Rileggere il craxismo
DECISIONISTA A META'
di Piero Melograni

Bettino Craxi, segretario del Partito socialista italiano dal 1976 al 1993 e presidente del Consiglio dei ministri tra l’83 e l’87, cercò di spezzare il sistema consociativo sul quale si reggeva la politica italiana, ma non ebbe successo. Fu ostacolato dal clima culturale e politico del paese, dai legami esistenti tra il Partito comunista e la Democrazia cristiana, dalla situazione internazionale, dalle debolezze storiche del Partito socialista e dai suoi stessi difetti, benché questi fossero accompagnati da qualità innegabili. Gli anni 1976-93, d’altra parte, furono anni difficili, contrassegnati da un’ondata terroristica senza precedenti, da stragi, dal sequestro e dall’uccisione di Aldo Moro, da scandali come quelli della Lockheed o della loggia P2, dall’estendersi della criminalità organizzata e, ovviamente, dalle sempre presenti difficoltà economiche. La campagna giudiziaria di Mani Pulite, iniziata dalla magistratura nel 1992, creò problemi inquietanti a tutta la classe politica ma in particolare a Craxi, che funse da capro espiatorio.In un libro pubblicato nel 1977, un anno dopo la sua elezione alla segreteria del Psi, Craxi individuava nel legame esistente tra la Dc e il Pci, un grave ostacolo alla affermazione socialista. Ci sono settori della Dc, scriveva, «i quali puntano ormai dichiaratamente a un rapporto diretto con il Partito comunista, negando, in modo anche insolente, ogni e qualunque ruolo e funzione del Psi». Craxi voleva invece far sì che il suo partito operasse come elemento sovvertitore nei confronti di tale rapporto. Non per caso sulla copertina del libro pubblicato nel 1977, sotto al titolo Costruire il futuro, campeggiava questo sottotitolo programmatico: come uscire dalla crisi italiana?

Questa l’alternativa socialista al capitalismo parassitario e al comunismo burocratico. Erano tempi in cui risultava difficile a tanti, e soprattutto ai socialisti, prendere di mira il comunismo, sia pure aggiungendovi il qualificativo “burocratico”. Ma Craxi lo fece. E’ vero che anche il Psi manteneva rapporti diretti e molto significativi con il Pci, grazie ad antiche tradizioni ed alleanze. Questi rapporti risultavano essere particolarmente rilevanti nelle amministrazioni locali, ma anche in esse il leader socialista avrebbe preferito imporre una svolta. Psi e Pci governavano insieme in molti comuni e in molte regioni, ma in questo campo, osservò il leader del Psi, «non crescono solo fiori. Si sono manifestati e si manifestano contrasti di impostazione e di gestione. Vi è un permanente rifiuto e quindi una reazione del Partito socialista nei confronti di ogni espressione di natura egemonica che nasce e può sempre nascere dal fondo più dogmatico del partito più forte, tentato qualche volta di stare sempre al centro di un sistema stellare di relazioni». Il sistema stellare doveva insomma essere vanificato. Craxi mirava di certo a una crescita del consenso elettorale e avrebbe voluto conquistare voti sia tra quanti votavano democristiano, sia tra quanti votavano comunista. «Noi – scrisse con ingenua fede – abbiamo alcuni vantaggi di partenza che non abbiamo mai valorizzato per definirci meglio come un partito laico anche per i cattolici che stanno a sinistra». E poi aggiunse, riferendosi anche al variegato schieramento dei partiti e dei movimenti che si richiamavano alla classe operaia: «Noi insisteremo per fare del Psi un nuovo polo di riferimento, di attrazione e di aggregazione a sinistra».

Non si può escludere che, in anni successivi al 1977, Craxi accantonasse gli sforzi diretti a conquistare un ampio consenso. Luciano Cafagna, per esempio, ha sostenuto che a un certo momento, dopo aver constatato il successo del suo potere di coalizione, Craxi, forse, arrivò addirittura a temere una crescita del consenso «per gli indesiderati obblighi che potevano derivarne, non ultimo quello di essere sfidato a una esplicita politica mitterandiana verso i comunisti, che avrebbe comunque implicato paradossalmente un accrescimento della possibilità di influenza e controllo di questi ultimi se avessero deciso di appoggiarlo». Ma questa rinunzia a conquistare voti, se vi fu, si collocò in anni successivi al 1977 quando Craxi era costretto a registrare, nonostante tutto, un sostanziale esaurimento del suo programma innovatore. E, del resto, l’ipotesi che un partito politico non desideri accrescere il suo consenso, già da sola offrirebbe il destro per segnalare l’esistenza di una contraddizione profonda, se non di una malattia mortale.

L’immagine di Craxi è quella di un leader decisionista. Ma la nostra impressione è un po’ diversa. Craxi “apparve” decisionista perché fu confrontato con gli altri leader politici della Prima Repubblica tanto spesso temporeggiatori, dubbiosi e dediti al compromesso fino alla patologia. In realtà anche lui non riuscì a fare le scelte che sarebbero state indispensabili per uscire dal pantano. Ci riferiamo, per essere precisi, alle scelte indispensabili in tema di economia. E’ vero che ebbe l’ardire di contrapporsi ai comunisti e a gran parte del mondo sindacale quando tagliò tre punti della scala mobile nel febbraio 1984, e quando si batté con successo contro quanti (Pci, Msi e la maggioranza della Cgil) avrebbero voluto abrogare questo taglio con il referendum del giugno 1985. Tuttavia il segretario del Psi non riuscì mai denunciare con forza tutte le illusioni e le utopie che in tema di economia circolavano a sinistra, anche all’interno del suo stesso partito. Craxi si richiamava alla tradizione socialdemocratica di Filippo Turati, ma non trovò mai il coraggio, non diciamo di proclamare che il socialismo era una dottrina arcaica e fallimentare (proclamazione che in quegli anni sarebbe stata giudicata folle dalla sinistra italiana), ma neppure di far fare al suo partito un bagno socialdemocratico simile a quello che i suoi compagni tedeschi avevano fatto a Bad Godesberg nel 1959. Se ne possono trovare le scusanti nel clima politico-culturale dell’Italia di allora. Nelle elezioni generali tenutesi fra il 1976 e il 1985, il Partito comunista e le liste collocate alla sua sinistra raccolsero sempre qualcosa di più del 30 per cento dei voti. Alle elezioni europee del 1984, il Pci scavalcò la Dc, diventando, col 33,3 per cento, il primo partito. In quegli anni, nonostante Berlinguer e il compromesso storico, larghissima parte degli elettori di sinistra ritenevano che l’obiettivo strategico restasse ancora quello della rivoluzione. Insistevano nel sostenere la “centralità” della classe operaia. Giudicavano diabolici il profitto e le multinazionali. Scorgevano la via del riscatto nella fine del sistema capitalistico. Ritenevano che il capitalismo fosse causa di un impoverimento progressivo delle masse e, nello stesso tempo, bollavano sprezzantemente i nuovi consumi di massa come consumismo degenerato. L’economia era una scienza negletta, tanto vero che, nel sistema economico nazionale, i salari potevano essere ancora considerati una variabile indipendente. Nel 1978, allorché il segretario della Cgil, Luciano Lama, si permise di sostenere il contrario, sollevò critiche aspre da parte di molti esponenti della Cisl, della Uil, nonché da parte del segretario aggiunto della stessa Cgil, Agostino Marianetti che, guarda caso, apparteneva al Partito socialista. L’ignoranza in tema di economia e i pregiudizi anticapitalistici riguardavano il Pci, larga parte degli ambienti cattolici e i socialisti. Probabilmente lo stesso segretario del Partito socialista era solo parzialmente consapevole delle grandiose novità del mondo tecnologico. Certamente non decise mai di svelare ai suoi elettori reali e potenziali che la crescita materiale degli ultimi decenni era dovuta al fatto che l’Italia apparteneva al sistema capitalistico occidentale, e che la classe politica avrebbe dovuto superare i ritardi culturali derivanti da ideologie falsamente progressiste. Insomma, per compiere quell’opera di modernizzazione alla quale dichiarava di aspirare, Craxi avrebbe dovuto criticare con coraggio il socialismo, e quindi mettere in discussione l’ideologia sulla quale poggiava il suo partito e sulla quale avrebbero potuto poggiarsi le sue speranze di catturare consenso nell’elettorato della sinistra comunista e cattolica. In certo qual modo egli avrebbe dovuto compiere quell’opera di revisione culturale, e perfino storiografica, che gli stessi dirigenti ex comunisti del Pds-Ds non sono riusciti ancora oggi (1999) a compiere fino in fondo, condizionati – come essi sono – dal loro passato e dal loro presente, vale a dire dal timore di mettersi troppo in urto con una parte consistente della base elettorale.

Nella prima metà degli anni Ottanta, quando fu presidente del Consiglio dei ministri, Craxi poteva ritenere di avere davanti a sé abbastanza tempo prima di decidere. La presenza di una potente Unione Sovietica e la divisione dell’Europa in sfere di influenza avevano bloccato il sistema politico italiano, nel quale si presentava “l’anomalia” di un Partito comunista fortissimo e nello stesso tempo impossibilitato a governare. Quasi nessuno presagiva un così rapido crollo del muro di Berlino, dell’impero sovietico, dell’ideologia comunista. Craxi, insomma, temporeggiava, si muoveva per piccoli passi e, peggio ancora, credeva di rafforzare il suo partito facendogli conquistare potere negli enti pubblici e nella contrattazione degli appalti. Già dal 1977, in quel libro che abbiamo citato all’inizio di questo scritto (Costruire il futuro), Craxi aveva disegnato un programma non esente da rischi affermando che i socialisti dovevano «con vigore e con convinzione porre l’autofinanziamento al centro della lotta per il rinnovamento del Partito». E aggiungeva: «Occorre ottenere la mobilitazione di tutte le risorse interne per assicurare il finanziamento della stampa e della editoria socialista, la qualificazione e la formazione dei quadri; per assicurare le sedi e le attrezzature al partito e alle altre strutture che fiancheggiano ed agevolano l’azione dei socialisti. Sbaglia chi ritiene che queste questioni siano marginali. Aver sottovalutato l’importanza politica dei problemi amministrativi è stato errore grave. […] Dobbiamo fare presto e bene per assicurarci forza e consistenza nella più rigorosa indipendenza e autonomia». Per il solo Avanti!, il quotidiano che aveva conosciuto antiche glorie, si registrava un disavanzo superiore ai quattro miliardi. Craxi suggeriva di istituire una anagrafe patrimoniale dei dirigenti del partito e dei compagni che lo rappresentavano all’esterno, dato che fin da allora circolavano voci denigratorie. Ma si sa come queste cautele possano andare a finire. Prevalsero i bisogni. E così, come abbiamo accennato all’inizio, proprio il Partito socialista, e Craxi per esso, divenne il principale bersaglio di Tangentopoli.

La storia è troppo nota perché meriti qui di essere ancora una volta narrata. Piuttosto resta da capire perché Craxi funzionò da capro espiatorio nella campagna contro la corruzione. E’ infatti ancora da accertare se il Partito socialista fosse davvero il più corrotto tra i partiti italiani e, in caso affermativo, anche questo primato non ci sembrerebbe sufficiente a spiegare il livore e l’accanimento che si diressero verso il suo leader. Fra l’altro Bettino Craxi pronunciò alla Camera, il 29 aprile 1993, l’unico discorso argomentato, serio e perfino nobile sulla corruzione politica. Il fatto è che Craxi, nel corso degli anni, aveva attirato su di sé l’avversione di moltissimi ambienti. Nel 1976 poteva dichiarare: «Io sono un a-comunista viscerale, ma non per questo mi getterei tra le braccia della Dc», e in tal modo rendeva esplicito il suo ruolo di disturbatore nei confronti di tutti. Dalla seconda guerra mondiale in poi, il Partito socialista era stato sempre accompagnato da un complesso di inferiorità verso il Partito comunista, ma con Craxi questo complesso si spegneva e, nel 1986, lo stesso segretario del Psi arrivava a precisare: «Noi non siamo un residuato storico né un’appendice nervosa del Pci». Si può capire quindi come il Partito comunista, che aveva a lungo goduto della propria superiorità, si adontasse nel vedere che il partito inferiore era guidato da un ribelle. Non basta. Il personaggio Craxi poteva apparire arrogante e autoritario. Di certo un disegnatore famoso come Giorgio Forattini lo ritraeva con gli stivaloni, la camicia nera, il fez e magari il manganello sulle pagine del quotidiano la Repubblica. Il pubblico di quel giornale, in larga parte coincidente col popolo comunista, interpretò quei ritratti senza molta ironia e senza alcuna simpatia. Il Pci, alquanto potente tra gli intellettuali, nella stampa, nel cinema, nelle case editrici, nelle università e perfino in molti salotti o in molte terrazze, era in grado di legittimare e delegittimare con un ampio grado di discrezione. Craxi, che non era disposto né a piegarsi, né a subire il primato di quel partito, non venne mai completamente accettato e, con Tangentopoli, fu anzi chiamato al rendiconto finale.

Piero Melograni


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