| Congetture
    & confutazioniA SEATTLE,
    TRA STATI E SOCIETA'
 di Giuseppe
    Sacco
    Che l’ambigua rivolta di Seattle abbia segnato un punto di svolta destinato 
    a pesare assai a lungo sull’evoluzione dell’ordine mondiale, è stato 
    rilevato con sconcerto da tutti gli osservatori. Un decennio caratterizzato 
    dall’abbattimento delle frontiere e dalla perdita di potere degli Stati 
    nazionali è parso chiudersi con una brusca battuta d’arresto, con un revival 
    delle aspirazioni alla sovranità dei singoli Stati. Un’altra lettura degli 
    eventi sembra invece possibile. Il decennio si è aperto con il fatidico 
    1989, bicentenario della Rivoluzione francese e funerale di quella russa, e 
    con il crollo della Germania comunista: un accadimento altamente simbolico 
    del riemergere della società nazionale rispetto alle costruzioni statuali. I 
    fattori politici e di potere, che per quarant’anni avevano tenuto in vita 
    due Stati tedeschi, non sono stati più capaci di reggere contro il 
    sentimento collettivo di un popolo. La società tedesca ha riaffermato in 
    maniera prepotente la propria identità ed imposto la riunificazione, 
    spazzando via la divisione postbellica, le esitazioni dell’Eliseo, l’aperta 
    ostilità di Downing Street. Profondamente feriti, gli Stati hanno, dopo di 
    allora, moltiplicato i Trattati, per creare o rafforzare organizzazioni 
    internazionali destinate – nei loro disegni – a controllare e incanalare il 
    processo dirompente attraverso il quale le società si modernizzano, si 
    aprono alla rivoluzione delle telecomunicazioni, si avvicinano e si 
    mescolano.
    
     Lo 
    stesso Wto, che si presenta come lo strumento della globalizzazione, è in 
    fondo un tentativo delle burocrazie tecnico-diplomatiche di addomesticare 
    questo fenomeno. Con la sua regola della decisione per consenso, è il 
    tentativo degli Stati tradizionali di patteggiare tra loro le norme che 
    dovranno regolare la nuova società globale. Il tentativo più visibile, ma 
    non il solo: basta guardare all’Osce, e alla sua patetica ambizione di 
    ingessare nei Balcani un soffocante mosaico etnico, ereditato dall’Impero 
    ottomano, e come quello incompatibile con il mondo contemporaneo. È questo 
    tentativo che è stato sfidato e sconfitto a Seattle, dove la società civile 
    si è riappropriata della questione del sistema mondiale, non solo 
    relativamente alle specializzazioni ed agli scambi, ma in tutte le 
    implicazioni culturali, identitarie e politiche che sono connesse al 
    processo di globalizzazione. Ed ha mostrato di volerne gestire 
    l’organizzazione a modo suo, con priorità, parametri e criteri di 
    valutazione diversi da quelli dei governi e dalle tecnocrazie. Diciamo 
    subito che la variopinta folla che nelle strade di questa città portuale del 
    Pacifico ha dato scacco ai governi costituisce solo un piccolo, e neanche 
    rappresentativo, frammento della società globale. L’ambiguità 
    dell’insurrezione di Seattle sta proprio in questo: nel fatto che i poveri 
    del mondo erano assenti. Anzi, la rivolta era diretta anche contro i più 
    poveri del mondo, e contro l’aspetto più positivo del processo di 
    globalizzazione: quello che, negli ultimi vent’anni, ha permesso di far 
    entrare nel mercato del lavoro quasi due miliardi di uomini che languivano 
    inoccupati ai limiti della morte per fame.
    
     
    Per non parlare di almeno altri due miliardi di esseri umani, che dai 
    benefìci della globalizzazione non sono stati ancora neanche sfiorati. Per i 
    “dannati della terra”, con i salari tra 3 e 7 dollari al giorno offerti 
    dalle aziende che hanno investito nel Terzo Mondo, la globalizzazione ha 
    aperto un’era di lavoro e di benessere che sino a ieri non era neanche 
    possibile sognare. Ma ha anche creato una situazione che li vede in 
    concorrenza con i lavoratori dei paesi ricchi, abituati a guadagnare – per 
    lo stesso lavoro – una media di 25 dollari l’ora. Ed erano questi ultimi a 
    scagliar sassi nelle strade o a sfondare le vetrine dei negozi, e i loro 
    figli, che dovranno ormai accontentarsi di lavoretti nel settore dei servizi 
    per 7 dollari l’ora, cioè solo dieci o venti volte di più degli operai dei 
    paesi poveri. Lo sconcerto creato dal fallimento della Conferenza del Wto 
    deriva da questo carattere di minoranza privilegiata, e timorosa di perdere 
    tali privilegi, di coloro che si sono fatti interpreti della protesta. 
    Deriva dal fatto che la rivendicazione di un governo meno burocratico del 
    processo di globalizzazione è stata condotta da un frammento della società 
    dominante, e non dalle nazioni subalterne, ancora escluse dal trasferimento 
    di capitali e tecnologie. Queste ultime, si noti, partecipano anch’esse alla 
    generale apertura della società mondiale. Solo che vi partecipano 
    affidandosi agli scafisti albanesi come immigrati clandestini, affollando le 
    chiese francesi in cui si rifugiano i sans papiers, o attraversando di notte 
    il confine tra Messico e Stati Uniti. La loro voce, al Wto come nelle strade 
    di Seattle, era assente. Ma la loro pressione è avvertita in tutte le 
    società avanzate, e contribuisce a creare – a livello mondiale – una forte 
    domanda di riappropriazione sociale del processo di globalizzazione. Questa 
    ambigua protesta, che esprime però un’esigenza reale, non basterà – se ne 
    sia certi – a spezzare la dinamica della mondializzazione, che discende da 
    fattori incoercibili come il tumultuoso progresso tecnico-scientifico e 
    l’azzeramento delle distanze, soprattutto di quelle psicologiche. Ad essere 
    sconfitto a Seattle è stata non la globalizzazione, ma il Wto, cioè l’idea 
    che si possa costruire il governo mondiale fuori da ogni controllo della 
    società, con una piramide di Stati organizzata per gerarchia di potenza.
    
     La 
    globalizzazione, per il futuro prevedibile, sembra destinata a proseguire, 
    come processo di crescita integrata delle diverse economie, di mescolamento 
    delle culture, e persino delle razze. Ma si innesterà su due fenomeni ormai 
    evidenti: la continuazione della decadenza degli Stati a vantaggio della 
    società e il manifestarsi, dopo un decennio in cui della globalizzazione 
    sono stati risultati prevalenti i benefìci economici, di alcuni costi, 
    sinora sottostimati e talora insospettati, di tale processo. Perché i costi, 
    gli aspetti negativi, sono innegabili. E se la globalizzazione ha potuto 
    sinora convivere con le tendenze dirigistiche delle burocrazie nazionali, e 
    col loro tentativo di dominare il processo attraverso gli organismi 
    intergovernativi, è solo perché si è trattato della fase “facile” 
    dell’apertura delle società e dei mercati. Quella che inizia ora è però una 
    fase più complessa, in cui i problemi da affrontare sono troppo seri perché 
    sia possibile affidarli a burocrati, diplomatici e funzionari 
    internazionali. Tale fase potrà essere gestita solo dalle società civili, 
    attraverso strumenti ancora in larga parte da inventare, ma che – è facile 
    previsione – comporteranno profonde trasformazioni nei modi di governare la 
    vita associata, nei criteri di aggregazione dei gruppi sociali, e persino 
    nelle caratteristiche in base alle quali siamo abituati a percepire la 
    nostra stessa identità.
    
    
     
    (Ideazione Gennaio-Febbraio 2000) |  |