistiche già del resto in atto.

Essenzialmente per questa ragione, gli economisti italiani più avvertiti si soffermano di meno sull'evoluzione della "congiuntura", e si preoccupano di più dei problemi di "struttura". In merito a questi ultimi, l'Ocse è molto severa, e gli esponenti governativi diventano improvvisamente distratti. L'Ocse avverte che sono ancora irrisolti e quindi continuano a vulnerare il potenziale di crescita della nostra economia la riforma del fisco, la riforma del mercato del lavoro (flessibilità, mobilità), le privatizzazioni incompiute se non addirittura solo apparenti, le rigidità che attraversano il Mezzogiorno, la complessità regolamentare ed amministrativa, la scarsa concorrenza, i problemi di competitività della nostra economia, il risanamento effettuato soprattutto grazie alla minore spesa per interessi, i deficit della previdenza (nel 1999, secondo l'Istat, relativamente al 1998 la spesa per pensioni in termini reali è aumentata del 2 per cento, cioè lo 0,6 per cento in più rispetto al Pil). Sono questi i settori in cui servono riforme strutturali capaci di ridare competitività e slancio all'economia italiana, in modo autonomo rispetto al ciclo della congiuntura internazionale ed al deprezzamento dell'euro (con tutti i suoi limiti). 

Di fatto sono queste inadempienze che secondo le stesse previsioni dell'Ocse continueranno a deprimere la nostra economia. I tassi di sviluppo, pur migliorando rispetto al passato, rimangono inferiori alla media europea (nel 2000 3,5 per cento) e a quella dei paesi Ocse (nel 2000 4 per cento). Il tasso di inflazione sarà più alto per l'Italia (2,6 per cento nel 2000 e 2,3 per cento nel 2001), rispetto alla Francia (1,3 per cento e 1,5 per cento) e alla Germania (1,5 per cento e 1,5 per cento). Il tasso di disoccupazione rimane comunque maggiore in Italia (nel 2000 11 per cento e 10,5 per cento nel 2001) rispetto alla Francia (9,8 per cento nel 2000 e 8,8 per cento nel 2001), alla Germania (8,5 per cento nel 2000 e 7,7 per cento nel 2001) ed alla media euro (9,2 per cento nel 2000 e 8,5 per cento nel 2001). Queste "differenze" in peggio rappresentano in sostanza il "costo delle mancate riforme". 

Resta una conclusione di natura politica. I governi della sinistra sono ormai in carica da oltre quattro anni. Si tratta di un periodo nel quale volendo e potendo si sarebbe riusciti a fare tutte le riforme che invece mancano all'appello. E' improbabile che si faccia, negli ultimi undici mesi che restano per la fine della legislatura, ciò che non si è riusciti a fare in oltre quattro anni. E' corretto desumerne che l'indirizzo complessivo dei governi di sinistra, il programma governativo realmente perseguito (e non quello meramente proclamato), i condizionamenti e le divisioni interne all'aggregazione di sinistra siano stati e restino ostacoli insormontabili alla realizzazione degli interventi considerati necessari dall'Ocse. E non solo dall'Ocse: anche dalla Banca d'Italia, dal Fondo monetario internazionale, dalla Birs, dalla Commissione economica europea, da Confindustria e perfino dall'Istat. Se è il programma di Forza Italia, del Polo, della Casa della Libertà, quello che si impegna nella direzione delle riforme anzidette, come sottrarsi alla conclusione secondo cui l'Ocse (e tutti gli altri istituti citati), di fatto o implicitamente, ritengono che sarebbe buona cosa cambiare governo in Italia?

Antonio Marzano
economista, parlamentare


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