La comunità liberale
COMUNITARI SI NASCE,
UNIVERSALISTI SI DIVENTA

di Sergio Belardinelli

Non c'è uomo che venga al mondo da cosmopolita. Non scegliamo i nostri genitori né il luogo dove nascere. Appena poi incominciamo a guardarci intorno, lo facciamo con gli occhi delle persone che ci sono più vicine, con la lingua che ci hanno insegnato, con i valori, le verità e i pregiudizi che da loro abbiamo assimilato; guardiamo insomma ciò che la loro cultura, diventata poco a poco anche la nostra, ci consente di vedere. In una parola: nasciamo comunitaristi. Col tempo però impariamo a guardare sempre più a fondo nella nostra tradizione, nella nostra storia, nella nostra cultura, e, se siamo stati fortunati, se cioè siamo nati in una comunità "aperta", abituata, poniamo, a guardare tutti gli uomini nella loro dignità incommensurabile, unica e irripetibile, ci sarà anche agevole, sebbene non sia automatico, diventare, sotto certi aspetti, universalisti. 

So di aver semplificato, forse in modo eccessivo, una vicenda filosofico-politica piuttosto intricata; in ogni caso non riesco a vedere quali altri sbocchi potrebbe avere la famosa disputa tra comunitaristi e universalisti, che, in forma più o meno esplicita e spesso artificiosa, si trascina ormai da almeno un ventennio. Prese di per se stesse, credo infatti che sia l'opzione "universalistica", attenta soprattutto ai diritti che tutti gli uomini hanno, in quanto uomini, sia l'opzione "particolarista" o "comunitarista", attenta invece alla specificità dei contesti socioculturali in cui viviamo, abbiano validissimi punti d'appoggio. Considero tuttavia come una pericolosa astrattezza il fatto che queste due opzioni siano state messe in contrapposizione. Detto un po' brutalmente, è soltanto in Occidente, nell'Occidente cristiano e liberale, che l'istanza universalistica ha potuto svilupparsi nei modi che conosciamo. E per quanto tali modi presentino sempre vistose inadeguatezze, ritengo che occorra molta prudenza rispetto alla pretesa che l'ethos universalistico occidentale possa mantenersi o addirittura rafforzarsi anche quando siano venute meno certe convinzioni, certe virtù e certe istituzioni saldamente legate alla nostra tradizione cristiana. Questo, in estrema sintesi, è un po' quanto ho cercato di sviluppare nel mio libro su La comunità liberale.

Comprendo ovviamente il fatto che, a seconda delle diverse sensibilità, si possa avere più a cuore ora il tepore delle comunità dalle quali abbiamo attinto gran parte di ciò che siamo (vedi un autore come Sandel), ora la libertà di perseguire semplicemente i nostri interessi, secondo le concezioni utilitaristiche, ora la convinzione che l'individuo, in quanto tale, viene prima, è più importante di qualsiasi altra cosa e quindi anche di qualsiasi comunità (vedi la tradizione del neokantismo politico, da Rawls a Habermas). Ma in realtà, se ci pensiamo bene, nessuna di queste tre opzioni esclude l'altra in linea di principio. Di fatto può accadere, ed accade, che si dia una certa preminenza all'una o all'altra; ma quando una di esse viene, diciamo così, troppo bistrattata (e oggi mi pare che ciò accada per l'opzione comunitaria), ci rendiamo conto che ne soffrono anche le altre e che bisogna ricostruire una sorta di equilibrio. La mia "comunità liberale" vorrebbe rappresentare questo equilibrio, nella convinzione che: a) i singoli individui, le singole persone, rappresentano il valore più alto in una comunità politica; b) essendo libero, l'individuo deve poter perseguire liberamente i propri interessi; c) non essendo l'individuo "un'isola", i legami con gli altri, gli usi e i costumi della comunità nella quale siamo nati incidono profondamente sulla nostra identità individuale e sulla nostra capacità di essere liberi e felici. Quanto alle istituzioni politiche, allo Stato, vada pure per uno Stato "minimo", purché sia "forte" abbastanza da far rispettare il diritto e la giustizia, senza essere troppo indifferente ai "beni" che gli individui perseguono.

Sulla base di tali premesse, mi sembra dunque preoccupante il fatto che la tensione comunitarismo-universalismo, anziché venire considerata per quello che è, ossia una specificità (al limite, persino una risorsa) delle culture liberali e democratiche, le quali si mantengono tali proprio in virtù delle capacità che hanno di tenerne uniti i poli, sia potuta diventare una sorta di opposizione irriducibile. In fondo, a pensarci bene, nemmeno le categorie tönnesiane di Gemeinschaft e Gesellschaft presentavano questo carattere. In Tönnies infatti, vero antesignano della disputa di cui stiamo parlando, curiosamente pressoché ignorato dai disputanti, diciamo così, "ufficiali" di oggi, "comunità" e "società" servivano soprattutto per spiegare il passaggio da uno stadio in cui gli individui sono saldamente legati e somiglianti gli uni agli altri, a uno stadio in cui invece i legami sociali si allentano, si fanno contrattuali e si fanno valere sempre di più le differenze, quindi le libertà individuali. In sostanza si tratta del passaggio dalla società antica a quella moderna. C'è tuttavia in Tönnies anche la consapevolezza che ad ogni stadio della vita sociale occorre fare i conti sia con elementi "comunitari" sia con elementi "societari"; una società che esalta ad ogni livello la libertà individuale non può rinunciare in tutto e per tutto a certi legami, poniamo quelli familiari, dai quali in ultimo dipende la struttura stessa della nostra personalità. In breve, è solo astrattamente che possiamo scindere in modo netto la nostra appartenenza ad una determinata comunità, ad una determinata cultura, e l'articolazione universalistica di alcuni valori o di alcuni diritti, come invece sembra accadere nell'odierna disputa tra comunitaristi e universalisti. Astrattezza che si paga però, sia nella variante "universalistica" che in quella "comunitarista", con una sorta di legittimazione a buon mercato di tutto ciò che i singoli individui e i singoli gruppi rivendicano come proprio "diritto". 

Da questo punto di vista ritengo che nella realtà sociopolitica occidentale siano visibili alcuni segnali tanto paradigmatici quanto preoccupanti. Prendiamo come esempio i grandi movimenti per il riconoscimento dei diritti civili o le grandi lotte contro le diverse forme di discriminazione. Per quanto siano importanti, a me sembra che dietro di loro si sia come insinuato qualcosa che alla lunga potrebbe risultare estremamente dannoso per la nostra cultura liberal-democratica, ossia la progressiva trasformazione del principio dell'uguale dignità di tutti gli uomini nel diritto a vedere riconosciuta la propria specificità, ossia la propria "differenza", comunque questa si manifesti, nell'indifferenza crescente rispetto a qualsiasi idea di qualcosa che, con buona pace di Habermas, sia "comune" in modo sostantivo, non meramente formale. Può succedere così che le coppie omosessuali rivendichino il "diritto" alla casa, a mettere su famiglia, ad adottare bambini, alla stessa stregua di una qualsiasi coppia eterosessuale, oppure che una donna di sessant'anni rivendichi il "diritto" a diventare mamma, semplicemente perché le odierne tecniche della riproduzione lo rendono possibile. Ma sebbene tutto ciò allarghi lo spazio di libertà di alcuni individui, non è affatto scontato che promuova per questo una società più liberale; alla lunga ne intacca piuttosto l'ordine normativo, indispensabile alla sua sussistenza. E di questo credo che dovremmo preoccuparci.

Lo Stato liberale di diritto, di per sé, non può essere ovviamente "Stato etico"; non può pensare di realizzare il "bene" contro la volontà dei cittadini; ma non può essere nemmeno eticamente neutrale, quasi che uno stile di vita valga un altro. In questo caso infatti, magari senza volerlo, esso finirebbe per promuovere forme di vita soltanto "ipotetiche", "contingenti", come direbbe Luhmann, che alla lunga ne usurerebbero la necessaria sostanza morale, diciamo pure quelle "virtù", senza le quali difficilmente potrebbero sopravvivere uno Stato e una società civile degni del nome. Ciò è stato mostrato in modo forse un po' iperbolico, ma comunque convincente, da Alasdair MacIntyre sotto forma di deriva "emotivista" di una cultura, la quale, priva ormai di una qualsiasi idea del "bene" e diventata pertanto una sorta di "simulacro" di se stessa, finisce per accentuare e promuovere sempre di più soltanto la dimensione individualista, utilitarista, "emotivista". Ritengo tuttavia che, almeno in Dopo la virtù, MacIntyre abbia, se così posso dire, sbagliato strategia nel presentare la "ricerca del bene" come una sorta di alternativa al liberalismo. A mio avviso, si tratta infatti di mettere la "ricerca del bene" al servizio delle libertà e delle istituzioni liberali; si tratta cioè di mostrare come, senza un'idea del bene non riducibile in tutto e per tutto ai gusti personali di ciascuno (né agli usi e ai costumi di una determinata comunità, con buona pace dello stesso MacIntyre), alla lunga si finisca col danneggiare proprio quelle libertà (e le istituzioni che dovrebbero garantirle) che tanto ci stanno a cuore. Per quanto resti difficile e controversa, mi sembra che l'idea di una "comunità liberale" esprima bene il senso di questo compito.

Sergio Belardinelli
professore di Sociologia della conoscenza
e di Sociologia politica nella facoltà di Scienze politiche
dell'Università di Bologna.


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