Il
postsindacalismo
LA METAMORFOSI SINDACALE
di Vittorio
Macioce
Alberto
Orioli, sul Sole 24 ore del 29 novembre 1999, ha raccontato con un veloce
viaggio a ritroso la metamorfosi del sindacato. Ha fatto apparire come in
una fotografia in bianco e nero l’autunno caldo di trent’anni fa, anno
di grazia 1969, quando le piazze erano stracolme, il cielo era offuscato
dalle bandiere rosse e picchetti di metalmeccanici presidiavano le
fabbriche. Era la stagione della lotta e del confronto duro, anche violento:
da una parte i lavoratori, inquadrati nella figura dell’operaio massa,
dall’altra governo e impresa. Erano gli anni in cui si andava scrivendo lo
Statuto dei Lavoratori. C’erano dei diritti, opportuni, da conquistare e
la trama di una battaglia ideologica, totalizzante e ubriacante, che avrebbe
poi portato ad una sbornia contrattuale e alla santificazione di una
stagione di egualitarismo che uno dei leader sindacali di allora, Bruno
Trentin, condannò come scorciatoia grezza e brutale. «Allora le tute blu
– scrive Orioli – erano la punta di diamante della vivacità sociale, i
moderni titani del progresso. Oggi sono ancora molti, ma meno strategici. Il
progresso ha cambiato alloggio (e forse, chissà, anche grazie a quelle
lotte): sta nei servizi, nelle telecomunicazioni, nella società
dell’informazione dove altre forme di alienazione si stanno creando e non
sono ancora esplose». Il sindacato delle rivendicazioni salariali e del
posto fisso non esiste quasi più, disorientato all’interno di nuovi
orizzonti. C’è, al suo posto, un sindacato che fa sentire sempre più il
suo peso politico, che sembra aver trovato il suo equilibrio nella
concertazione, che interviene nelle scelte strategiche del paese, orienta,
indirizza, pone veti e punta a svolgere un ruolo attivo nei palazzi della
politica e nella società civile. Ma è anche un sindacato che rischia di
trovarsi sempre più spiazzato e che, in qualche modo, ha bisogno di nuovi
paradigmi, di un nuovo ruolo e di una nuova funzione sociale. E questo è il
sindacato che media, cerca di dialogare a 360 gradi, si divincola, subisce
la rivoluzione copernicana della cultura del lavoro, non si arrende, anzi si
batte per difendere antichi privilegi e per garantirsene degli altri,
trovando spazio come una sorta di catalizzatore tra pubblica amministrazione
e cittadino, il quale nei rapporti con le tre confederazioni principali
appare sempre meno come rappresentato e sempre più come cliente di una
società di servizi. È un sindacato costretto, dalla crisi di
rappresentanza e dallo scarso rapporto che sembra avere con le nuove
generazioni di lavoratori, a trovare nuove frontiere. Il tramonto del posto
fisso, le ricette a base di flessibilità imposte dalla globalizzazione e
dalla crisi del vecchio welfare state, l’eclissi di una stagione
ideologica, il dover convivere con un tasso di disoccupazione troppo alto e
difficile da ridimensionare richiedono una politica sindacale meno rigida e
dai confini ancora piuttosto incerti, orfana ormai dei punti di riferimento
tradizionali, dall’operaio massa, appunto, allo statale al contratto
collettivo di categoria.
L’eclissi
della rappresentanza
La
sfida del sindacato ora si gioca su altri terreni. Ed è lì, come in una
cartina al tornasole, che si può leggere la carta d’identità di ciò che
saranno o vorrebbero essere Cgil, Cisl e Uil. La parola d’ordine è
“competizione”, lanciata dal leader della Cisl Sergio D’Antoni e
destinata a diventare la pietra portante di una nuova stagione, quella in
cui è stato infranto il paradigma dell’unità sindacale tra Cgil, Cisl e
Uil. Tre sigle, fino a ieri, da scandire una dietro l’altra e in questo
ordine come una filastrocca o, come un tempo, si declamavano le formazioni
di calcio (Zoff, Gentile, Cabrini…), anche lì prima che il turn over
inaugurasse l’età dell’incertezza.
Il
sindacato è entrato in una fase d’instabilità. È una metamorfosi che si
sviluppa dalla base del movimento. È una crisi, in qualche modo, di materia
prima o, se si vuole, di mutamento delle esigenze di una larga fascia di
lavoratori, che in questo momento storico chiedono soprattutto di poter
“partecipare” al mondo della produzione e di non ritrovarsi ai margini
della vita civile, in uno stato di frustrazione continua dei propri desideri
e delle proprie aspettative sociali. È, in pratica, la richiesta di
superare un orizzonte precario, vale a dire il volto oscuro e crudele della
flessibilità, dove ci si muove senza regole e privi di qualsiasi garanzia
contrattuale, vivendo all’incrocio dei venti, in una situazione di perenne
naufragio. È l’odissea di quelli che perdono, ritrovano, riperdono,
trovano di nuovo un lavoro. Cambiano continuamente quello che non si può più
chiamare un mestiere, passando da un lavoro temporaneo, marginale, a tempo
parziale, ad un altro. È la condizione descritta da Renato Brunetta ne La
fine della società dei salariati (Marsilio, Venezia, 1994, pp. 175, 18.000
lire). «La marginalizzazione della forza lavoro – scrive Brunetta – non
deriva solo dai processi legati all’informatica e ai robot, ma soprattutto
da una gestione sempre più raffinata e flessibile degli organici, che mira
a ridurre il peso economico di un fattore (il lavoro) la cui offerta è
abbondante, ma il cui costo corrisponde a quello di un fattore scarso. Di
fatto le aziende hanno chiesto ai salariati caratteristiche di polivalenza,
capacità di evoluzione e mobilità professionale oppure hanno scelto di far
gravitare intorno al nucleo stabile dei permanenti un volano di manodopera
temporanea, precaria e a tempo parziale». Il problema è che il numero di
chi fa parte del nucleo stabile è in diminuzione, mentre è in aumento
l’esercito di riserva dei precari e dei flessibili.
Sono
loro ormai l’ultima icona del Novecento, protagonisti nell’immaginario
collettivo europeo con il film Rosetta, girato in Belgio dai fratelli Luc e
Jean-Pierre Dardenne, che in Francia ha collezionato 126mila spettatori in
cinque giorni, al punto che le leggi sulla povertà e sulla emarginazione
sociale sono state ribattezzate “lois Rosetta”. Questo fenomeno è stato
per lungo tempo sottovalutato o dimenticato dai rappresentanti ufficiali dei
lavoratori. E oggi il “caso Rosetta” imbarazza un po’ tutta la
sinistra, perché ricorda che in Europa ci sono 17 milioni di giovani che
stanno fuori dalla porta del mondo del lavoro, e rischiano di restarci.
Il
sindacato negli anni Novanta ha preferito chiudere gli occhi. Non si è reso
conto che, soprattutto nelle zone più deboli, chi stava fuori dal gioco
aveva un solo modo per “campare”, tuffarsi nel lavoro sommerso, senza
contributi, con salari più bassi, senza garanzie, senza alcuna tutela,
fuori dalla legge, ma anche abbandonato dalla legge. Cgil, Cisl e Uil erano
impegnate su un altro tavolo, quello della concertazione. E lì
contrattavano, con governo e Confindustria, la politica economica del paese.
È inutile a questo punto stare a discutere se la concertazione sia un
metodo, come dichiara Cofferati, o una politica, come sostiene D’Antoni.
Ciò che appare scontato è che la concertazione è, soprattutto, mediazione
tra diversi interessi. Ci si siede, si discute, si valutano gli scenari, le
risorse e poi si trova un accordo, alla fine ognuno ottiene qualcosa e, di
riflesso, rinuncia a qualcosa. Cgil, Cisl e Uil hanno scelto di difendere le
garanzie contrattuali (diventate, con il mutare degli scenari
socioeconomici, privilegi) dei propri iscritti e di chi comunque aveva già
un posto fisso nel mondo del lavoro, rendendoli immuni da qualsiasi forma di
flessibilità e, in qualche modo, sottraendoli alla tempesta della
recessione. Sul tavolo della concertazione hanno invece lasciato la tutela
di chi stava fuori, abbandonato alla flessibilità totale e senza
aspettative previdenziali. Si è arrivati così ad una doppia “repubblica
del lavoro”, quella degli insiders e quella degli outsiders. Per i primi
il “lavoro è un diritto”, la “pensione un diritto acquisito”, il
“salario è legato all’anzianità di servizio”, la “malattia, le
ferie, la gravidanza, il riposo (e l’ozio) sono comunque retribuiti” e
il “welfare” è garantito dallo Stato. Per i secondi il “lavoro è
un’opportunità”, la pensione pubblica un miraggio (si intensificano gli
inviti a ricorrere alla previdenza alternativa, ma senza un lavoro fisso è
difficile pagarsi i contributi), il “salario è contrattato volta per
volta sulla base dei rapporti di forza e delle reciproche necessità”,
“la malattia, le ferie, la gravidanza, il riposo, l’ozio sono tempo, cioè
denaro, perso” e il welfare è garantito dalla famiglia, se c’è e se
ha. Quella delle tre confederazioni è stata una scelta molto politica e
poco sindacale. È stata la scelta di chi ha preferito cristallizzare le
rendite di posizione della propria base sociale, i lavoratori da posto
fisso, trascurando i soggetti più deboli, anzi in qualche modo favorendo un
processo di emarginazione o, perlomeno, frustrazione sociale. Ed è così
che il rapporto tra sindacato e nuove generazioni è diventato di reciproco
disinteresse. Si ignorano. Il numero dei pensionati iscritti alla tre
confederazioni è, invece, passato da 2.876.393 del 1986 a 5.203.728 del
1997. Ma la scarsa capacità di rappresentanza dei sindacati confederali è
provata anche da un altro dato: il forte – e soprattutto crescente –
squilibrio della composizione interna di Cgil, Cisl e Uil rispetto alla
struttura del mercato del lavoro. In Italia il 3,7 per cento dei lavoratori
dipendenti trova impiego nell’agricoltura, il 32,3 per cento
nell’industria, il 36,2 per cento nel terziario privato ed il 27,8 per
cento nella pubblica amministrazione. In tutto, quindi, il complesso mondo
dei servizi assorbe il 64 per cento della forza lavoro italiana. Il
sindacato confederale si basa su tutt’altri rapporti: il 14,1 per cento
dei lavoratori sindacalizzati lavora nell’agricoltura, il 40 per cento
nell’industria ed il 45,9 per cento nel terziario. Non a caso, in un
recente rapporto del Cesos (Centro di studi sindacali promosso dalla Cisl),
il terziario privato viene definito «vero e proprio punto di debolezza del
sindacalismo confederale». È la Cgil il sindacato confederale che meno
riesce a riflettere le nuove dinamiche sociali. La distribuzione dei suoi
iscritti è la fotografia di un’Italia che ancora deve entrare nella fase
postindustriale: il 49,7 per cento delle tessere sottoscritte dai lavoratori
attivi provengono dall’industria e l’11,3 per cento dall’agricoltura.
Per contro, nell’organizzazione di Cofferati risultano fortemente
sottorappresentati i lavoratori del terziario, che valgono solo il 39 per
cento degli iscritti. Discorso diverso per Cisl e Uil. Anch’esse hanno un
peso più che proporzionale nell’agricoltura e vedono il terziario privato
poco considerato, ma risultano più equilibrate nella distribuzione tra i
propri iscritti degli impiegati pubblici e degli addetti all’industria.
Anche in questo caso, le cifre confermano comunque la tendenza ad una
accentuazione dello squilibrio, soprattutto a causa del calo di iscritti al
sindacato tra gli addetti ai servizi.
Questa
situazione è destinata comunque a mutare. Nell’ultimo anno, in
particolare, le tre confederazioni sembrano mostrare un maggior interesse
per le ragioni dei non rappresentati. E così l’obiettivo dichiarato è
diventato quello di estendere i propri confini, attraverso un graduale
recupero dei lavoratori precari. La flessibilità non rappresenta più un
tabù, anzi permette al sindacato di svolgere un ruolo di mediazione (che
qualche volta sconfina nel capolarato) tra domanda e offerta di lavoro. Le
risposte di Cgil, Cisl e Uil non sono state però compatte. La necessità di
trovare nuovi spazi di rappresentanza e nuove funzioni ha incrinato l’unità
sindacale e aperto l’era della competizione. Non c’è dubbio che questa
sia soprattutto la politica di Sergio D’Antoni, che ormai tende sempre più
a sottolineare la diversità di orizzonti rispetto a Cofferati e Larizza. Il
leader della Cisl per spiegare la sua strategia non esita a parlare di «nuovo
modello di democrazia economica». I lavoratori, secondo D’Antoni,
dovrebbero accettare un maggiore tasso di flessibilità in cambio di una
maggiore quota di potere all’interno dei consigli di amministrazione.
Flessibilità per partecipazione. D’Antoni, per raggiungere questo
risultato, è disposto anche a legare il salario alla produttività, sia
regionale sia territoriale, limitandosi a prevedere a livello nazionale uno
stipendio di base al di sotto del quale non si può andare. È chiaro che
spetterebbe poi ad ogni singolo sindacato contrattare la flessibilità in
azienda e sul territorio. Da qui la competizione tra le confederazioni, ma
anche un maggior potere d’intervento per tutto il sindacato, che
tornerebbe a svolgere quel ruolo di rappresentanza diffusa, e a tutti i
livelli, che sembrava aver perso negli anni Novanta. Ma questo è un terreno
su cui Larizza e Cofferati non intendono muoversi. Il nuovo modello di
democrazia economica di D’Antoni, rispondono, rappresenta un passo
indietro, farebbe in pratica rivivere le Rsa, cioè le rappresentanze di
ogni sindacato all’interno dell’azienda, in una logica di competizione
che ricorderebbe molto da vicino il caso francese. Un’esperienza non
rassicurante per i sindacati (scesi ad un livello di rappresentatività
effettiva paragonabile a quella degli Stati Uniti), ma neppure per gli
imprenditori, costretti a difficili tatticismi nell’affrontare
interlocutori sindacali perennemente in discussione tra di loro. Senza
contare, si preoccupano Cgil e Uil, che la competizione sindacale renderebbe
più ampio lo spazio di manovra per i sindacati di categoria, in non
confederali, già forti in settori strategici come i trasporti o nella
scuola. L’idea, poi, di legare il salario alla produttività rischia di
seppellire non solo la contrattazione collettiva, ma scriverebbe la parola
fine sulla concertazione nazionale, senza alcuna sicurezza che possa
funzionare, come spera D’Antoni, a livello territoriale. Le strategie
contro la disoccupazione passano, per Larizza e Cofferati, attraverso altre
strade. Nessuna rivoluzione, ma correttivi mirati, concordati con il governo
(D’Alema). Il leader della Uil, per esempio, ha proposto di sospendere
l’applicazione dello Statuto dei lavoratori nelle piccole imprese del
Mezzogiorno che investendo superano i 15 dipendenti, ma a patto che tale
regola venga contrattata con il sindacato. L’obiettivo è chiaro, visto
che per le piccole imprese le norme sul licenziamento sono meno vincolanti,
molti imprenditori preferiscono tenersi sotto la soglia dei 15 dipendenti e
non avere problemi. Così non assumono. Se si assicura, invece, una
“coda” di tre anni, molti di loro potrebbero decidere di aumentare
l’organico e rimettere in moto il meccanismo dell’occupazione.
La
Cgil, questa volta in sintonia con la Cisl, ha detto “no” anche alla
proposta di Larizza. Sergio Cofferati e il suo vice Guglielmo Epifani
ritengono che il problema del lavoro passi ancora attraverso il welfare, che
va rimodellato sulle nuove esigenze, ma non messo da parte. La Cgil appare
quindi anche più aperta sulla riforma delle pensioni, con la speranza che
rimessa in linea la spesa previdenziale, assicurati i diritti acquisiti dei
“propri” pensionati, si possa poi incrementare la spesa sociale, a
sostegno dei lavoratori più deboli. Da qui il “sì” offerto al governo
per passare al sistema contributivo per tutti. «La verifica – spiega
Epifani – è fissata per il 2001, ma per preparare bene quella scadenza
bisogna muoversi da subito, cominciando ad intervenire sul trattamento di
fine rapporto e sulla separazione tra assistenza e previdenza».
Ed è
proprio sul Tfr che Cgil, Cisl e Uil stanno ritrovando un minimo di unità
sindacale. La posta in gioco sono i 25mila miliardi che alimentano ogni anno
il trattamento di fine rapporto, cioè la liquidazione dei lavoratori
dipendenti. Gli esperti di Palazzo Chigi, coordinati dal consigliere
principe di D’Alema, Nicola Rossi, hanno messo a punto un disegno di legge
volto a dirottare questa massa di denaro dalle imprese ai fondi pensione.
Per gli imprenditori, fare a meno del finanziamento a buon mercato garantito
dal Tfr sarebbe un costo aggiuntivo, e quindi non stupisce il “no” della
Confindustria. I sindacati ne fanno una questione di vita o di morte. «Se
grazie all’appoggio del Tfr – ricorda Cofferati – riusciremo a far
decollare la previdenza integrativa, allora si potrà realizzare l’unica
riforma previdenziale possibile, il passaggio al sistema contributivo per
tutti. Al contrario, questo passaggio sarebbe impraticabile, perché non
garantirebbe ai lavoratori una copertura adeguata».
Il
disegno di legge preparato da Nicola Rossi risponde alle richieste dei
sindacati. Stabilisce che il Tfr, quello ancora da maturare, sarà
indirizzato verso i fondi pensione e introduce la regola del
silenzio-assenso. Il lavoratore che non è d’accordo lo deve mettere nero
su bianco, altrimenti si procede secondo la legge. L’unico problema per il
sindacato è rappresentato da Vincenzo Visco che ha preparato un decreto che
eleva da 2 milioni e mezzo a 10 la deducibilità Irpef per le polizze vita e
i piani individuali di risparmio, senza fare distinzione tra i fondi
“chiusi” e quelli “aperti”. Visco si muove rispettando un principio
sacro della scienza tributaria, vale a dire la neutralità dei trattamenti
fiscali. E quindi, niente privilegi speciali per i fondi pensione, quelli
gestiti dal sindacato. Le compagnie assicurative sono dalla parte di Visco,
ma la strategia dei sindacati sul Tfr verrebbe vanificata, bloccando di
fatto l’unico scambio che i sindacati ritengono valido per controfirmare
la riforma della pensioni: un “sì” in cambio di un semimonopolio sulla
gestione della previdenza alternativa. È qui che si legge uno degli
obiettivi fondamentali della strategia sindacale: coprire una larga zona di
potere economico e sociale che va dai fondi pensioni, alle dichiarazioni dei
redditi per i lavoratori dipendenti (modelli 730), alla formazione
professionale, agli uffici di collocamento, fino alla rappresentanza legale
attraverso i patronati. È la nuova frontiera, che dovrebbe garantire al
sindacato, con le confederazioni in competizione tra loro per conquistare il
maggior numero di clienti, il ruolo principe di corpo intermedio tra Stato e
cittadini. Altro che la famiglia.
Vittorio
Macioce
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