Congetture
& confutazioni
IL CENTRO CHE GUARDA
A DESTRA
di Pieluigi Mennitti
Leggere
la transizione italiana alla luce delle transizioni politiche dei paesi
dell’Est europeo appare solo come una delle possibili chiavi di
interpretazione delle vicende dei nostri anni. Eppure è quella che fornisce
molti punti di similitudine anche per comprendere le incertezze e le
difficoltà che ci accompagnano da quando, crollato il sistema consunto
della Prima Repubblica, ci siamo incamminati nel mare aperto del
cambiamento, senza riuscire a intravvedere un punto di approdo. Grande è la
confusione sotto il cielo e difficilmente si avvererà la profezia ulivista
di poter risolvere d’un colpo tutti i nostri problemi partecipando da
protagonisti alla nuova grande avventura europea.
Anzi,
a volgere lo sguardo oltre i nostri confini (esercizio divenuto obbligatorio
in tempi di globalizzazione) ci si accorge che altrove non se la passano
tanto meglio e che la crisi politica ed economica investe molti paesi
dell’euro. La Germania, pur in ripresa sul piano economico, è alle prese
con un governo deludente, tentato dal protezionismo, incalzato a sinistra
dal populismo neocomunista e con un’opposizione paralizzata dagli scandali
sul finanziamento occulto alla Cdu. La Gran Bretagna ha perso il feeling con
Tony Blair mentre i conservatori si lacerano in guerre interne mostrando la
modestia del loro nuovo personale politico. La Spagna si confronta con le
rinnovate minacce del separatismo basco. La Francia galleggia nel
cloroformio jospiniano e assiste alla crisi estenuante del partito
neogollista. Andando oltrecortina (quella della Ue) la Russia sparge le sue
convulsioni in tutte le aree limitrofe raffreddando gli entusiasmi di una
nuova ripresa economica nei paesi dell’Europa centro-orientale. Alcuni di
essi puntano sui rinnovati sforzi di allargamento dell’Unione europea ma
l’avvento dell’euro, mortificato dal confronto con il dollaro, appare un
ancoraggio meno rassicurante di qualche anno fa, oltre a comportare pesanti
sacrifici che rallentano lo sviluppo economico. L’area asiatica si sta
appena riprendendo dalla batosta finanziaria subita un anno fa e l’unica
economia che “tira” resta quella nordamericana al prezzo inevitabile di
un profondo sconvolgimento del mondo del lavoro che l’Europa, dall’alto
delle sue strutture sociali consolidate, rifiuta. Ma anche negli Usa, gli
elettori che a novembre saranno chiamati a votare il nuovo presidente,
osservano sconfortati i volti dei futuri candidati. Sembra quasi che il
passaggio al nuovo millennio si carichi di inquietudini esistenziali, ben
rappresentate dalla Woodstock di Seattle, dove un agglomerato composito di
protestatari planetari ha fatto vivere per qualche giorno al mondo intero
l’incubo (o la speranza) di una ribellione alla globalizzazione nel cuore
della società tecnologica.
In
questo clima, la società italiana vive una sua crisi tutta particolare, che
in parte si ricollega con quella che potremmo definire “di crescita”
dell’Europa occidentale. Ma in gran parte ricalca quella assai più
profonda, potremmo chiamarla “di ristrutturazione” dell’Europa
dell’Est: fine dei monopoli statali, immissione di dosi sempre più
massicce di economia di mercato e di concorrenza nel sistema economico, fine
dei privilegi sociali da un lato; ristrutturazione del sistema istituzionale
verso forme di bipolarismo e semipresidenzialismo e rimescolamento di quello
politico con la marginalizzazione di partiti cardine del vecchio sistema,
l’emergenza di nuovi e la revisione più o meno profonda di vecchi partiti
antisistema. Ci accompagnano alcuni aspetti molto simili a quelli dei paesi
est-europei, come la difficoltà di consolidare coalizioni programmatiche
sul versante del centro-destra e la tortuosa conversione dell’ex partito
comunista verso le forme e i contenuti di una sinistra moderna: il Pci è
approdato alla socialdemocrazia (per di più con il carico pesante della sua
tradizione comunista) nel momento in cui la stessa socialdemocrazia,
depotenziata dalla crisi dello Stato assistenziale, avviava una profonda
revisione. Sono curiosi anche alcuni atteggiamenti comportamentali e di
stile degli ex comunisti italiani: come non comparare le tentazioni new
reach di un D’Alema al timone della sua barca a vela o a tavola nel
costosissimo ristorante dell’onnipresente cuoco Vissani con la frenesia
consumistica dei tanti “nuovi ricchi” russi, anche loro in prevalenza ex
burocrati dell’apparato sovietico?
In
sostanza l’Italia vive un doppio ritardo: quello economico dell’Europa
occidentale nei confronti della locomotiva statunitense e quello politico
dell’Europa orientale nei confronti delle più solide democrazie
dell’Unione europea, di cui fa parte come paese sempre sotto sorveglianza
speciale. Un doppio ritardo simboleggiato, da un lato, dalla perdita di
competitività del suo apparato imprenditoriale e soprattutto
dall’estromissione dai settori avanzati delle nuove tecnologie;
dall’altro, dall’instabilità del sistema politico incapace di condurre
a termine una riforma istituzionale coerente con quanto sollecitato dalla
volontà popolare nella prima metà degli anni Novanta.
Lo
scenario politico che si apre con l’avvio del nuovo anno, presenta una
serie di appuntamenti (congresso dei ds, elezioni regionali, referendum) che
dovrebbero culminare nelle elezioni politiche generali dell’aprile 2001, a
meno che la tormentata esperienza dalemiana non si consumi prima per logorìo,
introducendo nuove variabili. Comunque, a prescindere dalle contingenze
politiche, il centro-destra si predispone ai prossimi appuntamenti forte
della nuova legittimità internazionale conquistata con l’adesione di
Alleanza nazionale al gruppo delle destre europee e, soprattutto, con
l’ingresso di Forza Italia nel Ppe. Quest’ultimo evento, ostacolato sino
all’ultimo dalla ex corrente di sinistra della Dc italiana oggi raccolta
attorno al Ppi, è destinato a consolidare i mutamenti già avvenuti in
questi ultimi anni all’interno del mondo moderato. Sulla scia di quanto
accaduto in Spagna (convergenza delle diverse anime del centro-destra
attorno alla leadership popolare di Aznar) e in Germania (riposizionamento
della Cdu-Csu su linee politiche di ispirazione liberalconservatrice), anche
in Italia il nuovo centro, quello che può contare voti e seggi, si appresta
a rappresentare in maniera stabile gli interessi del ceto medio produttivo.
È un centro depurato da certi estremismi liberisti della prima ora, molto
più attento e consapevole delle ricadute sociali della globalizzazione, non
più vista come feticcio da osannare ma come un’opportunità da governare.
È un centro che guarda a destra, che sente superate le stagioni delle
“grosse coalizioni” con la sinistra, che contribuisce a superare uno dei
ritardi politici dell’Italia rispetto alle democrazie bipolari
dell’Occidente. In più il Polo può vantare la nuova natura del suo
leader Berlusconi che, come ha notato Giuliano Ferrara, è diventato da
outsider a insider della vita politica italiana. E, nella prospettiva di un
ritorno a Palazzo Chigi, sta tessendo la sua tela per realizzare una
compagine di governo che annoveri gli esponenti migliori della politica,
della borghesia imprenditoriale, della cultura. C’è una parte
dell’establishment che non vuol più delegare alla sinistra le sorti del
paese e ritiene di poter direttamente impegnarsi nel governo assumendo in
prima persona la responsabilità di realizzare quelle riforme invano
mercanteggiate con Cofferati e D’Alema. Questa rinnovata occasione per il
Polo si misurerà a breve nella competizione regionale, dove il
centro-destra presenterà per la prima volta agli elettori anche il bilancio
di alcune esperienze amministrative. Una prova di maturità in più per una
coalizione che in sei anni sembra aver finalmente costruito le credenziali
per guidare l’Italia senza complessi d’inferiorità e con competenza.
Pierluigi
Mennitti |

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