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    craxismoIL PRAGMATISMO
    COME FORZA E LIMITE
 di Francesco
    Perfetti
Che
    Bettino Craxi sia stato protagonista di rilievo, oltre che della storia del
    movimento socialista, anche della storia italiana degli anni Ottanta è fuor
    di dubbio. Come contributo alla storia del socialismo italiano, Craxi ha
    liquidato le ricorrenti tentazioni e velleità frontiste del partito e ha
    portato lo stesso al centro del sistema politico, facendogli assumere un
    ruolo ben preciso. Durante il periodo craxiano, infatti, il Partito
    socialista ha operato come argine sulla sinistra nei confronti del Partito
    comunista, svolgendo di fatto una funzione che prima era stata di esclusiva
    competenza della Democrazia cristiana. Al tempo stesso, esso, all’interno
    della coalizione governativa si è posto come un elemento critico e
    dialettico rispetto alla Democrazia cristiana con l’obiettivo di pesare in
    misura così determinante da apparire quasi un comprimario.L’anticomunismo
    di Craxi non si ricollegava direttamente alla tradizione socialdemocratica.
    Più che risultato di una precisa scelta ideologica, esso era frutto
    dell’istintivo pragmatismo di un uomo, che, fin dagli anni della lontana
    militanza giovanile, aveva maturato una profonda ostilità nei confronti
    delle realizzazioni del “socialismo reale”, che aveva avuto occasione di
    conoscere de visu quando era stato inviato a Praga nel quadro dei contatti
    che il vecchio Psi intratteneva con i partiti del Comintern. Che poi questo
    pragmatismo avesse potuto trovare legittimazione teorica nell’opera di un
    gruppo di intellettuali a lui vicini e concretizzazione pratica in un
    progetto politico è ben altro discorso, che non incide sulla sostanza delle
    cose. Il
    pragmatismo è all’origine del successo di Craxi, già nella fase iniziale
    della sua parabola politica, nel turbolento comitato centrale del luglio
    1976 all’hotel Midas di Roma, in un’occasione, cioè, che lo vide
    contrapposto al lombardiano Antonio Giolitti e vincitore di quello scontro
    che gli avrebbe consegnato il partito al termine di un travagliato processo
    di riassestamento e di riequilibrio del giuoco delle correnti interne, di
    cambiamento generazionale della leadership e di emarginazione delle vecchie
    figure carismatiche del socialismo italiano. A quell’epoca, il problema di
    fondo dei socialisti, dopo i deludenti risultati della consultazione
    elettorale del 1975, era quello di evitare che la ventilata e possibile
    intesa fra i democristiani e i comunisti passasse sulla loro testa e finisse
    per relegarli nel ruolo di ruota di scorta della nuova futura alleanza. Il
    disegno politico di Craxi, tutto ispirato da una visione pragmatica della
    lotta politica, era proprio funzionale alla soluzione di quel problema:
    bloccare l’ipotesi del “compromesso storico”, portando i socialisti a
    una collaborazione meno subalterna nei confronti della Democrazia cristiana
    e creando, insieme, le premesse per una specie di guerriglia di logoramento
    nei confronti del Partito comunista. In questa sua strategia c’era ben
    poco – lo si rileva senza alcuna connotazione negativa – di
    teorizzazione ideologica, c’era ben poco della tradizione
    socialdemocratica e riformista, c’era invece l’intenzione di voler
    combattere e vincere una battaglia politica per la conquista del potere e
    per l’ingresso nella “stanza dei bottoni”. Tutte le polemiche condotte
    contro un Partito comunista, presentato come partecipe del comunismo
    internazionale, cui veniva contrapposto un Partito socialista, presentato
    come inserito invece a pieno titolo nel movimento socialista internazionale,
    avevano un carattere, per dir così, strumentale. Come pure strumentale era
    la contrapposizione craxiana di un eurosocialismo, che auspicava la
    creazione di una Europa amica dell’Unione Sovietica e alleata degli Stati
    Uniti, a un eurocomunismo, il quale postulava una Europa che non fosse né
    antisovetica né antiamericana. Il
    carattere pragmatico e strumentale dell’azione politica di Craxi e di
    tutta la generazione di quarantenni rampanti raccolti attorno a lui non
    impedì, tuttavia, che, proprio sul versante ideologico maturasse, quasi per
    una eterogenesi dei fini, una vera e propria svolta, promossa soprattutto da
    un vivace gruppo di intellettuali raccolti intorno alla rivista Mondoperaio,
    che ha rappresentato nella storia della cultura italiana un laboratorio di
    idee e un importante luogo di confronto aperto: proprio su queste pagine
    furono sviluppate le critiche più pertinenti ad Antonio Gramsci e al suo
    concetto di egemonia, nonché quelle alle tesi marxiste sullo Stato e sulla
    democrazia; proprio su queste pagine, insomma, ebbero possibilità di
    prendere forma e corpo la maturazione, o l’uscita di “minorità”, del
    socialismo italiano e il suo rinnovamento ideologico e culturale con una
    progressiva, ma definitiva, acquisizione, come patrimonio irrinunciabile, di
    motivi e idee tipici del mondo liberale ed estranei alla tradizione
    culturale socialista, dei princìpi, insomma, fondamentali della
    liberaldemocrazia dei tempi moderni. Ed è, questo, un lascito di non poco
    conto, e di non poco valore, dell’età craxiana. Ancora
    tattica e pragmatica, strumentale e politica, fu la individuazione della
    formula della “alternativa socialista” – attorno alla quale lavorarono
    studiosi e politici – contrapposta al progetto di “compromesso
    storico”. Lontana dalle suggestioni e tentazioni massimaliste, questa
    “alternativa socialista” – il cui carattere di novità fu, in una
    certa misura, sottolineato dallo stesso cambiamento del simbolo storico del
    partito, sostituito dal garofano – si presentò sotto la specie del
    riformismo, in particolare del riformismo istituzionale, e contribuì ad
    avviare, quanto meno sotto il profilo della discussione teorica, una
    riflessione approfondita sulle caratteristiche, sulle disfunzioni, sui
    limiti del sistema politico italiano e sulle possibilità di intervenire per
    migliorarlo. I discorsi sulla cosiddetta “ingegneria costituzionale” –
    indipendentemente dalle ipotesi prospettate o dalla concreta fattibilità
    dei percorsi riformatori suggeriti – contribuirono a far acquisire a
    larghi strati della società italiana la convinzione della possibilità di
    interventi decisivi capaci di incidere in qualche modo sul sistema politico.
    Che, all’epoca, quei discorsi non riuscissero ad essere tradotti – non
    soltanto nelle ipotesi massime, come quella del presidenzialismo, ma neppure
    nelle minime, come quella della riforma dei meccanismi elettorali – in
    realtà è altra questione legata alla vischiosità dei sistemi politici e
    alla loro naturale tendenza all’autodifesa. O forse anche al fatto che lo
    stesso Craxi, essendo alla fin fine anch’egli un figlio del sistema, non
    ebbe la forza o la volontà di rischiare la destabilizzazione di uno stato
    di cose che egli sentiva, o riteneva, di padroneggiare. Autoritario
    e decisionista con una punta di arroganza che lo tenne sempre malgrado i più
    o meno interessati consensi lontano dalla società civile, Bettino Craxi,
    – sulla cui sopravvivenza politica ben pochi politici avevano scommesso
    – supportò il progetto dello scardinamento del “compromesso storico”
    e della creazione di un ruolo centrale per il Partito socialista con un
    rinnovamento organizzativo, profondo e radicale, del partito stesso. Tale
    rinnovamento fu spinto fino al punto da determinare un ricambio di personale
    politico, tanto negli organi direttivi locali e centrali quanto nelle stesse
    rappresentanze socialiste in seno alle amministrazioni locali, quale non si
    era mai visto prima. Così facendo, Craxi non soltanto riuscì a ottenere il
    controllo completo sul partito, ma finì per dar vita, dal punto di vista
    organizzativo, a un nuovo modello di partito politico nel quale finivano per
    convivere il rapporto di tipo carismatico fra il leader e la base, da una
    parte, e la tradizionale struttura correntizia, da un’altra parte. Nel
    congresso dell’aprile 1981 Craxi – grazie non solo all’alleanza con De
    Michelis, destinata a soppiantare il sodalizio con Signorile, ma grazie
    anche al meccanismo di elezione diretta – ottenne un successo personale
    che non era stato mai raggiunto da nessun altro leader socialista. Egli poté,
    in breve tempo, avviare, così, quella personalizzazione della gestione
    della vita del partito, che di lì a qualche anno, sarebbe stata travasata
    nella guida del governo. L’affermazione della sua leadership all’interno
    del partito venne gradualmente consolidata nel ricambio rapidissimo e totale
    della classe dirigente di quest’ultimo con modalità che rendevano
    funzionale il ricambio stesso alle esigenze di consenso e fedeltà alla
    leadership. I
    governi guidati da Craxi non furono, affatto, una riedizione del
    centro-sinistra allargato ai liberali: furono qualcosa di diverso, furono il
    cosiddetto pentapartito. E, mai, definizione politica risultò più
    appropriata, dal momento che i partner della coalizione governativa
    operarono sempre, fino all’esasperazione, come soggetti singoli, come
    partiti, appunto, impegnati in una competizione per far valere il proprio
    primato e le proprie ragioni all’interno dell’alleanza. Ciò nonostante,
    questi governi lasciarono un segno profondo nella storia del paese, non solo
    per la durata, ma anche per il modus operandi che si sviluppò all’ombra
    del decisionismo del premier. Furono governi che videro la proliferazione
    della prassi della decretazione d’urgenza adottata come manifestazione
    proprio di volontà decisoria, ma che in realtà ne rivelavano i limiti
    proprio in questo campo. Furono governi che videro la ripresa
    dell’economia e dei consumi sia pure in un contesto di favorevole
    andamento economico internazionale e di ridotta conflittualità sindacale
    interna, che portarono alla revisione del Concordato, che fecero registrare
    un vero e proprio sussulto di orgoglio nazionale in occasione
    dell’incidente di Sigonella, che sostennero la liberalizzazione
    dell’etere. Il
    periodo craxiano, con tutte le sue luci e le sue ombre, è rimasto, a torto
    o a ragione poco importa, nell’immaginario collettivo come un periodo nel
    quale un nuovo stile politico aveva messo in soffitta i valori della moralità
    pubblica e privata in nome del successo personale e dell’edonismo più
    sfrenato e in cui la managerialità si confondeva con la disinvoltura
    finanziaria. Craxi si è di fatto identificato con il sistema con il
    risultato che, al momento del crollo di questo sistema, la sua figura è
    stata non soltanto travolta, ma è diventata il capro espiatorio della
    volontà di rinnovamento e di riscatto. Con il tempo, probabilmente, la
    storia non potrà ignorare, in una valutazione spassionata, le doti
    politiche di Craxi né, tanto meno, il ruolo da lui svolto per il
    traghettamento della tradizione del socialismo italiano verso i lidi della
    liberaldemocrazia nonché per l’operazione di blocco della corsa dei
    comunisti verso il potere. Il che non è davvero poco. 
    (Ideazione Gennaio-Febbraio 2000) |  |