Rileggere il
craxismo
IL PESSIMISMO
DELLA VOLONTA'
di Nicola
Tranfaglia
Craxi
parte senza dubbio dalla tradizione socialdemocratica, collocandosi nella
corrente autonomista del Partito socialista italiano negli anni Cinquanta e
Sessanta, nei quali lavora a Milano ricoprendo incarichi politici e
amministrativi. Una volta divenuto segretario con un accordo con la sinistra
del partito nel 1976, e protagonista della politica italiana, si muove con
grande spregiudicatezza politica, in un primo tempo staccandosi dalla
sinistra, quindi adottando una posizione essenzialmente pragmatica e
puntando con decisione a una duplice concorrenza: al centro con la
Democrazia cristiana, a sinistra con il Partito comunista italiano rispetto
al quale conduce una battaglia politica assai dura cercando di affrettarne
il declino già in corso e di riequilibrare a proprio vantaggio il peso tra
i due partiti storici della sinistra. Non c’è dubbio, a mio avviso, che
Craxi abbia tentato di gestire il potere come presidente del Consiglio
valorizzando, al di là del ruolo istituzionale, il proprio forte carisma
personale.In questo senso ha anticipato sviluppi della politica che sono
diventati evidenti proprio nel momento in cui è crollato il sistema
politico italiano. Craxi aveva intuito i mutamenti che stavano avvenendo e
aveva per questo motivo parlato più volte di un grande progetto di riforma
istituzionale ma, di fatto, non lo perseguì con la tenacia, la coerenza e
la continuità necessarie. L’anticraxismo è derivato da molteplici cause.
Il suo modo di gestire la politica e il potere – dentro e fuori del suo
partito e della sinistra – ha disturbato sia quelli che si opponevano ai
mutamenti istituzionali sia quelli che non apprezzavano la sua estrema
spregiudicatezza a livello politico e individuale. Nella sua azione era
evidente l’intenzione di rafforzare l’esecutivo in maniera assai forte e
ridimensionare il potere della Democrazia cristiana, del Partito comunista
italiano, delle opposizioni a livello politico come sociale e culturale. Il
riformismo istituzionale di Craxi e del Partito socialista negli anni della
sua leadership è fallito sia perché il segretario socialista appariva
troppo centralista e personalista sia perché non si preoccupava in maniera
sufficiente della necessaria concordia tra le forze politiche perché si
potesse andare a una riforma istituzionale.
In
questo senso si può dire che la sua battaglia fallita per il
presidenzialismo ha influenzato negativamente le successive battaglie per il
medesimo obiettivo, sostenute peraltro essenzialmente dal centro-destra. Il
sistema di potere socialista si è inserito nella gestione partitocratica
dello Stato che si è affermata in Italia dopo la seconda guerra mondiale ma
che si è ulteriormente estesa a partire dagli anni Sessanta, con la
gestione del centro-sinistra, e nello stesso tempo lo ha esasperato sia nel
senso del diffondersi delle correnti nei partiti di governo, sia nella
prevalenza degli interessi privati rispetto a quelli pubblici, grazie
all’espandersi della spesa pubblica che ha subìto un’accelerazione
decisiva alla fine di quel decennio. E’ quello, a mio avviso, il periodo
– seconda metà degli anni Sessanta, anni Settanta, anni Ottanta – nel
quale la corruzione pubblica ha fatto passi avanti così grandi da condurre
nel successivo decennio, con il concorrere di altre cause, alla crisi finale
del sistema repubblicano. Il riformismo socialista craxiano non è riuscito
ad approfittare della crisi del comunismo mondiale e neppure di quello
italiano che pure nella seconda metà degli anni Settanta era già evidente
agli osservatori più avveduti perché non è riuscito a coinvolgere
adeguatamente nel suo progetto politico le masse lavoratrici italiane. E non
è riuscito a farlo sia perché queste masse, nella loro maggioranza,
continuavano a vedere nel Pci il difensore dei loro interessi e delle loro
aspirazioni sia perché i socialisti craxiani, una volta pienamente
partecipi del governo e del potere, non sono riusciti a differenziarsi
adeguatamente dai democristiani. Possiamo dire che in un certo senso hanno
esasperato alcuni difetti dei primi piuttosto che correggerli. L’eredità
dell’Italia degli anni Ottanta – il periodo del potere craxiano – è
contraddittoria. Sul piano dello sviluppo economico della salvaguardia degli
equilibri sociali, della ridistribuzione del reddito si sono conseguiti
alcuni risultati almeno in parte positivi ma sul piano della difesa della
legalità, della lotta alle mafie e alla pubblica corruzione, del
funzionamento corretto delle istituzioni come del bilancio dello Stato i
risultati sono stati in gran parte negativi. Si è diffusa una concezione
privatistica dello Stato e delle istituzioni che ha accelerato la crisi e la
fine del sistema politico repubblicano. L’aumento enorme del debito
pubblico ha condotto il paese a un passo dal baratro e lo ha costretto nei
primi anni Novanta a una cura traumatica necessaria per fermare
l’indebitamento nei parametri dell’Euro. Basta ricordare le leggi
finanziarie dei governi postcraxiani di Amato e Ciampi nel ’92-93 per
vederne la misura.
La
modernizzazione sociale che c’è stata negli anni Ottanta è innegabile e
va sottolineata con forza anche se non sono mancate notevoli contraddizioni.
Così è da giudicare positivamente il referendum sulla scala mobile e i
frutti che ne sono derivati. Non mi pare, invece, che lo stesso si possa
dire per quanto riguarda la liberalizzazione che è stata parziale e
contraddittoria. E’ indubbio che la fine del monopolio della televisione
pubblica sia stata positiva ma non si può dimenticare che si è passati
subito dal monopolio al biopolio e che è mancata completamente
un’adeguata azione antitrust, come la legge Mammì fortemente voluta da
Craxi, sta a dimostrare. Si è aperta una strada ma non la si è seguita in
modo da favorire effettivamente la concorrenza e il pluralismo
dell’emittenza. Craxi reagì con fastidio e arroganza di fronte
all’inizio dell’inchiesta giudiziaria di Milano e all’arresto di Mario
Chiesa: probabilmente gli anni al potere gli avevano fatto perdere in gran
parte la sensibilità e un rapporto affettivo con gli strati sociali più
attivi e influenti della società. C’era in Craxi, come, del resto, in
gran parte degli uomini politici che in Italia arrivano al potere e ci
restano per certo tempo, un pessimismo di fondo sul paese e sulla possibilità
di modificarne le peculiarità essenziali che vanno dall’esterno
trasformismo all’assenza di speranze nelle riforme, all’idea di una
società profondamente statica. Ed è proprio quel pessimismo di fondo che
alla fine lo tradì.Il ciclone giudiziario che ha travolto una parte della
classe politica al potere ha prodotto quel che da solo poteva produrre:
colpire chi era particolarmente in vista o rispetto al quale le notizie di
reato erano acquisibili con facilità, lasciando da parte molte altre
situazioni. Craxi non è in questo senso l’unico capro espiatorio ma senza
dubbio colpisce la sua situazione personale rispetto ad altri che sono stati
colpiti poco o nulla.Le classi dirigenti non si possono sostituire per via
giudiziaria ma soltanto attraverso la critica e le elezioni. Ne ero convinto
prima e ne sono convinto ancora di più oggi.
Nicola
Tranfaglia |
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