Feuilleton
INTELLETTUALI?
NO, IRREGOLARI
di Eugenia Roccella

Il conto alla rovescia è finito, il nuovo secolo, e il nuovo millennio, sono ormai semplicemente il nostro presente. Non sentiremo più, per fortuna, l’abusata dizione “fine millennio”, non assisteremo più a frettolosi tentativi editoriali di compilare bilanci, classifiche, valutazioni, emettere giudizi e definizioni, tirare conclusioni sul Novecento. Emana però dal secolo concluso la suggestione di un passato che ci appartiene pienamente (anzi: “che non passa”) e che pure è già inghiottito dall’ombra di una modernità separata dall’oggi, di cui possiamo occuparci con i criteri che sovrintendono alla storia e alla memoria.

Ma si può trattare la contemporaneità come storia, evitando i rischi connessi sia alle semplificazioni e alle forzature interpretative di “fine secolo”, sia a quelle dovute alla peculiarità italiana, per cui il Novecento continua ad essere fonte di legittimazioni e delegittimazioni, campo aperto di lotta politica e scontro ideologico? L’ultimo volume della Storia d’Italia curata da Vittorio Vidotto e Giovanni Sabbatucci per Laterza, ci sembra, in questo senso, un tentativo riuscito; un utile strumento di riflessione in cui convivono in equilibrio la ricca offerta di dati, e ipotesi critiche circostanziate. Nel saggio d’apertura Vittorio Vidotto dà conto, con ampia documentazione, dei grandi mutamenti sociali intervenuti a partire dagli anni ’60, dalla profonda trasformazione del ruolo femminile, e quindi del modello familiare, all’equilibrio città-campagna; dalla crescita dei ceti medi, alla moltiplicazione e stratificazione di consumi e stili di vita. E propone come categoria interpretativa della società italiana di quegli anni, la conflittualità: una conflittualità continuata, generalizzata e radicale che rappresenta un unicum nella geografia occidentale. «Nessun paese europeo conobbe una stagione così insistita e prolungata di conflitti sindacali e non, una così ricca varietà di forme e di livelli di protesta. Nessun paese europeo conobbe un terrorismo politico, di destra e di sinistra, attivo per un periodo così lungo e con un costo di vite umane così elevato. Solo l’Italia conobbe un’area così ampia di indulgenza per le forme di violenza sovversiva e un così lungo consenso, o tolleranza di fatto, per il terrorismo di sinistra...».

Ma questo perenne conflitto corrispondeva effettivamente a gravi tensioni sociali, o fu soltanto “la drammatica messa in scena della rappresentazione di un conflitto ideologico”? Vidotto propende per la seconda ipotesi, ed è interessante la scelta lessicale che indica sottilmente, come carattere essenziale di quel conflitto, l’elemento del palcoscenico: la messa in scena e la rappresentazione. Insomma, forzando la prudenza dello storico, potremmo vedere l’ideologia come canovaccio di azione scenica, living theater; e le piazze d’Italia elette a scenografico sfondo per questa guerra simulata che, come nel miglior teatro nel teatro, ha finito col produrre morti e lutti veri, tragedie fin troppo reali. Alla luce di questo eccesso di ideologia, che antimarxianamente produceva vero scontro sociale, diventa centrale il saggio di Pierluigi Battista, appunto su Cultura e ideologie. Siamo nel cuore di quello che i curatori definiscono, nell’introduzione, “sovrainvestimento ideologico”; sulla mappa ben disegnata dei gruppi, delle tendenze, dei conflitti e delle polemiche, si allunga l’ombra dell’egemonia culturale della sinistra.

La ricostruzione di Battista si apre con un titolo simbolo di quegli anni, Apocalittici e integrati, che segnava il passaggio dell’Italia alla cultura di massa, con tutte le sue conseguenze positive: nuove frizzanti curiosità, libertà immaginativa e creativa, accesso generalizzato alla cultura. Ma anche con la cancellazione dell’Italia provinciale di Guareschi, la destabilizzazione di un “ceto dei colti” chiuso ma di grande livello, il declino della tradizione umanistica. A reagire con un secco rifiuto davanti a questi fenomeni, che immettevano nella postmodernità un paese che non aveva mai veramente digerito il moderno, furono prima di tutto i cattolici e chi si sentiva a suo agio nel carattere elitario della cultura italiana, come il raffinato gruppo del Mondo. Questo rifiuto, nota l’autore, testimoniava una debolezza intrinseca della borghesia colta italiana, che si sentiva minacciata anziché rafforzata da una crescita dei ceti medi e da una democratizzazione del sapere.

Ma dopo la prima ondata di entusiasmi, anche l’atteggiamento della sinistra cominciò lentamente a cambiare. Fu Pasolini, vero profeta di quell’epoca, a dare voce e concetti al disagio che serpeggiava anche tra chi aveva accolto i nuovi fenomeni con innocente euforia. L’establishment culturale della sinistra, che fino ad allora aveva coniugato la propria tradizione di pensiero con tutto il nuovo che premeva alle porte, cominciò a vedere le crepe prodotte nell’assetto “totalizzante” necessario a qualunque vulgata marxista. La complessità, fattore ineliminabile della nuova società, scardinava velocemente le rassicuranti strutture interpretative di un tempo; le care, vecchie classi sociali annegavano in un variegato ceto medio, sommergendo anche l’antropologia dell’Italia delle lucciole.

Da questo momento si spegne, con una lunga agonia, la gloriosa sensazione della sinistra di essere comunque dalla parte del futuro, di appartenere a una storia di speranza e di progresso. Ma se lo slancio vitale va affievolendosi, restano pur sempre le solide ragioni di un potere culturale ormai affermato, ramificato, ben inserito in tutti gli snodi essenziali della comunicazione. La sinistra rispolvera dunque la vetusta categoria dell’impegno, con cui si isolano gli intellettuali meno disposti ad integrarsi in logiche di gruppo e di appartenenza. Battista ricorda il caso di Goffredo Parise e il suo elogio del disimpegno, o la sempre più acuta insofferenza di Montale, chiuso in una nobile marginalità. Ma è su Leonardo Sciascia che la dittatura dell’engagement si incarta e si contraddice, mettendo definitivamente in chiaro che per impegno ha da intendersi una precisa, e ben collocata, connivenza-convivenza, e non soltanto una partecipazione “esemplare” dell’intellettuale alla vita civile. Sciascia è, in Italia, forse l’esempio più classico di scrittore impegnato, che però vive la sua scelta come dovere morale e intellettuale non riconducibile ad altro che alla propria coscienza. Le posizioni prese sul caso Moro, e ancor più quelle successive sull’antimafia, danno luogo a un attacco concentrico di aspra violenza, che isola lo scrittore, ma segna anche la fine di ogni teorizzazione del ruolo sociale dell’intellettuale.

Altrettanto violento è l’attacco allo storico Renzo De Felice, soprattutto in seguito alla pubblicazione della sua Intervista sul fascismo, nel 1975. Si tratta di difendere le antiche frontiere su cui si basano l’accordo tra le forze politiche italiane del dopoguerra e il “mito di fondazione” resistenziale, attraverso una versione militante (impegnata?) del compito dello storico. Ma soprattutto di imporre una visione ontologica del fascismo come male assoluto, prefigurando un nemico eterno, una sorta di inconscio repulsivo che giace nel fondo della storia e lì va lasciato, badando che non torni mai a galla. È evidente che questo costituisce una delegittimazione non storica ma teorica della destra (di qualunque destra) che per quanto rinnovata o ripulita ha alle spalle un fantasma inaccettabile. E costituisce il motivo di quella permanente suscettibilità dell’area di sinistra di fronte alle revisioni storiche, alla categoria del totalitarismo, e ad ogni forma di ripensamento critico delle interpretazioni canoniche del recente passato. Il tabù storico è quello più strenuamente presidiato, perché più direttamente e minacciosamente politico. Ma nel frattempo, nel cordone sanitario steso intorno alla cultura e agli autori considerati di destra (o semplicemente irriducibili alla sinistra) si sono aperte innumerevoli falle, a cui i maître à penser del politicamente corretto reagiscono con tattiche diverse. Si assiste quindi al successo della casa editrice Adelphi, a un diffuso interesse per Nietzsche, pensatori della crisi e scrittori mitteleuropei, ma insieme a ricorrenti levate di scudi contro Céline, Jünger o Heidegger, per non parlare di autori più decisamente consegnati alla destra come Julius Evola.

In genere, dagli anni Ottanta ad oggi, la storia della cultura italiana si può leggere anche come un disperato (ma efficace) tentativo di autodifesa dall’inevitabile caduta di muri, divieti, barriere che la scomparsa delle ideologie e la globalizzazione culturale ha comportato. L’accorato monito di un intellettuale internazionalizzato come Umberto Eco, di fronte alla possibile elezione a Bologna di un sindaco ex macellaio, permette di capire come le categorie di “apocalittici” e “integrati” si possano invertire e sovvertire quando si tratta di tutelare quello che resta di una lunga storia di egemonia. La commistione, teorizzata e difesa in altri campi, si arresta di fronte all’ultimo confine, la distinzione tra destra e sinistra: il confine che consente la delegittimazione dell’altro, additato come pericoloso avversario del bene comune. Eppure, nelle pagine finali del suo saggio, Pierluigi Battista fa un breve elenco degli irregolari della cultura italiana, che colpisce per il livello dei nomi e anche per il numero: Gadda e Montale, Pareyson e Anceschi, Buzzati e Landolfi, Praz e Longhi, Flaiano e Germi, e Ortese, Parise, Piovene, Ceronetti, Sgalambro, Romeo, Ripellino, Pampaloni, Citati.... Troppi, insinua l’autore, per essere solo degli “irregolari”. Ha forse ragione Valerio Riva quando sostiene che l’editoria di sinistra si è finanziata con i libri “di destra”, o almeno con quelli disimpegnati: costruendo una facciata ideologica mantenuta economicamente da altri. Così, nella cultura italiana, la facciata ideologica ha coperto una realtà che, a distanza, appare composta perdipiù da talenti e posizioni non riconducibili ad appartenenze precise, da vicende individuali sfumate nella marginalità atipica, nella solitudine o nell’eccentricità.

Eugenia Roccella


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