| Rileggere il
    craxismoUN'OMBRA INQUIETANTE
    PER LA SINISTRA
 di Giovanni
    Tassani
Il
    4 maggio 1977 il segretario del Partito socialista italiano Bettino Craxi
    svolge una relazione sul tema “Marxismo e revisionismo” alla Karl Marx
    Haus di Treviri, città natale di Marx, per conto della Fondazione Friedrich
    Ebert, avendo a fianco il presidente dell’Internazionale socialista Willy
    Brandt. Rileggendo oggi quella relazione, che precede di oltre un anno il
    celebre “Vangelo socialista” – l’articolo di Craxi su Proudhon 
    – che avrebbe bruciato le polveri della polemica politica Psi-Pci,
    possiamo ben vedere il segno deciso di un riformatore della sinistra
    italiana: un Craxi non polemico ma analitico rivendica la superiorità
    d’una lettura che colleghi la prudenza del Capitale, l’ultimo Engels, il
    gradualismo di Kautsky e Bernstein, la lezione italiana di Rodolfo Mondolfo
    e Critica Sociale, rispetto all’utopismo quarantottesco del Manifesto,
    della Comune, del bolscevismo di Lenin e Trotzky e della loro idealizzazione
    in Gramsci. Conservare memoria di Marx significa per Craxi consegnarlo alla
    storia, non imbalsamandolo ma sviluppandone criticamente l’esigenza,
    teorica e pratica, di democrazia socialista. Il segretario d’un partito
    entrato da appena un decennio nell’Internazionale è ora pienamente
    accreditato a parlare nel quadro d’un progetto in formazione,
    l’eurosocialismo, che sarà messo a fuoco a Bruxelles l’anno seguente,
    in vista delle prime elezioni dirette dell’Europarlamento, nel 1979. Un’alternativa
    politica di sinistra, un’alternativa modernizzante nella sinistra: questo
    il punto di partenza del politico Craxi, giunto alla segreteria nel luglio
    1976, a capo d’una corrente del 10 per cento, in un partito che ha
    registrato neppur un mese prima appena il 9,6 per cento alle elezioni più
    contrappositive – in nome dell’ipotizzato “sorpasso” Pci sulla Dc
    – dal 1953. “Revisionismo” e “riformismo” sono parole chiave,
    spregiate dalla sinistra in voga a quell’epoca, e connotate invece da
    Craxi di significato positivo. Esse diverranno sfida e bandiera. Craxi
    capisce bene che nel Pci berlingueriano è partito un ampio processo di
    revisione e adeguamento, ma conoscendo bene tempi e modi del proprio
    competitore a sinistra, decide di lavorare in anticipo sui limiti del Pci. E
    questi sono soprattutto due, tra loro interconnessi: il legame residuo ma
    tenace con l’Unione Sovietica, la concezione “egemonica”, vero
    archetipo profondo del personale politico comunista, e non pienamente
    pluralistica, del rapporto politica-società, che all’epoca impedisce al
    Pci di poter parlare positivamente di “alternanza” democratica nel
    sistema politico. Se
    non ci si vuol rinchiudere in una visione grettamente politicista delle
    cose, per cui tutte le questioni teoriche e storiche sollevate in anni di
    convegni di Mondoperaio avrebbero in realtà celato soltanto una volontà di
    delegittimare il Pci precludendogli la condivisione del potere, si deve
    ammettere che la campagna di revisione ideologica, da Craxi principalmente
    voluta, ha giocato, per la sinistra e all’interno di essa, un ruolo
    positivo, di crescita. Provocazione sì, ma nutrita di contenuti e di
    anticipazioni culturali oggi divenuti patrimonio comune: basti pensare a
    Popper e a Bobbio, all’origine dei dibattiti socialisti. Un primo
    riconoscimento pare debba dunque esser tributato al Craxi delle origini:
    quello di aver animato una stagione viva e scintillante, forse l’ultima in
    Italia, di ampio dibattito politico-culturale. Per capir questo occorre
    capire il personaggio: lottatore tutto-politico, sul piano cioè degli spazi
    di potere, ma contemporaneamente sul piano della prospettiva culturale. E
    non si capisce una dimensione senza l’altra. La formazione di Craxi, nella
    Milano della collaborazione amministrativa socialista-democristiana, s’era
    tatticamente arricchita d’una esperienza negli organismi universitari
    nazionali e sprovincializzata grazie agli incarichi ricevuti dal partito in
    campo estero. Come per Berlinguer anche per Craxi per esempio il Cile
    diventerà un paradigma politico, seppur diversamente interpretato nelle
    conseguenze: monito a non perdersi in estremismi e fughe dalla realtà
    mentre si deve saper governare. Non sessantottino, occidentalista convinto,
    Craxi può cominciare a sfidare i miti che avevano premiato il Pci
    facendogli intercettare, tra amministrative ’75 e politiche ’76, gran
    parte del voto giovanile (fascia 18-21 anni) al suo debutto:
    anticapitalismo, operaismo e terzomondismo. Quello di Berlinguer è un
    realismo diverso: esso, in attesa della fuoruscita dal capitalismo, si fa
    carico di un disormeggio graduale da un’ampia storia, di cui il tentativo
    “eurocomunista”, di pur necessario collegamento con francesi e spagnoli,
    con le timide critiche ai “tratti illiberali” dei regimi dell’Est, fa
    oggi capire inadeguatezza di prospettiva, se non tragicità. E’
    invece un’altra tragicità a dare spinta a Craxi: il “caso Moro”, in
    cui egli decide di porre il suo partito al centro d’una vasta opinione
    pubblica trasversale che comprende settori libertari e di neo-sinistra,
    parti delle istituzioni, del Vaticano e della stessa Dc. Di fronte a un Pci
    rattrappito nella fermezza, Craxi mostra l’elasticità necessaria a una
    possibile trattativa che miri, sia pur con rischi e pericoli, a un obiettivo
    etico oltre la ragion di Stato. Craxi capisce che, per dirla con l’ultimo
    Moro, l’Italia s’è già “rimescolata” e sempre più cambierà,
    anche nelle proprie appartenenze come nelle opinioni politiche. Estraneo al
    composto Dc, auspica che, come in Francia e altrove in Europa, i cattolici
    escano da quella gabbia neutralizzante per una scelta libera e autonoma, e
    afferma in positivo la conciliazione tra gli ideali del socialismo e i princìpi
    del cristianesimo: anche qui battendo in breccia una vecchia concezione di
    laicità mantenuta, al di là di ogni pratica diplomatica e attitudine
    mediatoria, dal Pci. E’
    stato deriso e deformato il richiamo in Craxi a Proudhon e poi a Garibaldi:
    ma anche in questo campo il richiamo era ad un socialismo di popolo che
    incontrasse le radici nazionali, senza giacobinismi e aristocrazia
    intellettuale. Questo il Craxi combattente cultural-politico, che conosce
    bene la storia del socialismo e della nazione: anticipatore, modernizzatore
    nel campo delle idee, che pianta nel gran vento di sinistra degli anni
    Settanta una bandiera-paletto sul terreno dei princìpi di socialismo e
    libertà.Il Craxi combattente tutto-politico compirà altre battaglie di
    modernizzazione, necessarie allo sviluppo del paese ma non altrettanto
    innovative nella prassi e nel costume politico. Innovativo quanto a finalità
    giustamente intuite, ma spesso impreciso nella progettualità, troppo
    disinvolto nell’uso dei mezzi, fallirà l’obiettivo nel corso d’un
    trend a lui sì favorevole in termini statistici (l’onda lunga tanto
    invocata e giunta al massimo del 15,3 per cento alle regionali del ’90, a
    neppur 10 punti di distanza dal Pci), ma che lo isolerà e lo renderà
    distante dal sentire comune sempre più in congedo libero dai partiti, anche
    se non dalla voglia di cambiare. Funzionerà solo per alcuni anni l’intesa
    Craxi-Pannella, non potrà funzionare un’intesa, che non ci sarà,
    Craxi-Segni. Dopo
    lo scandalo Eni-Petronim, origine della liquidazione del leader della
    sinistra socialista Claudio Signorile e del passaggio con Craxi di Gianni De
    Michelis, e la decisione circa l’installazione dei missili Nato, alla cui
    origine era stata la preoccupazione espressa dall’ex cancelliere
    socialdemocratico tedesco Helmut Schmidt verso il riarmo all’Est, sono
    maturi i tempi per la partecipazione diretta del Psi , dopo oltre cinque
    anni, ad un nuovo centro-sinistra con la Dc e il Pri nel governo Cossiga 2,
    non senza aver prima saggiato la candidatura dello stesso Craxi, tra i
    designati da Pertini a guidare l’esecutivo. La Dc post-zaccagniniana del
    “preambolo Donat Cattin” aveva deciso qualche mese prima il no secco a
    un Pci che, per parte sua, con la nuova svolta di Salerno aveva scelto
    un’opposizione “etica” di sistema, rivendicando l’“alternativa
    democratica”, opponendosi all’entrata dell’Italia nel Sistema
    monetario europeo (Sme), cavalcando il nascente movimento pacifista. Può
    esser definita quella di Craxi una correzione strategica, incoerente con la
    posizione alternativista precedente? Non credo lo si possa affermare, se si
    mantiene l’ottica in una prospettiva europea e l’attenzione al tema
    della governabilità italiana in anni in cui il terrorismo ancora devastava
    quasi quotidianamente il tessuto nazionale. I toni craxiani non si smorzano
    e la battaglia viene da lui aperta su più fronti. La Grande Riforma
    istituzionale, evocata ma non meglio precisata oltre all’elezione diretta
    del presidente della Repubblica e la soglia minima per l’elezione in
    Parlamento, fa parlare di bonapartismo, o peggio, ad una sinistra paga del
    proporzionalismo vigente.Il decisionismo di Craxi si rivela ben più duro
    all’interno del Psi ove ad uno ad uno gli avversari vengono fermati nei
    sogni d’ascesa (Giolitti), esautorati nel disegno politico-culturale
    (l’intero gruppo di Mondoperaio) e addirittura espulsi (Codignola,
    Enriquez Agnoletti, Bassanini, Ballardini). sIn diversi daranno lustro alle
    liste Pci nelle successive elezioni. Nonostante i conflitti e le perdite il
    Psi può nell’estate ’82 celebrare con successo a Rimini una conferenza
    programmatica che prelude nei temi trattati alla politica governante del
    Craxi ’83-87: crescita del potere decisionale dell’esecutivo, riduzione
    degli oneri pubblici del welfare state in termini di bilancio e spesa
    pubblica, coniugazione di giustizia ed efficienza (“meriti e bisogni”
    per il vicesegretario unico Claudio Martelli per il quale socialismo è una
    forma di individualismo mitigato). A Palermo l’anno prima il Psi nel suo
    congresso aveva “celebrato” con elezione plebiscitaria il leader,
    riaffermato l’orgoglio “riformista” e umiliato le ormai residue
    opposizioni interne. Verona ’84 e Rimini ’87 accentueranno il carattere
    spettacolare, e quasi oracolare, del messaggio coltivato dalla leadership,
    ossia dal leader. Tra le due date si esprime il Craxi governante con due
    ministeri di durata complessiva inferiore solo a quelli di De Gasperi e, di
    poco, di Moro. Gli
    atti fondamentali dei governi Craxi sono legati come si sa alla firma del
    nuovo Concordato con la Santa Sede nell’84, al taglio dei punti di
    contingenza che conduce al referendum del giugno ’85 – e in cui Craxi ha
    dalla sua la Cisl di Carniti, la Uil di Benvenuto, parte della Cgil e
    studiosi pur vicini più al Pci che al Psi come Tarantelli – alla
    disciplina dell’emittenza televisiva – pur ricorrendo anche qui
    all’abusata decretazione d’urgenza: cosiddetto decreto Berlusconi bis,
    gennaio-febbraio ’85 –, alla coerenza nella questione
    dell’installazione dei missili Pershing e Cruise. Ma un altro atto, benché
    postdatato ’88, è ascrivibile come successo politico a Bettino Craxi: la
    drastica riduzione dell’uso parlamentare del voto segreto, fonte di
    manovre e agguati di “franchi tiratori” nonché di prassi negoziali
    sotterranee da “governo ai margini”. Il segno della decisione craxiana
    è connesso anche al no al nucleare ribadito coi referendum dell’8
    novembre ’87, ove è votata anche la responsabilità civile del giudice,
    il che non impedisce successivamente il netto distinguo dai radicali circa
    il permissivismo in tema di droghe. Tutto ciò contribuisce sicuramente a
    designare Craxi come la personalità politica italiana più rilevante dal
    dopo-Moro a tutti gli anni Ottanta, al punto che al di là dello sfondo
    (Pertini, Berlinguer) le altre figure che han lasciato traccia di sé,
    Spadolini, De Mita, posson essere definite, sia pur in modo diverso, figure
    di contrasto a Craxi. Certamente
    l’ultima fase craxiana (’87-92) fa emergere, dilatandoli, tutti i limiti
    insiti nella strategia del leader socialista, che saranno poi la causa della
    sua fine politica. Il partito è stato crescentemente trasformato in
    palestra d’ascesa e soddisfazione d’un ceto espansivo-assessorile
    dimentico di regole, e congressualmente in un’arena plaudente senza più
    comitato centrale e neppure esecutivo, gonfio solo d’una pletorica, neppur
    eletta, assemblea nazionale di 600 membri. Craxi ha battuto alla lunga la Dc
    resistendo alla sua pretesa di coerenza nelle giunte locali, ove ha attuato
    il principio non scritto dell’“ovunque in maggioranza, con chiunque,
    alzando il prezzo”: ma in base allo stesso principio nasceranno allora
    centinaia di giunte Dc-Pci. La sua ricerca spregiudicata di attrarre a sé
    alcuni poteri forti rimarrà a metà. E tanto più il Psi si autocentrava
    sulla corsa all’espansione del proprio potere, più scemava la capacità
    potenzialmente federativa di un’area liberaldemocratico-socialista più
    ampia. L’alternanza si allontanerà e Craxi, dopo il fallimento della
    commissione Bozzi, si divincolerà a fatica dal legame con Forlani e
    Andreotti tesi a fargli sottoscrivere un’alleanza stabile con la Dc con
    premio di maggioranza elettorale. Federalismo “padano” e movimento
    referendario, quali segni di intolleranza sempre più diffusa alla
    “partitocrazia” faranno il resto. La figura di Craxi è oggi già
    consegnabile, con il rilievo che le spetta, alla storia d’una stagione
    irrimediabilmente trascorsa del paese. E alla storia soprattutto d’una
    sinistra che non può permettersi di rimuovere senso e complessità d’una
    comunque “istruttiva” lezione. 
    (Ideazione Gennaio-Febbraio 2000) |  |