La comunità liberale
LA LIBERTA' RESPONSABILE

intervista a Amitai Etzioni di Stefano da Empoli

"La difesa della libertà è importante quanto il mantenimento dell'ordine sociale: il problema è quello di bilanciare questi due elementi. Ed è all'interno di questa scommessa che si colloca la nostra proposta di comunitarismo soft". A parlare è Amitai Etzioni, professore di Sociologia alla George Washington University e esponente di punta della cosiddetta scuola neo-comunitaria, il filone di pensiero politico che si riconosce nella "Communitarian Platform" e nella rivista The Responsive Community, di cui è direttore nonché fondatore. Il neo-comunitarismo, particolarmente impegnato nel ricercare consensi all'esterno del mondo accademico e usando un messaggio accessibile a tutti, tenta una difficile mediazione tra la valorizzazione delle libertà politiche ed economiche e una politica a difesa del legame sociale e della solidarietà verso i più deboli. E per questo si distingue nettamente sia dal "comunitarismo asiatico" - un modello politico applicato dalle marcate caratteristiche autoritarie (l'esempio più noto è quello di Singapore) - che dal "comunitarismo accademico" di Michael Walzer e altri pensatori politici statunitensi, dall'approccio marcatamente intellettualistico. The Golden Rule (1995) e The Spirit of Community (1996) di Amitai Etzioni sono, del resto, tra i testi più noti della corrente neo-comunitaria. 

Domanda - Si potrebbe forse sostenere che il liberalismo classico e il neo-comunitarismo siano oggi complementari: il primo si preoccupa di definire le regole generali della convivenza, mentre il secondo mira a riempire di contenuti e valori la scatola deliberatamente lasciata vuota dal liberalismo. Oltre i vicoli ciechi di un liberalismo formalistico e di un comunitarismo identitario e regressivo si può forse ipotizzare l'evoluzione liberale in direzione di un "liberalismo comunitario". E' d'accordo?

Risposta - Certo, sta maturando una nuova impostazione secondo la quale la società libera non coincide con il solo mercato. E' consapevolezza comune, infatti, che il mercato è a sua volta contenuto in una scatola più grande e più complessa che è la società. E in questo orizzonte i princìpi che sono alla base della politica, della religione e della famiglia non sono in alcun modo riconducibili e riducibili all'idea di mercato. Del resto né John Locke, né Adam Smith, né David Hume pensavano che tutte le istituzioni potessero essere racchiuse e interpretate all'interno di un paradigma utilitaristico e mercantile. 

Se il liberalismo classico e il neo-comunitarismo sono uniti da una comune avversione verso l'intervento statale, a volte si ha però la sensazione che ciò che interessa al comunitarismo non sia tanto la libertà in sé quanto il timore di una deresponsabilizzazione sociale indotta dall'assistenzialismo.

Non è vero, noi siamo per il concetto di una libertà responsabile. Ma sicuramente questo non è il punto di vista del "comunitarismo asiatico", che fa pendere la bilancia verso l'ordine sociale, così come il "comunitarismo accademico" ha enfatizzato oltremisura il ruolo della comunità, ponendo l'accento più sulle responsabilità che sui diritti. Il nostro neo-comunitarismo si fonda invece sull'idea di un "ordine morale volontario" che a differenza sia del conservatorismo che dell'orientamento dei gruppi religiosi più tradizionali non vuole imporre canoni morali ope legis. Lo spirito comunitario, la solidarietà, non nascono per decreto. Diciamo che quello che noi proponiamo potrebbe essere chiamato un comunitarismo soft.

Lo storico populista Cristopher Lasch individuò un denominatore comune per il populismo e il comunitarismo che - a suo dire - consisteva nell'avversione all'Illuminismo, del quale il filone scozzese di Hume e Smith, da lei prima citati, è però componente di primo piano.

Cristopher Lasch si riferiva ai comunitaristi di scuole diverse dalla nostra. Noi non siamo affatto anti-illuministi. La nostra attenzione è però rivolta all'uomo nella sua ampia accezione, che non può essere ridotta a quella unica di consumatore. A questo proposito ritengo ci siano due Adam Smith, quello del 1759 della Teoria dei sentimenti morali e quello del 1776 della Ricchezza delle nazioni. Non penso che Smith riuscì mai a fondere perfettamente l'impostazione morale con quella economica perché esse rispondono ad un insieme di regole diverso. Semmai, poi, è il contesto morale a definire il mercato piuttosto che il contrario. Il concetto di proprietà è influenzato da considerazioni di ordine morale. I limiti alla responsabilità legale, influenzati da un'evoluzione della moralità, sono alla base dell'accumulazione economica e finanziaria dell'epoca moderna. In questo senso, la storia tardomedievale dei comuni italiani ne è un'importante dimostrazione. 

Dove occorre tracciare la linea di demarcazione tra la sfera della libera adesione e quella dell'intervento pubblico? Se i princìpi enunciati nella vostra piattaforma non trovassero un livello sufficiente di consenso, sarebbe disposto a sacrificare il "principio di autoregolamentazione"? 

Sì, ma solo nel caso venissero gravemente superati determinati livelli di comportamento antisociale. Il rischio da evitare però è che le leggi siano imposte senza un consenso sufficiente a renderle accettabili. Voi in Italia in passato avevate un numero molto elevato di aborti clandestini prima che l'aborto fosse consentito dalla legge. Analogamente, negli Stati Uniti abbiamo avuto il proibizionismo, ovvero il tentativo di imporre dall'alto princìpi morali, che ha portato in realtà ad ampi fenomeni di corruzione. Diverso è il caso della campagna contro il fumo, oggi severamente limitato dalla legge. Il consenso è così diffuso che si arriva perfino ad estremizzazioni abbastanza divertenti. Recentemente Usa Today titolava in prima pagina che la legge sul fumo era stata violata a bordo degli aerei duecento volte nel corso dello scorso anno. Se pensiamo a quanti milioni di passeggeri volano sui cieli americani ogni anno, non mi sembra proprio che un numero così basso possa far notizia. Facciamo un altro esempio, quello della guida sotto gli effetti dell'alcool: in questa vicenda le leggi più restrittive degli ultimi anni, importate dalla Scandinavia, hanno funzionato perché sono state ampiamente recepite dalla gente. Ci sono delle aree dove possiamo contare sulla forza della persuasione, altre su cui possiamo scrollare le spalle rassegnandoci, altre ancora dove occorre intervenire. Dove la vita delle altre persone è in pericolo non si può far finta di niente.

Quindi, in questo come in altri casi, si dovrebbe far ricorso a programmi di educazione civica?

E' questo il punto. Comunemente e universalmente i più giovani vengono sollecitati ad una serie di prescrizioni: non essere violenti, non fumare, non bere, non eccedere con il sesso e non fare uso di droghe. Ma ricorrere alla negazione è profondamente sbagliato. Va dato invece un messaggio positivo, per esempio, va incoraggiata l'attività sportiva ed è chiaro che a quel punto non fumare diventa un messaggio molto più accettabile perché fumo e sport sono difficilmente compatibili.

Nel suo ultimo libro Bowling Alone, Robert Putnam denuncia l'indebolimento del tessuto sociale americano. Non è quindi più possibile convenire con Tocqueville, che nella Democrazia in America contrapponeva la vivacità dell'associazionismo americano con la relativa inerzia della vita sociale europea?

Credo che le considerazioni effettuate da Tocqueville 150 anni fa siano tutt'ora attuali, precisando che gli Usa hanno moltissime istituzioni nate su base volontaria ma, forse proprio per questo, più fragili. Il senso comunitario è molto più forte in Europa e questo pone il problema opposto, cioé quello di individuare dei contrappesi. Prenda, ad esempio, l'immigrazione in Germania o in Svizzera. Se il senso di appartenenza ad una comunità di sangue è troppo forte, subentra l'intolleranza. Ci si rifiuta di concedere la cittadinanza anche se le persone parlano perfettamente la lingua della comunità e si sono perfettamente inserite nel mercato del lavoro. In questo caso, il pendolo rischia di essere troppo sbilanciato dalla parte dei doveri e troppo poco dalla parte dei diritti.

Quanto ha inciso sulle sue convinzioni l'esperienza da lei vissuta nei kibbutz in Israele?

Nel kibbutz ho visto un forte senso di comunità combinato ad un'altrettanto forte consapevolezza dei diritti individuali. Ma il discorso cambia a seconda del livello di comunità di cui si parla. Un conto è parlare del quartiere o della famiglia, dove è facile trovare omogeneità, altra cosa è ipotizzare una coesione sul piano nazionale. Per l'Italia, sono comunque convinto che anche ad un livello nazionale ci siano forti valori che accomunano le realtà del Nord e del Sud. E osservando in profondità una consapevolezza di appartenenza e di legame comune sta lentamente emergendo anche a livello europeo.

Come valuta, alla luce della sua visione comunitaria, l'idea e la pratica della secessione?

Coltivare idealismo a buon mercato è del tutto inappropriato, nel caso questo si scontri con la realtà dei fatti. Credo che si debba tenere un atteggiamento più pragmatico, accettando l'inevitabilità di una secessione nel caso in cui l'eterogeneità dei valori raggiunga una soglia troppo elevata tra le varie aree del paese. Certamente non spedirei mai l'esercito per reprimere una secessione, qualora questa sia voluta dalla maggioranza.

Pensa che la devolution, cioé il trasferimento di parte dei poteri dallo Stato alle autonomie locali, possa essere una giusta traduzione istituzionale del messaggio neo-comunitario?

Per me la devolution reale è quella che non crea nuovi Stati all'interno dello Stato centrale ma quella che trasferisce responsabilità ai livelli più bassi di decentramento, cioé le piccole comunità locali. Sono quindi favorevole a una devolution ad un livello molto basso, sempre che ci siano le condizioni perché le singole comunità stiano insieme. La devolution non basta ad allontanare lo spettro della secessione quando questo è sufficientemente sedimentato.

Questo è un anno di elezioni presidenziali qui negli Usa. George W. Bush ha parlato di compassionate conservatism, vale a dire di un conservatorismo che tiene in considerazione le ragioni degli esclusi, siano essi immigranti, poveri o malati. In qualche modo ha tradotto nel linguaggio della politica quotidiana l'esigenza comunitaria…

Se lo slogan è sincero, sottoscrivo pienamente il suo messaggio pur non essendo un repubblicano. Il suo proposito di dare più potere al volontariato rispetto all'intervento dello Stato sposa integralmente il principio comunitario di sussidiarietà. Da qualche tempo, infatti, il partito repubblicano non solo ha cessato di invocare tagli al welfare ma, anzi, sta proponendo nuove forme di aiuto ai poveri. 

L'Europa, che a differenza degli Usa deve tagliare il suo appesantito welfare state per ragioni di bilancio, potrebbe quindi seguire un approccio che sostituisca almeno in parte il no profit all'assistenza statale.

Ho incontrato molti segnali in questa direzione soprattutto in Gran Bretagna e Germania. Ho notato invece reazioni diverse in Francia e Italia, dove ai dibattiti sull'argomento ti capita sempre di incontrare qualcuno che domanda: "Ma di queste cose non se ne dovrebbe occupare il governo?". Non hanno ancora chiaro che ci sono dei limiti a quello che il governo può e deve fare. Ci sono delle cose che è bene siano svolte dalla sfera comunitaria, dalle espressioni della società civile, senza che lo Stato interferisca. 

Negli Stati Uniti come in Italia è molto forte la preoccupazione che dare soldi ad associazioni religiose possa violare il principio di separazione tra Stato e Chiesa. 

In parte la preoccupazione è giusta. In primo luogo direi che il rischio è quello che il finanziamento statale corrompa le finalità di assistenza ai poveri. E' pericoloso pagare qualcuno perché faccia solo il proprio dovere. Credo che un sistema di welfare misto pubblico-privato sia la soluzione più giusta.

Fukuyama ha parlato, proprio su questa rivista, di un liberalismo sociale e dell'importanza del capitale sociale. Trova delle affinità con il suo messaggio?

Avendo firmato la nostra "piattaforma comunitaria", Francis Fukuyama è certamente d'accordo con i princìpi in essa enunciati. Del resto, tutto quello che lui ha scritto è compatibile con il modo di pensare neo-comunitario. L'unica differenza sostanziale è che io non credo che le regole possano emergere in un vacuum, come molti economisti e lo stesso Fukuyama sembrano a volte inclini a pensare. Ci sono delle tradizioni che evolvono per automatismi, spesso senza un perché e in assenza di un progetto elaborato a tavolino. 

Amitai Etzioni
professore di Sociologia alla George Washington University
Stefano da Empoli
graduate student alla George Mason University di Washington

 


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