| Affari esteri.
    Stati Uniti 2000, tutti i segreti del PresidenteGOD BLESS AMERICA
 di Alberto
    Pasolini Zanelli
La
    campagna che manderà alla Casa Bianca colui che con inevitabile enfasi
    viene definito “il primo presidente del Duemila” è forse fra le poche
    cose davvero diverse rispetto al secolo appena consumato. Nella sostanza:
    perché, per quel che si può prevedere oggi, il successore di Bill Clinton,
    chiunque egli sia, non potrà né continuare a “clintoneggiare”, né
    riallacciarsi al ruolo della “presidenza imperiale” che era fiorita da
    Roosevelt a Reagan, né ridimensionarsi tranquillamente alle mansioni dei
    presidenti del XIX e dell’inizio del XX secolo, che erano poco più che
    notai delle decisioni del Congresso. E nella forma, perché (ed è
    sfortunato che ciò accada proprio nel momento in cui sarebbe necessario,
    mentre si elegge un nuovo inquilino della Casa Bianca ripensarne anche le
    funzioni) la campagna elettorale Duemila sarà diversa dalle altre in
    maniera davvero rivoluzionaria. Come l’abbiamo conosciuta noi, e già
    nella sua unicità, la corsa per la Casa Bianca meritava il paragone,
    avanzato così spesso, con una maratona. Si cominciavano a contare i suoi
    chilometri sulle pianure gelate dell’Iowa in gennaio e fra le montagne
    innevate del New Hampshire in febbraio: due piccoli Stati dove i candidati
    sperimentavano ciascuno il proprio messaggio all’apertura della contesa
    delle “primarie”. Poi la campagna maturava in marzo al sole della
    Florida, il primo fra i megastati a nominare delegati alle Convenzioni
    democratica e repubblicana. Poi, già assottigliati, i due plotoni delle
    corse parallele si calavano nella realtà metropolitana di New York, di
    Chicago, della Pennsylvania, prima di emergere in una volata finale e
    nell’orgia mediatica della California. A quel punto, ma solo a quel punto,
    i giochi erano fatti e le Convenzioni, cioè i congressi dei due partiti,
    nominavano fra luglio e agosto i candidati alla Casa Bianca e la corsa
    ricominciava fino a novembre. Ma già negli ultimi quattro-otto anni è
    stato sempre meno così e il 2000 inaugurerà appieno le nuove “tecnologie
    elettive”. La maratona, questa volta, sembra destinata a condensarsi in
    uno sprint e, invece di attendere le messi dell’estate, la scelta fra gli
    aspiranti alla presidenza sarà quasi sicuramente già compiuta a metà
    marzo. Non solo il numero delle “primarie” viene così drasticamente
    ridotto, ma anche il ruolo di questa peculiare, esemplare e inimitabile
    istituzione (che qualcuno si illude di poter trapiantare in Europa proprio
    adesso che muore nella sua terra d’origine): perché per partecipare allo
    sprint di precoce primavera i candidati debbono aver raccolto, entro
    quest’anno, i fondi necessari. Ci sono riusciti in pochissimi e la
    graduatoria dei dollari contribuiti prefigura già e rischia di determinare
    il verdetto degli elettori. L’hanno capita, o sono stati costretti a
    capirla, candidati numerosi e qualificati, che hanno già gettato la spugna:
    dall’ex vicepresidente Dan Quayle a Elizabeth Dole ad almeno quattro
    senatori del solo Partito repubblicano. In una campagna elettorale americana
    non vale lo slogan decubertiano che è già del resto appassito nelle
    Olimpiadi: partecipare senza una concreta possibilità di vincere non è
    divertente ed è soprattutto uno spreco di tempo e di denaro. Di conseguenza
    rimangono in campo, a voler essere generosi, una mezza dozzina di nomi,
    selezionati dai guru e dai mecenati prima che un solo elettore abbia avuto
    l’occasione di esprimere la propria preferenza. Quattro concorrenti
    “seri”: in campo democratico il vicepresidente Albert Gore e l’ex
    senatore Bill Bradley, in quello repubblicano il governatore del Texas
    George Bush jr e il senatore dell’Arizona John McCaine. Più,
    teoricamente, il repubblicano Forbes e, nella piccola fiera delle curiosità,
    i coloriti esponenti del “terzo partito” da Ross Perot al campione di
    lotta Jesse Ventura, dal candidato dell’estrema destra Pat Buchanan
    all’ultrasinistra di Warren Beatty, al magnate dell’edilizia Donald
    Trump.
    
    
    
     Ma una
    cosa è, per cominciare, certa: nessun aspirante, forte o debole, tuttora in
    gara o già ritirato, si presenta come erede di Clinton, un presidente sotto
    la cui amministrazione l’America ha attinto grossi risultati (in genere
    non per suo merito) e che, soprattutto per questo, gli ha perdonato fino ad
    oggi tutto, dalle scappatelle amorose alle clamorose bugie, avvolgendolo in
    un mantello invisibile di teflon. Ma ne sono anche sazi e si delinea ora una
    reazione di rigetto dei cittadini americani, che non accusano Bill e non lo
    difendono ma semplicemente non ne vogliono più sentir parlare. È così che
    Gore, “vice” finora fedele al punto da apparire un clone, è costretto a
    cercarsi una sua strada e un suo elettorato, perché quello di Clinton non
    si trasmette. E in questa fase egli ha mostrato tutte le sue debolezze, le
    fragilità di chi per la prima volta deve pedalare con il vento in faccia
    abituato com’è a stare nella scia. Il vantaggio che la vicepresidenza gli
    concede è grande nelle strutture di partito e l’abbreviamento dei tempi
    lo avvantaggia in modo fortemente decisivo: a Gore basta resistere fino a
    metà marzo, mentre gli sarebbe quasi impossibile continuare a combattere
    fino all’estate avanzata. Nel Partito democratico egli ha un solo
    avversario, quel Bradley che è emerso da un apparente ritiro dalla vita
    politica e dalle tentazioni di fondare un “terzo partito” o di aderire a
    quello già esistente. Tornato in campo, egli ha scelto non solo la vecchia
    casa di appartenenza, ma anche il suo messaggio tradizionale, “liberale”
    quasi senza “ma” rivolto a un elettorato un po’ arcaico ma minoritario
    e fedele. Quello che Bradley vorrebbe far risorgere è il Partito
    democratico di Cuomo e di Humprey e di Roosevelt, distinguendosi sia dai
    “moderati” sia dai “sessantottini”. Clinton è stato una
    commistione, improbabile ma abile, fra queste due ultime figure. Il campo
    avverso, cioè il Partito repubblicano, è a sua volta in crisi e ciò
    nonostante sembra partire favorito nella corsa alla Casa Bianca. Questa
    previsione contraddittoria si basa su dati altrettanto contrastanti ma
    reali. Nelle elezioni per il Congresso del novembre scorso i repubblicani
    hanno a un tempo vinto e perso. Hanno ottenuto la maggioranza assoluta dei
    voti e dei seggi alla Camera, continuano a controllare il Senato, ad avere
    un numero di governatori quasi doppio dei democratici e a controllare tutti
    i grandi Stati tranne la California e dunque la vita quotidiana di sette
    americani su dieci. Però sono usciti sconfitti da una “mano” di poker
    in cui si sono lasciati trascinare senza una vera necessità e contro i loro
    interessi: quella della “crociata” contro Clinton per il caso Monica.
    Una scorciatoia che si è rivelata un vicolo senza uscita. Invece di
    sventolare il vessillo del moderno conservatorismo in faccia alle divise
    falangi democratiche, invece di continuare a offrire agli americani “più
    libertà” i repubblicani hanno acconsentito, contro i loro migliori
    istinti, di diventare per qualche mese il “partito delle procure” e
    dello scandalismo. Non vale neppure la giustificazione che volessero
    vendicare Nixon: il “parricidio” del Watergate è di un quarto di secolo
    fa. Così hanno perso pochi voti ma un bel po’ di credibilità e,
    soprattutto, tempo. E adesso sarebbero davvero nei guai se la buona sorte e
    il paradossale “principio dinastico” che ha spesso regolato le scelte
    del Partito repubblicano, non avessero provveduto a trovargli un candidato
    alla Casa Bianca se non buono per tutte le stagioni almeno adatto a questa
    modesta stagione politica. È George Bush jr, il figlio dell’ex presidente
    e governatore del Texas, carica cui è stato rieletto plebiscitariamente.
    Stato importante e soprattutto Stato conservatore. George Bush senior ne era
    stato rappresentante politico, prima di salire alla Casa Bianca nella scia
    di Reagan, ma non l’aveva mai veramente rappresentato. Egli veniva
    dall’“aristocratica” Nuova Inghilterra, dalle tradizioni politiche
    “moderate” e non era mai riuscito a diventare un vero texano. Gli
    mancava, fra l’altro, il gusto per il “gesto”; anche se ha tentato di
    trovarlo addirittura da pensionato, quando si è coraggiosamente gettato col
    paracadute a settanta anni suonati. Il “ragazzo”, invece, nel Texas c’è
    cresciuto, ci ha fatto le sue esperienze e vi ha trovato una formula giusta.
    Egli si definisce un “conservatore capace di compassione” e così è
    riuscito a conquistarsi le simpatie di qualche minoranza etnico-linguistica,
    come i numerosissimi americani di origine “latina”, che avevano qualche
    sospetto. Ma la sua vera conquista è consistita nel ritrovare
    l’espressione più importante per la destra americana: il sorriso,
    l’ottimismo. Finché i conservatori propugnano un “ritorno ai valori
    passati”, mostrando così di avere paura dell’avvenire, e proponendo
    programmi stoici – se non “punitivi” – nei bilanci dello Stato e nel
    rigorismo moralistico verso le persone, essi possono spaventare o comunque
    respingono. La loro “grinta” non attrae abbastanza. Quando invece
    mostrano di abbandonare i princìpi per abbracciare un certo pragmatismo,
    rischiano allora di essere battuti su questo terreno dai democratici, che
    nel compromesso e nella disinvoltura non hanno mai rivali. Insomma la
    sinistra può, forse deve essere piagnona, invece la destra deve
    sottolineare, ma credendoci davvero, cuore, sorriso e fiducia
    nell’avvenire. A Reagan tutto questo veniva naturale, spontaneo. Egli si
    costruì una “coalizione” che diventò una famiglia mettendo insieme gli
    uomini della guerra fredda, quelli della destra religiosa, i libertari: ma
    tutto attorno a un programma di rivoluzione nell’economia che fu la spina
    dorsale del suo progetto politico. Questa coalizione si è inevitabilmente
    logorata col tempo e con la scomparsa di alcuni pericoli più evidenti, a
    cominciare dall’Unione Sovietica. Si tratta dunque di ricostruirla, non
    copiandola ma aggiornandola e, quello che più conta oggi, una giusta
    collocazione di partenza. Bush jr ce l’ha: egli sta all’incrocio
    strategico del Partito repubblicano, a mezza via tra il suo centro e la sua
    destra, dunque a metà strada fra il padre, moderato e grand commis de l’état
    ma povero di visioni ideologiche, e il “nonno” autore del
    “miracolo”, e ha già dato prova di sapersi muovere in questa
    costellazione e di controllarla. Ha dimostrato nel Texas, e finora nei
    sondaggi, che la formula vincente per i repubblicani può consistere in una
    moralità tradizionale che non sia moralismo e in un’ideologia che si
    muova verso il centro, ma partendo dalla destra, perché non ne ha bisogno.
    Promette invece di battersi per consolidare quella finora vincente. 
    (Ideazione Gennaio-Febbraio 2000) |  |