| Rileggere il
    craxismoUNA SFIDA MANCATA
 di Giorgio Galli
«Fare
    storia del presente è il più difficile degli esercizi». E’ quello nel
    quale mi sono esercitato ormai da molti decenni. In particolare, per quanto
    concerne il socialismo italiano e il Psi, una sua storia risalente ai primi
    anni Ottanta (Ma l’idea non muore. Storia orgogliosa del socialismo
    italiano, edito da Laterza e poi dal Club degli Editori) è stata oggetto di
    un aggiornamento nel ’96 (Marco Tropea editore); e credo costituisca il
    primo e forse tuttora unico tentativo di collocare il periodo craxiano in
    una prospettiva di analisi storico-politica. Ovviamente utilizzando, in
    questa chiave, anche gli atti giudiziari, pur nella convinzione, in questo
    come in altri casi – ad esempio, la vicenda della lotta armata – che la
    storia non la scrivono i magistrati. In
    questo quadro non credo che Craxi abbia reinterpretato in modo originale la
    tradizione socialdemocratica sotto il profilo ideologico; e, per quanto
    riguarda la pratica politica, occorre tenere conto del fatto che egli è
    arrivato alla segreteria di un partito che aveva meno del dieci per cento
    dei voti e con una corrente che, pur avendo alle spalle il prestigio di
    Nenni, era assolutamente minoritaria. L’impegno a superare questa
    debolezza iniziale ha condizionato non solo le prime scelte della sua
    segreteria, ma anche quelle successive. La stagione craxiana appartiene alla
    tradizione culturale del Psi, che però già negli anni Sessanta e Settanta
    (segreteria De Martino e Mancini) era un partito debole, inserito in un
    sistema politico fortemente caratterizzato da quella che è stata definita
    economia della corruzione. La rottura col passato è stata rappresentata dal
    fatto che, con la segreteria Craxi, questa situazione è stata ritenuta non
    modificabile, e quindi il contesto naturale nel quale la debolezza del Psi
    avrebbe potuto essere superata soltanto sfruttando appieno tale tipo di
    economia.  Per
    quanto riguarda l’oggi, dopo il craxismo, va detto che una parte
    dell’eredità riformista della tradizione (non mi pare appropriato il
    termine “mito”) socialdemocratica era già da decenni appannaggio del
    Pci ed è attualmente gestita dai postcomunisti. Questo è quello che rimane
    in Italia, in una fase di difficoltà della socialdemocrazia anche a livello
    europeo.Il modo di Craxi di gestire il potere è stato caratterizzato da tre
    fattori: una grande spregiudicatezza, il superamento del complesso di
    inferiorità nei rapporti coi comunisti, il mancato superamento di tale
    complesso di inferiorità nei confronti del mondo cattolico e del suo peso
    nella società italiana (situazione propria di tutta la sinistra, da
    Togliatti e Nenni sin dall’immediato dopoguerra a Berlinguer sino alla sua
    morte). Questi aspetti sono più importanti dell’aver accentuato la
    personalizzazione individuale della leadership politica, che, sotto questo
    profilo, ha effettivamente anticipato alcune caratteristiche dello stile
    politico degli anni Novanta. In ogni caso il termine weberiano di
    “carisma” va usato con molta cautela; e non si addice al caso di Craxi.
    E’ vero che il cosiddetto “culto della personalità” ha suscitato
    anche una violenta avversione personale nei confronti di Craxi. La prima
    ragione va individuata nel citato uso spregiudicato dell’economia della
    corruzione. La seconda ragione in una arroganza – fatta propria dai
    seguaci – questa sì molto lontana dalla tradizione e dallo stile del
    socialismo italiano.  La
    regola non scritta (soprattutto dei democristiani) era di non ostentare la
    corruzione e la pratica tangentizia. Con Craxi, il personale politico
    socialista ha fatto il contrario (e questo ha anche facilitato il lavoro dei
    magistrati, soprattutto a Milano, capitale del craxismo). Nonostante ciò,
    la proposta craxiana di Grande Riforma (presidenzialismo compreso) era stata
    accolta con favore da estesi settori della pubblica opinione (i sondaggi
    davano per Craxi indici di preferenza ben superiori a quelli del suo
    partito). In questo senso, non mi pare che il “decisionismo” lo abbia
    danneggiato. Ma è stato egli stesso a rinunciare al suo progetto per una
    duplice ragione: non sfidare apertamente la Dc (il non superato complesso di
    inferiorità verso i cattolici, di cui si è detto); e la convinzione di
    poter ereditare l’elettorato di un Pci in crisi, quasi automaticamente,
    senza la necessità di iniziative di ampio respiro.Sotto questo aspetto, la
    stagione craxiana si colloca nell’evoluzione dall’interno di un sistema
    politico rimasto sostanzialmente lo stesso, con un ruolo socialista che è
    rimasto subalterno al potere democristiano, che è continuato. Proprio per
    tale ragione il cosiddetto riformismo socialista craxiano non è riuscito ad
    approfittare della crisi del comunismo mondiale; si è collocato
    all’interno del sistema di potere democristiano in declino e non lo ha
    sfidato nei suoi punti deboli: l’economia della corruzione, che anzi, come
    si è detto, il Psi utilizzava e il logorio istituzionale, che Craxi intuiva
    (appunto proponendo la Grande Riforma), ma che, in sostanza, ha finito col
    subire. E il Pci, pur coinvolto nel consociazionismo lo era meno
    nell’economia della corruzione, tanto da poter insistere sulla
    berlingueriana “questione morale”. Il
    debito pubblico cresceva proprio nel quadro dell’economia della corruzione
    e dell’uso delle sue risorse per organizzare il consenso. Gli aspetti
    negativi di questa situazione erano attenuati da quello che è stato
    definito “grande e veloce sviluppo economico”, accompagnato da
    modernizzazione sociale. Craxi non ha promosso, ma certamente accompagnato,
    questo processo. Ma, all’inizio degli anni Novanta, gli aspetti negativi
    sono emersi prepotentemente e ci hanno lasciato un’eredità che ancora
    pesa, anche nel campo di quella che viene definita liberalizzazione
    dell’etere, in realtà un duopolio che, col conflitto di interessi che ha
    creato, complica tuttora l’evoluzione positiva del nostro sistema
    politico. Proprio mentre questi aspetti negativi cominciavano ad emergere,
    Craxi è sembrato perdere quella capacità di intuizione politica che lo
    aveva caratterizzato nei momenti migliori (la tutela della dignità
    nazionale dei giorni di Sigonella contro l’invadenza americana). Forse
    hanno influito anche le condizioni di salute, dopo la crisi dei primi di
    gennaio del 1990. Questo è un fattore del quale, nel “fare storia del
    presente”, non si è tenuto abbastanza conto. Potrebbe contribuire a
    spiegare la reazione “con fastidio e arroganza” a un’opinione pubblica
    che assumeva un atteggiamento sempre più apertamente critico nei confronti
    del sistema politico, spingendosi a tentare strade nuove (il successo della
    Lega nelle elezioni regionali del 1990), per cui chi aveva proposto la
    Grande Riforma istituzionale finì col suggerire di “andare al mare”
    agli italiani che la chiedevano, attraverso un referendum sia pure limitato
    nel fine specifico (quello sulla preferenza unica del 1991). Comunque,
    al di là di questo fattore (le condizioni di salute) credo che il destino
    politico di Craxi sia stato determinato dalle due carenze di fondo di cui si
    è detto: l’esitazione nello sfidare la Dc e la convinzione di poter
    raccogliere automaticamente l’eredità elettorale dei comunisti in crisi.
    L’accettazione in posizione subalterna dell’ultimo governo Andreotti del
    1991 (quando il partito repubblicano di Giorgio La Malfa lasciò la
    maggioranza proprio per incompatibilità con la Dc) pose la premessa per la
    sconfitta della coalizione di governo nell’aprile 1992. Durante quella
    campagna elettorale, Craxi era tanto lontano dal presagire la sua fine
    politica da far tappezzare l’Italia di sue gigantografie con lo slogan
    “un governo per la ripresa”, quello che egli stesso avrebbe dovuto
    guidare se le elezioni fossero state vinte dalla coalizione che aveva
    sostenuto l’ultimo esecutivo Andreotti. Fu la sua sconfitta che mise in
    crisi la Prima Repubblica. Essa non fu “abbattuta” da un “ciclone
    giudiziario”. Fu l’elettorato che chiese alla classe politica di
    rinnovarla. Questa non raccolse la richiesta e la magistratura finì con
    l’assumere il ruolo surrogatorio di interprete della pubblica opinione,
    agendo nell’ambito proprio del suo ruolo, in precedenza sovente
    trascurato. In questa situazione nell’estate 1992 (coi traumi degli
    omicidi di Falcone e Borsellino, che da un lato evidenziavano la profonda
    crisi del sistema politico e dall’altro conferivano alla magistratura il
    crisma dell’eroico sacrificio) e ancora nell’aprile 1993 (col discorso
    alla Camera sulla richiesta di autorizzazione a procedere) fu lo stesso
    Craxi a erigersi come interprete di una intera classe e di una intera
    stagione politica, quasi costruendo e prefigurando una situazione che ne
    faceva l’unico capro espiatorio. Forse sperava di mobilitare attorno a sé
    una classe politica invece rassegnata alla sconfitta, non tanto di fronte ai
    giudici, quanto di fronte a un’opinione pubblica che – allora – si
    esprimeva coi fax, dopo essersi espressa elettoralmente, per chiedere
    mutamenti di comportamento che esigevano anche il cambiamento dei soggetti
    che avrebbero potuto realizzarlo. Oggi mi pare che i dubbi della pubblica
    opinione e degli osservatori politici riguardino più il mancato verificarsi
    del mutamento, che non la sorte delle singole persone. Il
    problema non mi sembra di “moralità”, ma propriamente politico: perché
    si è bloccata la transizione dalla Prima alla Seconda Repubblica? Perché
    è fallita la commissione Bicamerale per le riforme istituzionali?Si tratta,
    in ultima analisi, di capire quali elementi della società e del sistema
    politico italiani, presenti nel decennio del protagonismo craxiano,
    perdurino, tuttora influenti, e forse allora radicatisi, sino a rendere
    particolarmente difficile e ancora di durata indefinibile quella che era
    stata definita una fase di transizione; e che, invece, può risultare una
    stagione politica con proprie connotazioni precise. 
    (Ideazione Gennaio-Febbraio 2000) |  |