Saggi vecchi e
nuovi
LA VOCAZIONE SOCIALE
DEL LIBERALISMO
di Francis
Fukuyama
Nell’ultimo
secolo gli Stati Uniti e altri paesi economicamente avanzati sono entrati in
quella che stata definita la società informatica, l’era informatica o
l’era postindustriale. Il futurologo Alvin Toffler ha chiamato questa
transizione la “terza ondata”, suggerendo che sarà carica di
conseguenze come le due ondate precedenti della storia dell’uomo: dalle
società del cacciatore-raccoglitore a quelle agricole e da quelle agricole
a quelle industriali. Una società costruita intorno all’informazione
tende a produrre una quantità maggiore di ciò
che viene considerata la cosa più importante in una democrazia
moderna: libertà e uguaglianza. La libertà di scelta è esplosa in tutto,
dai canali via cavo, ai punti di vendita a basso costo, agli amici
conosciuti su Internet. Le gerarchie di ogni sorta, politiche o sociali,
messe sotto pressione hanno iniziato a disgregarsi.
Solitamente
si associa l’era informatica all’avvento di Internet negli anni Novanta,
ma il distacco dall’era industriale iniziò più di una generazione prima
con la de-industrializzazione della Zona della Ruggine negli Stati Uniti e
con simili movimenti in altri paesi industrializzati. Questo periodo,
approssimativamente dalla metà degli anni Sessanta all’inizio degli anni
Novanta, è stato contraddistinto anche dal serio deteriorarsi delle
condizioni sociali in gran parte del mondo industrializzato. Il crimine ed i
disordini sociali hanno iniziato ad aumentare, rendendo quasi inabitabili i
centri delle città delle società più ricche della terra. La perdita di
valore della parentela come istituzione sociale, iniziato più di duecento
anni fa, ha subìto una forte accelerazione nella seconda metà del
Ventesimo secolo. I matrimoni e le nascite sono diminuiti e i divorzi
aumentati; un bambino su tre negli Stati Uniti e oltre la metà in
Scandinavia sono nati fuori dal matrimonio. La fiducia nelle istituzioni,
infine, è entrata in una fase discendente durata quarant’anni. Mentre
alla fine degli anni Cinquanta la maggioranza dei cittadini europei e
statunitensi dichiarava di avere fiducia nel proprio governo e nei propri
concittadini, all’inizio degli anni Novanta solo una piccola minoranza era
di quest’opinione. Anche la natura dei rapporti fra le persone è
cambiata; sebbene non si possa dire che la gente avesse meno rapporti, i
legami tendevano ad essere meno permanenti, più lenti e con gruppi di
persone più esigui. Si trattò di cambiamenti drammatici; si verificarono
in molti paesi con caratteristiche simili e tutti all’incirca nello stesso
periodo storico. Per questo costituirono una Grande Rottura nei valori
sociali che avevano dominato la società dell’era industriale a metà del
Ventesimo secolo. È molto insolito che degli indicatori sociali cambino
insieme così rapidamente; anche se non ne conosciamo le cause, abbiamo
motivo di credere che le ragioni possano essere collegate fra loro.
Il
declino si può misurare facilmente con le statistiche sul crimine, sui
bambini senza padre, la mancanza di fiducia, la diminuzione di opportunità
per chi finisce di studiare e simili.
È
stato semplicemente un caso che questi trend sociali negativi, che insieme
riflettono un indebolimento dei legami sociali e dei valori comuni alle
società occidentali, si siano presentati proprio quando le economie di
quelle società compivano la transizione dall’era industriale a quella
informatica? L’ipotesi di questo articolo è che le due cose siano in
realtà strettamente correlate e che, sebbene un’economia più complessa
basata sull’informatica abbia prodotto numerosi vantaggi, ci siano stati
anche degli effetti negativi sulla nostra vita sociale e morale. I legami
erano di natura tecnologica, economica e culturale. La mutata natura del
lavoro ha sostituito la fatica fisica con quella mentale, e questo ha spinto
milioni di donne al posto di lavoro, scardinando così le condizioni
tradizionali sulle quali si basava la famiglia. Le innovazioni nella
tecnologia medica, che hanno introdotto la pillola anticoncezionale ed una
maggiore longevità, hanno determinato una perdita d’importanza della
riproduzione e della famiglia nella vita delle persone. E la cultura
dell’individualismo, che in laboratorio e nel mercato produce innovazioni
e crescita, si è riversata nel regno delle norme sociali, dove ha
praticamente eroso ogni forma di autorità e ha indebolito i vincoli che
tenevano insieme le famiglie, i vicinati e le nazioni. Tutta la storia è,
ovviamente, molto più complessa e varia da paese a paese. Ma in generale,
il cambiamento tecnologico che sul lavoro determina quella che
l’economista Joseph Schumpeter ha definito «distruzione creativa», ha
causato una simile distruzione nel mondo delle relazioni sociali. In realtà
ci sarebbe da meravigliarsi se non fosse stato così.
Ma
esiste anche l’altra faccia della medaglia: una volta distrutto,
l’ordine sociale tende a ricostituirsi e vi sono molte indicazioni che
oggi questo si stia verificando. Oggi una delle principali sfide che le
democrazie dell’era informatica devono affrontare è il mantenimento
dell’ordine sociale di fronte ai cambiamenti economici e tecnologici. Fra
l’inizio degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta vi è stata
un’ondata improvvisa di nuove democrazie in America Latina, in Europa, in
Asia e nel mondo ex comunista. Come ho sostenuto ne La Fine della Storia e
l’Ultimo Uomo (1992), esiste una forte logica dietro l’evoluzione delle
istituzioni politiche verso moderne democrazie liberali, basata sulla
correlazione fra sviluppo economico e democrazie stabili. Nel tempo le
istituzioni politiche ed economiche dei paesi economicamente più avanzati
sono andati convergendo, e non esiste un’alternativa ovvia per gli altri.
Questa
tendenza progressiva non è, però, necessariamente ovvia nello sviluppo
morale e sociale. La tendenza delle democrazie liberali contemporanee a
cadere preda di un eccessivo individualismo rappresenta forse nel lungo
periodo il loro aspetto più vulnerabile ed è particolarmente evidente
nella più individualistica delle democrazie, gli Stati Uniti. Il fondamento
dello Stato liberale moderno era che, nell’interesse della pace politica,
il governo non prendesse posizione rispetto alle diverse istanze morali
della religione e della cultura tradizionale. Bisognava tenere separati
Stato e Chiesa; doveva esistere un pluralismo di opinioni sulle questioni
morali ed etiche che concernevano i fini più alti e la natura del bene. La
tolleranza sarebbe diventata la virtù cardinale; il consenso morale sarebbe
stato sostituito da una struttura trasparente di leggi e istituzioni che
avrebbe creato l’ordine politico. Con un simile sistema politico i
cittadini non dovevano essere particolarmente virtuosi; bastava solo che
fossero razionali e seguissero la legge nel loro stesso interesse. Allo
stesso modo, con il sistema economico capitalistico basato sul mercato che
andava a braccetto con il liberalismo politico, bastava solo che i cittadini
tenessero conto del proprio interesse a lungo termine per raggiungere una
produzione ed una distribuzione dei beni socialmente ottimale. Le società
create su queste basi individualistiche hanno funzionato straordinariamente
bene e, alla fine del Ventesimo secolo, vi sono poche alternative reali alla
democrazia liberale e al capitalismo di mercato, intesi come princìpi
fondamentali per organizzare le società moderne. L’interesse individuale
è un terreno meno nobile ma più stabile della virtù per fondarci una
società. La creazione del governo della legge è uno dei successi delle
civiltà occidentali di cui essere più orgogliosi; e i suoi vantaggi
appaiono fin troppo ovvi quando si ha a che fare con paesi che non ce
l’hanno, come la Russia e la Cina.
Ma per
quanto fondamentali, la legge formale e le istituzioni economiche non sono
sufficienti a garantire il successo di una società moderna. Per funzionare
a dovere, una democrazia liberale ha sempre avuto bisogno di alcuni valori
culturali ampiamente condivisi. Questo si vede chiaramente nel contrasto fra
gli Stati Uniti e i paesi dell’America Latina. Quando l’Argentina, il
Brasile, il Cile, il Messico ed altri paesi sudamericani acquisirono
l’indipendenza nel Diciannovesimo secolo, molti di essi istituirono
costituzioni democratiche e sistemi legali modellati sul sistema
presidenziale degli Stati Uniti. Da allora neanche uno dei paesi
sudamericani ha avuto la stabilità politica, la crescita economica e
l’efficienza istituzionale di cui godono gli Stati Uniti, anche se
fortunatamente la maggior parte di essi è ritornata ai governi democratici
entro la fine degli anni Ottanta.
Vi
sono molte complesse ragioni storiche che spiegano questo fenomeno, ma la più
importante è di natura culturale. Il problema della maggior parte delle
democrazie liberali è l’impossibilità di dare per scontate le loro
fondamenta culturali. Le migliori, compresi gli Stati Uniti, hanno avuto la
fortuna di sposare solide istituzioni formali a una cultura di sostegno
flessibile e informale. Ma niente in queste istituzioni garantisce che la
società alla base di esse continuerà a condividere il giusto tipo di
valori e di norme culturali sotto la pressione dei cambiamenti tecnologici,
economici e sociali. È vero, anzi, il contrario: l’individualismo, il
pluralismo e la tolleranza inseriti nelle istituzioni formali tendono ad
incoraggiare la diversità culturale e potenzialmente possono scardinare i
valori morali ereditati dal passato. Ed un’economia dinamica e
tecnologicamente innovativa per la sua natura distruggerà le relazioni
sociali esistenti. Potrebbe essere, allora, che sebbene le grandi
istituzioni politiche ed economiche si siano evolute all’interno di un
lungo e continuo percorso, la vita sociale sia più ciclica. Le norme
sociali che vigono in un periodo storico, vengono distrutte dai progressi
tecnologici ed economici e la società deve sforzarsi di stare al passo per
istituire nuove regole.
Dagli
anni Sessanta in poi l’Occidente ha conosciuto una serie di movimenti che
hanno cercato di liberare gli individui dai vincoli delle norme sociali e
delle regole morali tradizionali. La rivoluzione sessuale, il movimento
femminista e i movimenti per i diritti omosessuali degli anni Ottanta e
Novanta sono esplosi in tutto il mondo occidentale. Come è apparso chiaro
molto presto, una cultura di individualismo scatenato nella quale infrangere
le regole diventa in un certo senso l’unica regola che rimane, comporta
seri problemi. Il primo dipende dal fatto che i valori morali e le regole
sociali non sono semplicemente arbitrarie limitazioni della scelta
individuale, ma rappresentano la condizione essenziale di qualsiasi tipo di
iniziativa in comune. In realtà gli studiosi dei fenomeni sociali hanno
iniziato recentemente a definire i valori in comune di una società
“capitale sociale”. Come il capitale fisico (terra, edifici, macchine) e
quello umano (le capacità e le nozioni che abbiamo in testa), il capitale
sociale produce ricchezza ed ha quindi un valore economico per l’economia
di una nazione. Ma è anche il presupposto indispensabile per qualsiasi
forma di sforzo di gruppo che abbia luogo in una società moderna, dalla
gestione di un negozio di verdura al lobbismo sul Congresso, al crescere i
propri figli. Gli individui ampliano il loro potere e le loro abilità-capacità
seguendo regole comuni che pongono limiti alla loro libertà di scelta,
perché queste permettono loro di comunicare con gli altri e di coordinare
le loro azioni. Le virtù sociali come l’onestà, la reciprocità e
l’osservanza degli impegni presi non sono solo valori etici; hanno anche
un tangibile valore monetario ed aiutano i gruppi che le praticano a
raggiungere fini comuni.
Il
secondo problema di una cultura individualistica è che finisce per essere
priva di comunità; che non si forma ogni volta che un gruppo di persone
interagisce insieme. Le vere comunità sono legate da valori, norme ed
esperienze condivise dai loro membri. Più questi valori comuni sono
profondi e fortemente rispettati, più è forte il senso della comunità. Lo
scambio fra libertà personale e comunità, però, non sembra ovvio e
necessario a tutti. Una volta liberatisi dei legami tradizionali verso
coniugi, famiglie, vicinati, colleghi e chiese, molti si aspettavano di
mantenere i rapporti sociali. Ma hanno iniziato ad accorgersi che le loro
affinità elettive, che possono prendere e lasciare a piacimento, li fanno
sentire soli e disorientati, desiderosi di rapporti più profondi e
permanenti.
Cosa
è successo
A
partire dal 1965 un gran numero di indicatori che possono fungere da
misuratori in negativo del capitale sociale hanno cominciato a crescere
contemporaneamente in maniera molto rapida. Questi si possono riassumere in
tre ampie categorie: crimine, fiducia e famiglia.
Gli
americani sanno che il tasso di criminalità ha iniziato a crescere molto
rapidamente intorno agli anni Sessanta, invertendo drasticamente la tendenza
del periodo immediatamente successivo alla seconda guerra mondiale, quando
il tasso dei furti e degli omicidi diminuì. Dopo una leggera diminuzione a
metà degli anni Ottanta, il tasso di criminalità ha ricominciato ad
aumentare alla fine dello stesso decennio, toccando il massimo fra il 1991 e
il 1992. Da allora i crimini violenti e contro la proprietà sono
notevolmente diminuiti. In realtà sono diminuiti più marcatamente nelle
aree dove erano aumentati più rapidamente, vale a dire nelle grandi città
come New York, Chicago, Detroit e Los Angeles.
Per
quanto il tasso di criminalità negli Stati Uniti sia eccezionalmente alto
rispetto agli altri paesi sviluppati, nello stesso periodo la criminalità
è aumentata in maniera significativa praticamente in tutti gli altri paesi
sviluppati non asiatici.
Dei
cambiamenti delle norme sociali che costituiscono la Grande Rottura, alcuni
dei più drammatici sono quelli che riguardano la riproduzione, la famiglia
e i rapporti fra i sessi. Il tasso dei divorzi è cresciuto drasticamente in
tutti i paesi sviluppati (ad eccezione dell’Italia, dove il divorzio è
stato illegale fino al 1970, ed altri paesi cattolici); negli anni Ottanta
si poteva prevedere che la metà dei matrimoni americani finisse in divorzio
e il rapporto fra i divorziati e gli sposati si era quadruplicato in soli
trent’anni. Dal 1940 al 1995 le nascite fuori dal matrimonio sono passate
da meno del 5 per cento al 32 per cento negli Stati Uniti. In molti paesi
scandinavi si arrivava fino al 60 per cento; il Regno Unito, il Canada e la
Francia hanno raggiunto livelli paragonabili a quelli degli Stati Uniti.
Chiunque
abbia vissuto negli Stati Uniti o in un altro paese occidentale fra gli anni
Cinquanta e gli anni Novanta non può non riconoscere il diffuso cambiamento
di valori verificatosi in questo periodo in direzione di un crescente
individualismo. I dati dei sondaggi e la semplice osservazione indicano che
i cittadini sono molto meno inclini a fare riferimento all’autorità di
una gamma sempre più ampia di istituzioni sociali. La fiducia nelle
istituzioni, quindi, è diminuita vistosamente. Nel 1958 il 73 per cento
degli americani intervistati pensava che il governo federale faceva quello
che era giusto “la maggior parte delle volte” o “quasi sempre”; nel
1995 questa percentuale era scesa al 15 per cento. Gli europei, sebbene
nutrano sentimenti meno ostili verso lo Stato rispetto agli americani, hanno
subìto un simile crollo della fiducia nelle istituzioni tradizionali come
la Chiesa, le forze dell’ordine e il governo.
Perché
aumenta il crimine?
Presumendo
che l’aumento dei tassi di criminalità non sia semplicemente dovuto al
miglioramento dei rapporti della polizia, è necessario porsi diverse
domande. Perché il crimine è aumentato così drasticamente e in così poco
tempo in un numero così grande di paesi? Perché sta iniziando a
stabilizzarsi o a diminuire negli Stati Uniti e in molti altri paesi
occidentali?
La
prima e forse la più facile spiegazione per l’aumento del tasso di
criminalità fra la fine degli anni Sessanta e gli anni Ottanta e la sua
successiva diminuzione è quella demografica. In genere i crimini vengono
commessi soprattutto da giovani maschi fra i quindici e i ventiquattro anni.
Questo fenomeno ha indubbiamente una ragione genetica, dovuta alla
propensione maschile per la violenza e l’aggressione e significa che
quando aumentano le nascite, dopo quindici-venticinque anni salirà anche il
tasso di criminalità. Negli Stati Uniti fra il 1950 e il 1960 il numero dei
giovani di età compresa fra i quindici e ventiquattro anni è aumentato di
due milioni, mentre nel decennio successivo questo gruppo d’età è
cresciuto di dodici milioni – un assalto che è stato paragonato ad
un’invasione barbarica. Non soltanto il numero maggiore di giovani ha
aumentato i potenziali criminali, ma la loro concentrazione in una
“cultura giovanile” può aver comportato un aumento ancora maggiore
degli sforzi per sconfiggere l’autorità. Il baby boom, tuttavia, spiega
solo in parte l’aumento del tasso di criminalità fra gli anni Sessanta e
Settanta. Secondo un criminologo l’aumento degli omicidi negli Stati Uniti
è stato dieci volte superiore a quanto ci si sarebbe aspettati per i
mutamenti della struttura demografica. Altri studi dimostrano che i
cambiamenti dell’età della società non sono davvero in relazione con
l’aumento del crimine in tutto il paese.
Una
seconda spiegazione mette in relazione la criminalità alla modernizzazione
e ai fattori che la accompagnano come l’urbanizzazione, la densità della
popolazione, le occasioni per violare la legge e così via. Si sa che ci
sono più furti d’auto e d’appartamento nelle grandi città che nelle
zone rurali, semplicemente perché nelle prime è più facile trovare
automobili e case vuote. Ma l’urbanizzazione e il cambiamento
dell’ambiente fisico spiegano ben poco l’aumento del tasso di criminalità
nei paesi sviluppati dopo il 1960. Nel 1960 i paesi che stiamo considerando
erano già società industrializzate e urbanizzate; nel 1965 non si è
verificato uno spostamento improvviso dalle campagne alle città. Negli
Stati Uniti gli omicidi sono molto più numerosi al Sud, sebbene il Nord sia
più urbano e più densamente popolato. In realtà la violenza al Sud è un
fenomeno rurale e la maggior parte degli osservatori che ha studiato il
problema crede che l’alto tasso di omicidi abbia una spiegazione
culturale. Il Giappone, la Corea, Hong Kong e Singapore sono fra gli
ambienti urbani più densamente popolati in tutto il mondo, eppure
l’arrivo dell’urbanizzazione non ha portato una crescita della
criminalità. Questo suggerisce che nel determinare i livelli di criminalità
l’ambiente umano e sociale sia molto più importante di quello fisico.
Una
terza spiegazione viene a volte eufemisticamente chiamata “eterogeneità
sociale”. In molte società il crimine tende a concentrarsi fra le
minoranze razziali o etniche; quando le società divengono etnicamente più
variegate, come praticamente è successo in tutti i paesi occidentali
sviluppati nelle ultime due generazioni, ci si può aspettare una crescita
della criminalità. Questo è dovuto molto probabilmente, come sostengono i
criminologi Richard Cloward e Lloyd Ohlin, al fatto che alle minoranze sono
precluse le giuste vie della mobilità sociale, cosa che non accade per i
membri della maggioranza. In altri casi il problema è rappresentato
dall’eterogeneità di per sé: i vicinati troppo diversi per cultura,
lingua, religione e etnia non diventano mai comunità in grado di far
rispettare regole ai loro membri. Tuttavia la crescita della criminalità
negli Stati Uniti può essere solo in parte imputata all’immigrazione.
Una
quarta spiegazione riguarda i cambiamenti più o meno contemporanei della
famiglia. La scuola di criminologia americana oggi più accreditata sostiene
che la socializzazione della prima infanzia è uno dei fattori più
importanti nel determinare il successivo livello di criminalità. Questo
vuol dire che la maggior parte delle persone non scelgono quotidianamente se
commettere o meno un crimine, soppesando i rischi e i vantaggi, come a volte
suggerisce la scuola della scelta razionale. La maggior parte della gente
obbedisce alla legge, soprattutto per quanto riguarda le offese serie, in
base ad un’abitudine appresa relativamente presto nella vita. La maggior
parte dei crimini vengono commessi da delinquenti recidivi che non sono
riusciti ad imparare quest’autocontrollo. In molti casi non agiscono
razionalmente ma seguono un impulso. Poiché non riescono a prevedere le
conseguenze, la prospettiva della pena per loro non costituisce un
deterrente.
Perché
aumenta la sfiducia?
Parlando
di fiducia, valori e società civile, bisogna spiegare due cose: perché
c’è stato un calo così diffuso della fiducia tanto nelle istituzioni
quanto negli altri e come si può riconciliare il passaggio ad un minor
numero di regole comuni con l’apparente crescita di gruppi e di densità
della società civile.
Le
ragioni del calo di fiducia nel contesto americano sono state ampiamente
discusse. Robert Putnam sosteneva che poteva essere messo in relazione con
la diffusione della televisione, poiché la prima generazione cresciuta
guardando la televisione è stata quella che ha visto il più precipitoso
crollo dei livelli della fiducia. Non soltanto il contenuto della
televisione educa al cinismo per la sua attenzione verso il sesso e la
violenza, ma il fatto che gli americani spendano in media più di quattro
ore al giorno guardando la televisione, limita le opportunità per le
attività sociali con gli altri.
Si
tende a pensare, comunque, che un fenomeno vasto come il calo della fiducia
abbia diverse cause, delle quali la televisione è soltanto una. Tom Smith,
del National Opinion Research Center, ha elaborato un’analisi statistica
dei risultati dei sondaggi sul tema e ha scoperto che la mancanza di fiducia
è in correlazione con status socioeconomici umili, appartenenza alle
minoranze, esperienze personali traumatiche, religione e età. La gente
povera e poco istruita tende ad essere più diffidente dei benestanti e di
chi ha frequentato l’università. I neri sono notevolmente più diffidenti
dei bianchi, ed esiste una certa correlazione fra la sfiducia e lo status di
immigrato. Le esperienze traumatiche che influenzano la fiducia sono, come
ci si può aspettare, subire un crimine e essere in cattiva salute. La
diffidenza si associa sia a coloro che non frequentano la chiesa sia ai
fondamentalisti. E i giovani sono più diffidenti degli anziani.
Quale
di questi fattori è cambiato dagli anni Sessanta per poter giustificare
questo fenomeno? La disuguaglianza dei redditi è leggermente aumentata e
Eric Uslaner, dell’Università del Maryland, suggerisce che questo
potrebbe essere responsabile in parte della crescita della sfiducia. Ma il
tasso di povertà in questo periodo ha fluttuato senza complessivamente
aumentare e per la maggior parte degli americani la cosiddetta “crisi
della middle-class” non ha rappresentato un calo del reddito reale, quanto
una stasi dei guadagni. Dalla metà degli anni Sessanta alla metà degli
anni Novanta la criminalità è aumentata drammaticamente ed è normale che
chi sia stato vittima di un crimine o guardi sulle Tv locali la quotidiana
cavalcata di macabra cronaca nera, provi diffidenza non per gli amici e i
familiari più vicini ma per il mondo esterno. La criminalità, quindi,
sembrerebbe una spiegazione importante per la crescita di sfiducia
verificatasi dopo il 1965, una conclusione confortata anche da analisi più
dettagliate.
L’altro
grande cambiamento sociale che ha prodotto esperienze traumatiche è stato
l’aumento dei divorzi e la disgregazione delle famiglie. Affidandosi al
buon senso, si è portati a pensare che i bambini che hanno vissuto il
divorzio dei loro genitori, o che hanno dovuto avere a che fare con una
serie di fidanzati in una famiglia con un solo genitore, tendano a diventare
cinici verso gli adulti in generale, e questo potrebbe arrivare a spiegare
l’aumento dei livelli di diffidenza che presentano i sondaggi.
Malgrado
l’evidente crescita dei sfiducia, i gruppi e le associazioni sono in
aumento. Il modo più logico di riconciliare la perdita di fiducia con
l’aumento delle associazioni è di riscontrare una riduzione del raggio
della fiducia, non soltanto negli Stati Uniti ma in tutto il mondo
sviluppato È difficile interpretare in altro modo i dati sui valori e sulla
società civile. Si continua a condividere regole e valori così da
costituire capitale sociale, riunendosi in sempre più gruppi e
associazioni. Ma questi gruppi sono molto cambiati. L’autorità di gran
parte delle grandi organizzazioni è tramontata ed è cresciuta nelle vite
dei cittadini l’importanza di una serie di associazioni più piccole.
Piuttosto che essere orgogliosi di
far parte di un potente sindacato o di lavorare per una grande compagnia o
di aver prestato servizio nell’esercito, ci si identifica socialmente con
il gruppo di aerobica, una comunità New Age, un gruppo di supporto, o in
una stanza dove si chatta via internet. Invece di cercare valori vincolanti
in una chiesa che un tempo regolava la cultura della società, la gente
seleziona e sceglie i propri valori su una base individuale, legandosi a
piccole comunità di gente che la pensa allo stesso modo.
Questo
spostamento verso gruppi più piccoli si riflette in politica nella crescita
quasi universale di gruppi di interesse a discapito dei grandi partiti
politici. Partiti come i democristiani tedeschi o i laburisti inglesi hanno
una posizione coerente sull’intera gamma di questioni che una società
deve affrontare, dalla difesa nazionale all’assistenza sociale. Anche se
hanno la loro base tradizionale in una particolare classe sociale, questi
partiti uniscono un’ampia coalizione di interessi e personalità.
I
gruppi d’interesse, invece, si concentrano su una sola questione come
salvare le foreste pluviali o sostenere l’allevamento di polli nell’alto
Midwest; possono avere una portata transnazionale, ma hanno molta meno
autorità sia per la quantità di questioni di cui si occupano, sia per il
numero di persone che richiamano. Gli americani contemporanei, e anche gli
europei, vogliono cose contraddittorie.
Sono
sempre più diffidenti verso qualsiasi autorità, politica o morale, che
possa limitare la loro libertà di scelta, ma vogliono anche un senso di
comunità e i vantaggi che derivano dalla comunità come il riconoscimento
reciproco, la partecipazione, l’appartenenza e l’identità. Bisogna
perciò trovare la comunità in gruppi e organizzazioni più piccole, più
flessibili, la cui appartenenza e lealtà si possa sovrapporre, e dove
entrare e uscire comporti costi relativamente bassi. Così è possibile
riconciliare i desideri contraddittori di autonomia e comunità. Ma in
questo scambio la comunità che ricevono diventa più piccola e più debole
della maggior parte di quelle che sono esistite in passato.
Ogni
comunità ha meno in comune con le altre e ha relativamente meno presa sui
suoi membri. Il circolo di fiducia è necessariamente più piccolo.
L’essenza del cambiamento di valori al centro della Grande Rottura è
quindi l’ascesa dell’individualismo morale e la conseguente
miniaturizzazione della comunità. Questo spiega in parte perché i valori
culturali sono cambiati dopo gli anni Sessanta. Ma fondamentale per la
Grande Rottura è stato il cambiamento dei valori sul sesso e la famiglia;
un cambiamento che merita una particolare enfasi.
Uomini
che si comportano male
Sebbene
si possa sicuramente affermare che il ruolo della madre abbia il suo
fondamento nella biologia, il ruolo del padre è in gran parte costruito
socialmente. Come dice l’antropologa Margaret Mead, «a un certo punto
agli albori della storia dell’uomo, comparve un’invenzione sociale in
base alla quale i maschi iniziarono a prendersi cura delle femmine e dei
loro piccoli». Il ruolo del maschio divenne procurare risorse; «dovunque
fra gli esseri umani [il maschio] aiuta a procurare il cibo per le donne e
per i bambini». Trattandosi di un comportamento acquisito, questo ruolo del
maschio è soggetto a interruzioni. La Mead ha scritto: «Ma i fatti
indicano che bisogna formulare la questione in maniera diversa per gli
uomini e per le donne, che gli uomini devono imparare a volersi occupare
degli altri e questo comportamento, essendo acquisito, è fragile e può
facilmente essere abbandonato in condizioni sociali che non lo insegnino più
efficacemente».
Il
ruolo dei padri, in altre parole, varia per cultura e tradizione da un
intenso coinvolgimento nell’allevare ed educare i figli, a una presenza più
distante come colui che protegge e disciplina, alla quasi assenza di un
portare di stipendio. È molto difficile separare una madre dal figlio
appena nato; al contrario, spesso è molto difficile far interessare un
padre al suo. Ponendo in questo contesto i legami di parentela e la
famiglia, diventa più facile comprendere perché nelle due ultime
generazioni le famiglie hanno iniziato a disgregarsi così rapidamente. Il
legame familiare era relativamente fragile, basato sullo scambio fra la
fertilità della donna e le risorse dell’uomo. Prima della Grande Rottura,
in tutte le società occidentali esistevano complesse serie di leggi,
regole, norme e obblighi, formali e non, che proteggevano le madri e i figli
e precludevano ai padri la possibilità di abbandonare una famiglia e
iniziarne un’altra. Oggi per molti il matrimonio è una specie di
celebrazione pubblica di un’unione sessuale ed emotiva fra due adulti, ed
è per questo che è possibile che negli Stati Uniti e in altri paesi
sviluppati si istituiscano i matrimoni omosessuali. Ma storicamente il
matrimonio esisteva per dare protezione legale all’unità madre-figlio e
per garantire che il padre fornisse risorse economiche che permettessero ai
figli di diventare adulti autosufficienti.
Cosa
ha prodotto la rottura delle regole che vincolavano il comportamento
maschile e dello scambio che si basava su di esse? Nel primo dopoguerra si
sono verificati due cambiamenti molto importanti. Il primo riguardava i
progressi della medicina – vale a dire la contraccezione e l’aborto –
che hanno consentito alle donne di controllare meglio la loro riproduzione.
Il secondo è stato l’ingresso delle donne nel lavoro pagato in quasi
tutti i paesi industrializzati e il costante aumento dei loro redditi in
relazione a quelli degli uomini negli ultimi trent’anni. Il controllo
delle nascite non ha soltanto diminuito la fertilità. In realtà, se la
contraccezione serve a ridurre il numero delle gravidanze indesiderate, è
difficile spiegare perché esso sia stato accompagnato da un’esplosione di
figli illegittimi e un aumento degli aborti, o perché l’uso del controllo
delle nascite è decisamente correlato all’illegittimità per l’Ocse.
Poiché la contraccezione e l’aborto permettevano per la prima volta alle
donne di avere rapporti sessuali senza doversi preoccupare delle
conseguenze, gli uomini si sono sentiti liberi dal dovere di occuparsi delle
donne che mettevano in cinta.
Il
secondo fattore che ha mutato il comportamento maschile è stato
l’ingresso delle donne nel lavoro retribuito. La regola della
responsabilità maschile ne è stata ulteriormente indebolita. Divorziando
da una moglie senza mezzi di sostentamento, l’uomo doveva affrontare la
prospettiva di pagare gli alimenti o di vedere i suoi figli cadere in povertà.
Con molte donne che guadagnano quanto i mariti, questo non è più un
problema. Il venire meno della regola della responsabilità maschile, a sua
volta, ha reso necessario che le donne si armassero di abilità lavorative
in modo da non dipendere da mariti sempre più inaffidabili. Date le alte
probabilità che un primo matrimonio finisca in divorzio, le donne di oggi
sarebbero stupide a non prepararsi al lavoro.
Il
declino della famiglia nucleare in Occidente ha avuto degli effetti molto
negativi sul capitale sociale ed è stato accompagnato da un aumento di
povertà per chi si trovava ai piedi della gerarchia sociale, da un aumento
della criminalità ed infine da una perdita di fiducia. Ma indicare le
ripercussioni negative sul capitale sociale dei cambiamenti nella famiglia
non è assolutamente un modo per imputare alle donne la responsabilità di
questi problemi. L’ingresso delle donne nel mondo del lavoro, il costante
rimpicciolirsi del divario con i guadagni degli uomini, e la maggiore
possibilità di controllare la fertilità sono delle cose ottime. Il
cambiamento più importante si è verificato nelle regole che imponevano
agli uomini la responsabilità delle mogli e dei figli. Anche se esso è
stato innescato dalla contraccezione e dalla crescita dei guadagni delle
donne, gli uomini sono responsabili delle conseguenze. E non è che prima
gli uomini si fossero sempre comportati bene: la stabilità delle famiglie
tradizionali aveva spesso un caro prezzo in termini di dolore fisico ed
emotivo e di perdita di opportunità, costi che ricadevano
sproporzionatamente sulle spalle delle donne.
D’altro
canto questi grandi cambiamenti nel ruolo dei sessi non sono stati una cosa
del tutto positiva, come sostengono alcune femministe. I guadagni sono stati
accompagnati da perdite, che sono ricadute sproporzionatamente sulle spalle
dei figli. Nessuno dovrebbe esserne sorpreso: visto che i ruoli femminili
erano tradizionalmente concentrati sulla riproduzione e sui figli, non ci si
poteva aspettare che il fatto che le donne lasciassero il focolare ed
entrassero nel mondo del lavoro non avesse delle conseguenze per le
famiglie.
Ricostruire
il capitale sociale
Come
si può ricostruire il capitale sociale in futuro? Il fatto che la cultura e
la politica pubblica riescano a fornire alla società un certo controllo sul
ritmo e sul grado di disgregazione, a lungo termine non aiuta a stabilire
come istituire l’ordine sociale all’inizio del Ventunesimo secolo. Il
Giappone e alcuni paesi cattolici sono riusciti a mantenere saldi i valori
familiari più tradizionali più a lungo della Scandinavia e del mondo
anglofono, cosa che li ha risparmiati da alcuni costi sociali pagati da
quest’ultimi. Ma è difficile immaginare che riusciranno a mantenerli per
le prossime generazioni ed è ancora più difficile che riescano a
ri-istituire qualcosa che si avvicini alla famiglia nucleare dell’era
industriale, con il padre che lavorava e la madre che restava a casa ad
allevare i bambini. Se anche fosse possibile, non sarebbe desiderabile.
Sembra
di essere rimasti in trappola: andare avanti sembra promettere livelli in
continua crescita di disordine e di atomizzazione sociale, mentre la
ritirata è sbarrata. Questo significa forse che le società liberali sono
destinate a discendere in un declino morale e un’anarchia sociale sempre
maggiori, fino ad implodere? Avevano ragione Edmund Burke e gli altri
critici dell’Illuminismo, quando sostenevano che l’anarchia era
l’inevitabile prodotto degli sforzi per sostituire la tradizione e la
religione con la ragione?
La
risposta, secondo me, è no per la semplicissima ragione che noi esseri
umani siamo destinati per natura a creare per noi stessi regole morali e
ordine sociale. La mancanza di regole – quello che il sociologo Emile
Durkheim definì “anomìa” – ci mette molto a disagio e cercheremo di
creare nuove regole per sostituire quelle che sono state eliminate. Se la
tecnologia rende insostenibili alcune vecchie forme di comunità, allora ne
troveremo di nuove e useremo la ragione per negoziare disposizioni adatte ai
nostri interessi, alle nostre necessità e alle nostre passioni.
Per
capire perché la situazione attuale non è senza speranze, è necessario
considerare le origini dell’ordine sociale, ad un livello più astratto.
Spesso nelle discussioni culturali si tratta l’ordine sociale come una
serie statica di regole tramandateci dalle generazioni precedenti. Se ci si
trova in un paese a basso capitale sociale e con un basso livello di
fiducia, non ci si può fare niente. Ovviamente è vero che la politica
pubblica ha una capacità relativamente limitata di manipolare la cultura e
che le migliori politiche pubbliche sono quelle modellate dalla
consapevolezza dei limiti culturali. Ma la cultura è una forza dinamica che
viene costantemente ricostruita, se non dai governi, dall’interazione
delle migliaia di individui decentralizzati che costituiscono una società.
Sebbene la cultura tenda ad evolvere più lentamente delle istituzioni
politiche e sociali formali, essa si adatta ai mutamenti delle circostanze.
L’ordine e il capitale sociale hanno due ampie basi a loro sostegno. La
prima è biologica ed ha origine nella natura umana stessa. Vi sono prove
sempre maggiori, provenienti dalle scienze naturali, dell’ineguatezza del
modello standard delle scienze sociali e del fatto che gli esseri umani
nascono con strutture cognitive pre-esistenti e capacità di apprendimento
specifiche dell’età che li portano naturalmente nella società. In altre
parole, esiste la natura umana. Per i sociologi e gli antropologi questo
significa che è necessario ripensare il relativismo culturale e che è
possibile discernere universali culturali e morali che, se utilizzati con
giudizio, possono aiutare a valutare particolari pratiche culturali. Il
comportamento umano, inoltre, non è plastico e quindi manipolabile come le
loro discipline hanno presunto per gran parte di questo secolo. Per gli
economisti, l’esistenza della natura umana significa che la concezione
sociologica dell’uomo come essere innatamente sociale è più accurata del
loro modello individualistico. E per chi non è né sociologo, né
economista, un’umanità essenziale conferma una serie di opinioni comuni
su come la gente pensa e agisce, risolutamente ricusate dalla precedente
generazione di sociologi; per esempio che gli uomini e le donne sono diversi
per natura, che siamo creature politiche e sociali con istinti morali e così.
Questo è estremamente importante, perché vuol dire che il capitale sociale
tende ad essere prodotto dagli esseri umani per istinto.
L’altra
base su cui poggia l’ordine sociale è la ragione umana e la capacità
della ragione di trovare spontaneamente soluzioni ai problemi della
cooperazione sociale. La naturale facoltà degli uomini di creare capitale
sociale non spiega, però, come questo nasca in circostanze specifiche. La
creazione di particolari norme comportamentali è un prodotto della cultura
piuttosto che della natura e nel regno della prima troviamo che l’ordine
spesso è il risultato di un processo di trattative orizzontali, di
discussioni e di dialogo fra gli individui. L’ordine non deve
necessariamente partire dall’alto – da un legislatore (o, in termini
contemporanei, uno Stato) che emette le leggi o da un prete che promulga la
parola di Dio. Né l’ordine naturale né quello spontaneo sono di per sé
sufficienti a produrre la totalità di regole che costituisce l’ordine
sociale. Entrambe hanno bisogno di essere completate dall’autorità
gerarchica in momenti cruciali. Ma se guardiamo indietro nella storia,
vediamo che gli individui che si organizzano da soli hanno sempre creato
materiale sociale per se stessi e sono riusciti ad adattarsi a cambiamenti
tecnologici ed economici maggiori di quelli affrontati dalle società
occidentali nelle ultime due generazioni. Il periodo vittoriano in Gran
Bretagna e in America potrebbe apparire come l’incarnazione dei valori
tradizionali, ma era in realtà un movimento radicale nato in reazione ai
diffusi disordini sociali dell’inizio del Diciannovesimo secolo; un
movimento che cercava deliberatamente di creare nuove regole sociali e di
istillare la virtù in popolazioni che sembravano sguazzare nella
degenerazione. Sarebbe sbagliato affermare che il maggiore ordine sociale
che si instaurò in Gran Bretagna e in America durante il periodo vittoriano
fu semplicemente il risultato di regole morali mutate. In questo periodo
entrambe le società istituirono moderne forze dell’ordine, che
sostituirono il guazzabuglio di organismi locali e di incaricati scarsamente
addestrati che esisteva all’inizio del Diciannovesimo secolo.
Verso
la fine del secolo molti Stati iniziarono a istituire un sistema
d’istruzione universale, che cercava di mettere tutti i bambini americani
in scuole pubbliche e gratuite; un processo che in Gran Bretagna iniziò un
po’ più tardi. Ma il cambiamento essenziale riguardò i valori piuttosto
che le istituzioni.
Nelle
due prossime generazioni potrebbe ripetersi quello che è accaduto in Gran
Bretagna e negli Stati Uniti nella seconda metà del Diciannovesimo secolo?
Vi sono molti fattori che indicano che la Grande Rottura ha fatto il suo
corso e che il processo di ri-regolamentazione è già iniziato. La crescita
dei tassi di criminalità, di divorzi, di illegittimità e di sfiducia è
notevolmente rallentata e negli anni Novanta si è addirittura capovolta in
molti dei paesi che avevano visto esplodere il disordine nelle ultime due
generazioni. Questo è vero soprattutto per gli Stati Uniti, dove la
criminalità è scesa di un buon 15 per cento dal punto massimo toccato
all’inizio degli anni Novanta. I divorzi hanno raggiunto il massimo
all’inizio degli anni Ottanta, e le nascite fuori dal matrimonio sembrano
aver smesso di aumentare. I sussidi previdenziali sono diminuiti quasi
drasticamente come la criminalità in seguito alle misure della riforma del
1996 e dalle opportunità fornite da un’economia di quasi piena
occupazione negli anni Novanta. Anche la fiducia nelle istituzioni e negli
individui è aumentata significativamente dall’inizio degli anni Novanta.
Fin
dove arriverà questa ri-regolamentazione della società? È molto più
probabile che vedremo dei drastici cambiamenti nel livello della criminalità
e della fiducia, piuttosto che nelle norme sul sesso, la riproduzione e le
famiglie. In realtà questo processo è già in corso nei primi due campi.
Per quanto riguarda il sesso e la riproduzione, però, le condizioni
economiche e tecnologiche del nostro tempo rendono estremamente improbabile
che accada qualcosa come un ritorno ai valori vittoriani. Severe norme
sessuali hanno senso in una società nella quale il sesso senza regole ha
un’alta probabilità di portare a una gravidanza ed avere un figlio fuori
dal matrimonio porta all’indigenza, se non alla morte prematura, per la
madre e per il bambino. La prima di queste condizioni è scomparsa con la
contraccezione; la seconda è stata molto mitigata, anche se non eliminata,
dalla combinazione del reddito delle donne e dei sussidi previdenziali.
Alcuni conservatori religiosi sperano, e i liberali temono, che il problema
del declino morale sarà risolto da un massiccio ritorno all’ortodossia
religiosa; una versione occidentale dell’Ayatollah Khomeini che torna in
Iran in aereo. Questo sembra molto improbabile per svariate ragioni. Le
società moderne sono così culturalmente variegate che non si sa bene quale
ortodossia prevarrebbe. Qualsiasi ortodossia vera verrebbe vista come una
minaccia per gruppi folti e importanti della società e quindi non farebbe
molta strada, né servirebbe da base per allungare il raggio della fiducia.
Invece di integrare la società, una restaurazione religiosa conservatrice
potrebbe in realtà accelerarne la frammentazione e la miniaturizzazione
morale: le diverse varietà di fondamentalisti protestanti discuterebbero
fra loro sulla dottrina; gli ebrei ortodossi diventerebbero più ortodossi;
i musulmani e gli induisti potrebbero iniziare ad organizzarsi in comunità
politico-religiose e simili.
È
molto più probabile che un ritorno alla religiosità prenda una forma più
benevola, come per alcuni aspetti sta già accadendo in molte parti degli
Stati Uniti. Invece di avere una comunità frutto di una fede rigida, la
gente cercherà la religione spinta dal desiderio di comunità. In altre
parole, le persone riscopriranno la religione non necessariamente perché
accettano la verità della rivelazione, ma proprio perché l’assenza di
comunità e la transitorietà dei legami sociali nel mondo secolare fa
sentire loro il bisogno di tradizioni rituali e culturali. Aiuteranno il
povero e il prossimo non necessariamente perché la dottrina dice loro di
farlo, ma perché vogliono servire la loro comunità e pensano che le
organizzazioni basate sulla fede siano il modo più efficace per farlo.
Ripeteranno vecchie preghiere e vecchi rituali non perché credono che siano
stati tramandati da Dio, ma perché vogliono che i figli abbiano i valori
giusti e perché vogliono godere della serenità e del senso di condivisione
del rituale. In questi termini la religione perde il suo carattere
gerarchico e diventa una manifestazione di ordine spontaneo.
La
religione è una delle due cose che contribuiscono ad allargare il raggio
della fiducia. L’altra è la politica. In Occidente il cristianesimo ha
introdotto per primo il principio dell’universalità della dignità umana,
un principio proveniente dai cieli e trasformato dall’Illuminismo nella
dottrina secolare dell’eguaglianza universale fra gli uomini. Oggi
chiediamo che sia la politica a sostenere quasi interamente il peso di
quest’impresa e ci sta riuscendo davvero bene. Le nazioni costruite su
princìpi liberali universali sono state sorprendentemente elastiche negli
ultimi duecento anni, malgrado frequenti ricadute e limiti. Un ordine
politico basato sull’identità etnica serba non andrà mai oltre i confini
di qualche angolo dei Balcani e sicuramente non diventerà mai il principio
guida di società moderne grandi, variegate, dinamiche e complesse come, per
esempio, quelle che costituiscono il G7.
Sembra
che siano in corso due processi paralleli. Nella sfera politica ed economica
la storia sembra essere progressiva e andare avanti e, alla fine del
Ventesimo secolo, ha condotto alla democrazia liberale come unica
alternativa praticabile per le società tecnologicamente avanzate. Nella
sfera sociale e morale, invece, la storia sembra essere ciclica, con
l’ordine sociale che cresce e decresce nel corso delle generazioni. Niente
garantisce che il ciclo svolti verso l’alto; l’unica ragione per sperare
è l’innata, fortissima capacità degli uomini di ricostituire l’ordine
sociale. La risalita della freccia della storia dipende dal successo di
questo processo di ricostruzione.
Francis
Fukuyama
(traduzione dall’inglese di Barbara Mennitti)
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