Congetture
& confutazioni
NEL SEGNO DEL GIUBILEO
di Vittorio Mathieu
Exultate,
jubilate: a questa esortazione del salmista (più volte messa in musica) è
improbabile che i romani diano ascolto in occasione del Giubileo
bimillenario che si sta aprendo. È più probabile – se ricordano che la
consuetudine di far capo a Roma per queste ricorrenze è dovuta a Bonifacio
VIII – che coprano la memoria di quel pontefice con improperi quasi
altrettanto feroci quanto quelli di Dante. Agli ebrei il Giubileo (parola
che in origine significava “suono di corno”) era reso gioioso dalla
remissione dei debiti e dalla liberazione degli schiavi. Ma oggi liberazione
e remissione son divenute simboliche, e ai romani il Giubileo non promette
neppure un particolare afflusso di moneta pregiata, meno abbondante presso i
pellegrini che presso gli orientali non cristiani. Ciò che, non solo
promette, ma assicura, è la paralisi del traffico. Sarebbe stata
un’occasione di lavori socialmente utili (in primo luogo un completamento
della metropolitana), ma gli stanziamenti si son perduti in opere di
belletto o in lavori incompiuti.
Che il
sottosuolo di Roma non permetta di dare al traffico le necessarie tre
dimensioni in luogo di due, è una favola che sento ripetere da più di
cinquant’anni, ed è il contrario della verità. Posto (e non concesso)
che la topografia di Roma antica debba essere oggetto di conservazione e non
solo di studio, nei lavori del sottosuolo archeologia e trasporti dovrebbero
collaborare anziché elidersi a vicenda. Quei sondaggi che la sovrintendenza
non ha i mezzi (e forse neppure la voglia) di tentare dovrebbero passare
attraverso le aziende municipalizzate. Appena si scopre qualcosa (che
altrimenti non verrebbe mai alla luce) archeologi e ingegneri studieranno il
modo di mettere in valore i reperti e di renderli accessibili nell’atto
stesso di progettare nuove vie di comunicazione. Qualcosa del genere si è
fatto a Perugia.
Tutt’altro
il senso vero del Giubileo. Per trovarlo occorre risalire ben più in là
che a Bonifacio VIII, e a un fenomeno molto più importante che una vendita
di indulgenze a prezzi di liquidazione. Giovanni Paolo II sta raccogliendo
tutte le sue forze per insegnarcelo, perché vuol concludere così il
millennio e, insieme, la sua formidabile carriera di “pellegrino
apostolico” (altro che il viaggio di Pio VI a Vienna). Si tratterebbe di
ripercorrere l’itinerario di Abramo, cioè del patriarca a cui si rifanno
le tre religioni del libro. Sia o no il racconto la trasfigurazione di un
fatto storico, risulta che Abramo mosse da Ur, una città dei Caldei
attualmente nel sud dell’Irak, per arrivare in Terra Santa. Era un nomade,
cioè un pellegrino senza una meta determinata in questo mondo. Ma in forza
di una “alleanza” con l’Altissimo stabilì questa meta a Gerusalemme,
che divenne il centro del mondo (in senso anche geografico per i medievali).
Il pellegrinaggio originario, perciò, non è a Roma, ma a Gerusalemme.
La
cosa, però, è più complicata, perché in Palestina Abramo, prima di avere
Isacco da Sara (con mirabile longevità sessuale), ebbe Ismaele da Agar. E i
musulmani, che si rifanno a Ismaele come gli ebrei a Isacco, vantano una
loro primogenitura nel ritrovare l’autentica fede di Abramo. Agar era bensì
una schiava, ma le nozze la fecero libera, e il matrimonio islamico risente
di questa tradizione. Ora il cammino da Ur a Gerusalemme – progetto che
Giovanni Paolo II accarezza da tempo – deve fare i conti con la situazione
del Medioriente, dove Gerusalemme, centro del mondo, ha tre significati
diversi per le tre religioni del libro. È possibile conciliarli?
L’agnosticismo se la cava con la parabola dei tre anelli, raccontata in
Boccaccio da Melchisedech giudeo al Saladino e ripetuta da Lessing in Nathan
der Weise. Ma dire che uno dei tre anelli è quello buono, però non si sa
quale, è un cavarsela troppo a buon mercato. Se mi è permesso un commento
personale su un problema così difficile, direi che l’oro dell’anello di
Maometto non resiste a un’analisi attenta. E non solo per quanto udii
osservare da un diplomatico israeliano: che Gerusalemme non è mai stata
capitale di uno Stato non ebraico, se non nel breve periodo del regno
crociato. La Chiesa cattolica, in alcuni suoi personaggi, ha cercato a volte
di dimenticarlo, o per paura, o per prudenza, o con la speranza di trovare
nell’Islam un alleato nella fede. Ma Giovanni Paolo II, pur con tutto il
suo ecumenismo, sta cercando di renderla più cauta, molto più cauta. Forse
anche per questo il pellegrino apostolico incontra tante difficoltà.
Vittorio
Mathieu
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