| Rileggere il
    craxismoIL NODO DI GORDIO
    DELLA TRANSIZIONE
 di Domenico
    Mennitti
Fare
    storia del presente è il più difficile degli esercizi. Ma è anche il più
    utile. Soprattutto per una fase controversa come quella del craxismo i cui
    nodi irrisolti condizionano ancora la politica dei nostri giorni. In questo
    quadro va sollecitato, nei limiti che sono propri di un dibattito fra
    studiosi, un chiarimento di tutto il nostro passato più prossimo e, quindi,
    del nostro inquieto presente. Deriva da questo convincimento la nostra
    scelta di pubblicare una sezione nella quale storici e studiosi
    dell’Italia contemporanea di diversa formazione ideale tentano, in piena
    autonomia, un approfondimento su ciò che Craxi e gli anni da lui vissuti da
    protagonista hanno rappresentato per la storia politica e per il costume del
    paese. La nostra decisione non è scaturita dalle vicende recenti che hanno
    riproposto il caso Craxi per cercare una soluzione umanitaria, sollecitata
    dalle precarie condizioni della sua salute, o per proporre iniziative
    giudiziarie atte a modificare il suo stato di cittadino colpito da sentenze
    passate in giudicato, in modo da porre fine – seguendo una strada o
    l’altra – al disagio del lungo rifugio in Tunisia di un ex presidente
    del Consiglio. Noi vorremmo riuscire a restar fuori da questo quadro di
    solidarietà pelose e di rancori livorosi. Non condividiamo la tesi secondo
    la quale la Prima Repubblica è finita a causa di un complotto organizzato
    da magistrati filocomunisti. Tangentopoli non è stata la causa della caduta
    di quel sistema, piuttosto la conseguenza della crisi che investì la
    politica e ne paralizzò ogni capacità di evoluzione. Dentro quella crisi
    c’è tutto: da un lato la corruzione, che aveva raggiunto punte di
    insostenibilità perché non riguardava neppure più solo il costo della
    politica, ma s’era diffusa agli arricchimenti personali; dall’altro il
    ritardo culturale nella interpretazione dei nuovi bisogni emergenti. Gli
    errori di Tangentopoli sono successivi e riguardano la scelta di campo
    politico delle procure più impegnate, che hanno scompaginato una parte e
    protetto l’altra del sistema di malaffare che era esercitato dai partiti;
    si riferiscono al tentativo, tuttora in corso, di alcuni pubblici ministeri
    di aprire o sbarrare strade ai movimenti politici ricorrendo alla
    inquisizione giudiziaria, alimentata da furori ideologici. Craxi, essendo
    stato protagonista del suo tempo, è sovraesposto per tutti gli aspetti: per
    quelli della corruzione, ma pure per gli altri – le riforme istituzionali,
    la modernizzazione del paese – per i quali manifestò sensibilità
    accentuate ed intuizioni felici.
    
    
    
     Perciò,
    l’approfondimento che proponiamo e che ci accingiamo a condurre con libertà
    intellettuale ed anche con una punta di spregiudicatezza, mira soprattutto a
    fornire utili indicazioni per la comprensione della lunga transizione.
    Premesso che Craxi ha consentito alla politica italiana di 
    attraversare un frangente assai particolare e difficile, si tratta di
    capire – nel quadro di una valutazione globale della storia italiana di
    questo dopoguerra, spingendosi oltre le dispute di parte – quali siano
    stati, dal punto di vista storico e della cultura politica, i caratteri
    propri di tale frangente e quale sia stata l’eredità che ne è derivata
    ai partiti ed ai movimenti attualmente presenti sulla scena politica
    nazionale.
    
    
    
    
     
    I
    tempi sono maturi per tracciare un primo bilancio
    
    
    
    
    
     Si
    pongono perciò alcune domande essenziali: che cosa hanno rappresentato
    Craxi e il craxismo nella storia politica dell’Italia repubblicana? Quale
    impatto e quali conseguenze ha prodotto sulla cultura politica del nostro
    paese l’esperienza – partitica e di governo – dell’ex leader
    socialista?
    
    
     Ancora
    oggi – lo sappiamo bene – qualcuno obietterà che porre simili domande
    è provocatorio, inutile o prematuro. Provocatorio perché c’è il
    rischio, attraverso la risposta a tali questioni, di giungere (magari del
    tutto involontariamente) ad una sorta di polemica e strumentale
    rivalutazione o riabilitazione di un personaggio in effetti controverso.
    Sulla sua figura, infatti, si sono accumulati, già negli anni
    dell’impegno politico diretto in qualità di segretario del Psi e di
    presidente del Consiglio, rancori ed odi viscerali, resi più acuti dalle
    vicende che hanno accompagnato Tangentopoli e che proprio nella persona di
    Craxi hanno trovato, secondo alcuni, un suggello simbolico non del tutto
    casuale. Inutile perché la vicenda Craxi probabilmente non presenta,
    considerata nel suo insieme, elementi di novità tali da giustificare una
    lettura della storia politica italiana degli ultimi vent’anni incentrata
    sulla sua persona. Prematuro, infine, perché l’eccessiva vicinanza ai
    fatti che hanno avuto Craxi come protagonista, di per sé dovrebbe
    scoraggiare qualunque tentativo di comprensione e di giudizio in chiave di
    analisi storico-politica.
    
    
     I
    tempi però sono maturi per tracciare un primo – necessariamente
    provvisorio – bilancio critico dell’esperienza politica craxiana. È la
    stessa cronaca di questi ultimi anni – diremmo di queste ultime settimane
    – a suggerire un tale bilancio e quindi l’avvio di una seria riflessione
    di natura storico-politica. L’ombra di Craxi, qualunque cosa si pensi
    dell’uomo e del politico, continua ad aleggiare sulla scena italiana,
    condizionandola. Che si tratti del problema relativo al rapporto tra
    democrazia e denaro (e, in subordine, del problema relativo ai costi della
    politica), della riforma istituzionale, dei rapporti tra forze politiche e
    magistratura, del successo di Forza Italia e delle scelte politiche e
    strategiche di Silvio Berlusconi, del “passato che non passa” di alcuni
    dei partiti che hanno fatto la storia della Prima Repubblica (a partire
    dagli eredi del Pci), dei cambiamenti in atto nella sinistra italiana ed
    europea, del collocamento del nostro paese sulla scena internazionale, del
    rapporto tra intellettuali e politica, dell’aggiornamento dei patti fra lo
    Stato e la Chiesa; che si tratti di uno qualunque di questi argomenti, sullo
    sfondo rimane, per così dire, il “nodo Craxi”, probabilmente risolto
    sul piano della lotta politica, ma ancora da chiarire sul piano
    dell’interpretazione storica generale, anch’essa carica di conseguenze
    politiche.
    
    
    
    
     
    Interprete
    della tradizione autonomista del Psi
    
    
    
    
    
     La
    storia del Psi nel dopoguerra si divide in due fasi ben distinte, che hanno
    avuto entrambe come riferimento Pietro Nenni. La prima è quella frontista,
    che si caratterizzò per la piena collaborazione – ed anche per la totale
    soggezione – nei confronti del Pci, che si può simbolicamente raffigurare
    con l’attribuzione del premio Stalin a Nenni, completamente appiattito su
    Togliatti. La seconda è la stagione autonomista, annunziata al congresso di
    Venezia nel 1957, che condusse in pochi anni i socialisti al governo,
    allargando – con la formula del centro-sinistra – la base elettorale e
    parlamentare della maggioranza. Craxi deve considerarsi a pieno titolo nella
    tradizione culturale del Psi, in quella socialdemocratica però, della
    seconda fase. Assumendo la carica di segretario nazionale del partito nel
    1976, a chiusura della drammatica assemblea del Midas, egli si sforzò
    subito di reinterpretare questa tradizione in modo originale sotto il
    profilo ideologico, spesso allontanandosene nella pratica politica. In
    questo senso la sua azione ha rappresentato un momento di rottura con il
    passato, soprattutto nei rapporti col Pci, ed ha lasciato anche tracce
    durature per il futuro. Recuperando infatti il patrimonio della
    socialdemocrazia europea, impadronendosene e allo stesso tempo dandone una
    lettura assai particolare, ha monopolizzato una risorsa politica di assoluto
    rilievo che in Italia non era stata mai sufficientemente messa a frutto,
    sottraendola ai suoi concorrenti. Non è un caso che, ancora oggi, gli
    orfani del comunismo dissertino di “nuova sinistra” e “terza via” e
    sembrino aver saltato del tutto la fase socialdemocratica. La strategia
    fondamentale di Craxi puntò a riprodurre a parti invertite il processo
    storico che nel dopoguerra aveva portato il Pci a diventare il principale
    partito della sinistra a scapito del Psi. Le condizioni internazionali degli
    anni Ottanta erano favorevoli, però quelle domestiche sono risultate
    fortemente condizionate dalla intesa fra cattolici e comunisti, che aveva
    ispirato la Costituzione del 1948 e determinato l’intero processo politico
    della Prima Repubblica.
    
    
     Fondamentale
    ci sembra lo sforzo politico e concettuale compiuto da Craxi per incrinare
    la tendenza egemonica e compromissoria 
    della cultura marxista, in quegli anni al suo culmine. Il nuovo corso
    socialista puntò ad aprire nel tessuto culturale della sinistra, occupato
    di fatto dalla soffocante vocazione centripeta del Pci, spazi di
    elaborazione critica e di aggregazione alternativa degli intellettuali. In
    questo quadro si iscrive il recupero del patrimonio politico nazionale
    simboleggiato dalla figura di Garibaldi, la rivalutazione di pensatori come
    Proudhon, il ruolo di riviste come Mondoperaio, l’apertura – oltre le
    mura del Palazzo – alla società civile, forse semplicisticamente
    identificata con la “élite senza potere” di registi, attori e cantanti.
    Va ricordato, come evento di grande spessore culturale e di preveggente
    attualità, la Biennale del dissenso, interpretata allora da gran parte del
    mondo intellettuale come esempio di strumentale polemica anticomunista.
    
    
     La
    stagione craxiana nacque riformista particolarmente sui temi istituzionali.
    Il nuovo leader socialista intuì che le condizioni dalle quali era
    scaturita la organizzazione dello Stato repubblicano, segnate dalle
    esperienze del fascismo e della guerra, erano venute meno e che perciò i
    tempi erano maturi per considerare superato lo schema dei vecchi rapporti e
    porre mano immediatamente all’opera di modernizzazione della macchina
    pubblica. Craxi si pose l’obiettivo della rottura dello schema bipolare
    Dc-Pci, che nella seconda metà degli anni Settanta si era accentuato sino
    alla realizzazione della maxi-maggioranza di Andreotti e Berlinguer, e riuscì
    a conquistare una centralità nello schieramento politico che si concretizzò
    nella progressiva crisi dei due partiti maggiori e nella formazione della
    maggioranza di pentapartito, fondata sulla pari dignità tra i cinque
    partiti e sul principio dell’alternanza alla guida del governo.
    Contemporanemente si pose il problema del recupero della destra al gioco
    politico, ponendo fine alla pesante discriminazione alla quale il Msi era
    stato sottoposto nel ventennio 1960/1980 e riconoscendogli il ruolo
    istituzionale di partito di opposizione. Egli partecipò proprio ad
    Almirante, nel corso delle consultazioni che precedettero la formazione del
    suo primo governo, il convincimento di ritenere esaurito l’effetto
    politico della cosiddetta filosofia dell’arco costituzionale ed aprì uno
    spiraglio di possibile intesa sul piano istituzionale abbracciando la tesi
    della riforma presidenziale dello Stato, sulla quale il Msi era da tempo
    schierato. Sui temi istituzionali quindi avvenne il recupero della destra
    come interlocutore politico e così si evidenziò la prima incrinatura nella
    strategia compromissoria alimentata dalla Dc e dal Pci, che soffocava
    qualisasi ipotesi di alternanza.  Questi
    argomenti per merito di Craxi scossero la staticità culturale del Paese ed
    imposero un dibattito serrato, recuperandolo dall’area di marginalità
    dove l’intellighenzia ufficiale italiana l’aveva relegato, classificando
    quelle idee come “golliste”, volendole in verità indicare come
    “golpiste”.
    
    
     Però
    su questo fronte l’azione si svolse troppo a fasi alterne, a prescindere
    dalle difficoltà obiettive di realizzare il progetto in un quadro politico
    che si caratterizzava per la prevenuta opposizione a qualsiasi cambiamento.
    La proposta di riforma dello Stato in senso presidenziale non fu danneggiata
    – come qualcuno sostenne – dall’immagine decisionista di Craxi,
    piuttosto dalla frammentarietà del progetto che – ad esempio – mostrò
    scarsa attenzione alla riforma elettorale, la quale invece manifestò appena
    qualche anno dopo d’essere il grimaldello adatto a scardinare il vecchio
    sistema. Noi pensiamo che le riforme istituzionali rappresentino ancora oggi
    il punto di ingorgo del sistema costituzionale e di quello politico e che la
    transizione durerà, influendo negativamente sulle condizioni del paese,
    sino a quando quelle pagine della Costituzione non saranno riscritte. E
    sosteniamo che questo passaggio sarebbe stato risolutivo nei primi anni
    Novanta, quando il fallimento della commissione Bicamerale, affidata alla
    presidenza di De Mita prima e della Iotti poi, diede il segnale definitivo
    ed inequivocabile che la crisi della politica s’era tradotta nella
    paralisi del sistema.
    
    
     Il
    Craxi che ancora alla fine del 1991 mostrava certezza d’essere l’arbitro
    dei destini del paese e che avrebbe potuto scegliere per sé se tornare a
    Palazzo Chigi o trasferirsi al Quirinale, trasmetteva la sensazione d’aver
    perso di vista il tema sul quale la sua originalità più s’era segnalata.
    L’aver sacrificato troppo al feticcio della “governabilità”, sino a
    mettere in ombra il disegno della Grande Riforma, va considerato un elemento
    di crisi interno al progetto. La verità è che la gestione del potere negli
    anni della Prima Repubblica ha seguito delle prassi ed ha funzionato secondo
    meccanismi assai precisi, spesso descritti con il termine
    “partitocrazia”. Rispetto a questa prassi ed a questi meccanismi, la
    stagione craxiana ha fatto registrare momenti di accelerazione e di
    inasprimento, ma pure di rallentamento e di accondiscendenza, avvalorando
    infine la tesi che si sia trattato dell’evoluzione dall’interno di un
    sistema politico rimasto sostanzialmente lo stesso. Per quel tanto che il
    poco tempo trascorso consente di valutare sul piano storico, a noi sembra di
    dovere affermare che il sistema di potere socialista è ordinariamente
    considerato come una continuazione di quello democristiano; per certi
    aspetti più spregiudicato ed anche più cinico, essendo stato il campo sul
    quale si sono giocati molti regolamenti di conti. Craxi avvertì il disagio
    delle guerre fra bande e in qualche circostanza rese anche palese il suo
    rammarico, ma non ne fu vittima, piuttosto protagonista, essendo anch’egli
    alla testa di un gruppo che, per garantirsi il primato, doveva far ricorso
    agli stessi metodi ed agli stessi mezzi delle altre componenti.
    
    
    
     Proprio
    nel rapporto molto stretto concepito dal Psi fra autonomia finanziaria ed
    autonomia politica si può cogliere uno dei limiti del progetto craxiano, il
    cui fallimento è attribuibile alle difficoltà esterne ma pure a ragioni
    intrinseche. La concezione disinvolta del reperimento dei fondi necessari a
    sostenere l’attività politica aiuta molto ad individuare la ragione della
    accentuata esposizione all’azione penale di Tangentopoli. La tesi del
    complotto giudiziario, sempre ribadita da molti protagonisti dell’epoca,
    equivale a sostenere che non c’è stato niente di degenerativo nel modo in
    cui i socialisti hanno gestito, a fini politico-partitici, le risorse
    finanziarie pubbliche ed il sistema delle tangenti: si è trattato, a loro
    avviso, di un modo deliberato e consapevole (peraltro motivato dalla precisa
    esigenza storica di sottrarsi alla condizione di subalternità nei confronti
    del Pci ed della Dc) di gestire con spregiudicatezza il rapporto fra
    politica e risorse finanziarie. Una tesi che non è riuscita a far breccia
    nella coscienza degli italiani.
    
    
    
    
     
    Un
    importante fattore di crescita per il paese
    
    
    
     
    
    
     Il
    periodo craxiano ha rappresentato un’epoca di grande e veloce sviluppo
    economico. Non avrebbe gran senso confrontare i quasi quattro anni di
    governo craxiano dell’economia con i sette anni e mezzo di Alcide De
    Gasperi per la eccezionalità delle circostanze che caratterizzarono la
    ricostruzione. Più paragonabile è la legislatura del centro-sinistra: il
    confronto suggerisce di primo acchito l’idea dell’ingresso, con lo
    sventurato Aldo Moro, nel tunnel di una lunga crisi economica e
    socio-politica; e dell’uscita da questo tunnel con Bettino Craxi. Egli ha
    avuto la fortuna di governare in tempi migliori, ma anche il merito di
    promuovere una grande espansione produttiva: la sua presenza a Palazzo Chigi
    coincise con un evento, discutibile e tuttavia impressionante, come il
    sorpasso da parte nostra dell’Inghilterra dal settimo al sesto posto nella
    graduatoria mondiale delle potenze economiche. Il valore emblematico di
    quell’evento fu tale da abbracciare persino cicli diversi della storia
    italiana e si diffuse l’impressione che eravamo fuori non solo dalla
    profonda depressione degli anni Settanta, ma anche, per qualche aspetto,
    dalla sconfitta subita nella seconda guerra mondiale. Vanno registrati
    risultati significativi: fu ridimensionata l’inflazione, risanato
    l’assetto finanziario delle imprese, ridotta la conflittualità sindacale,
    rivitalizzata la Borsa. La legge finanziaria tornò ad essere approvata nei
    termini, interrompendo il ricorso puntuale e scandaloso all’esercizio
    provvisorio del bilancio. Si avviò anche un profondo processo di
    modernizzazione sociale, obiettivo che, per altro, il leader socialista ha
    perseguito consapevolmente. Viene abitualmente citato il referendum sulla
    scala mobile, ma ci sembra vada ripensato con attenzione anche il processo
    di liberalizzazione dell’etere che ha aperto a una nuova imprenditoria un
    settore in espansione, allargando i ristretti confini dell’economia
    privata in Italia. Questo processo è stato spesso criticato e letto
    soltanto nell’ottica della edificazione del sistema di potere socialista,
    mentre noi pensiamo che in questo caso Craxi abbia rappresentato un
    importante fattore nella crescita del paese. Si obietta che negli anni
    Ottanta il debito pubblico italiano sia cresciuto in maniera esponenziale e
    si è sviluppata una corrente di opinione pubblica che in quel debito vede
    un segno del deterioramento della vita politica, economica e morale del
    paese. Però, a parte il fatto che i numeri, se ben letti, danno di questo
    fenomeno una dimensione più contenuta di quella corrente (la percentuale
    della spesa pubblica sul Pil era del 52,1 nel 1982 con Spadolini e, dopo
    essere salita di due punti nel 1983, nel 1986 era ancora al 53,2 per cento),
    le vicende che stiamo vivendo all’interno dell’Europa dell’euro
    dimostrano che la riduzione del debito di bilancio non è risultato che si
    possa considerare come dato assoluto. Il recente successo conseguito nello
    stabilizzare il settore finanziario sta addirittura complicando le difficoltà
    dell’economia reale, che soffre molto la competizione internazionale anche
    perché, se guardiamo con attenzione alla presenza delle aziende italiane
    nei comparti strategici, dobbiamo prendere atto che non siamo più presenti
    in settori trainanti quali l’elettronica, la biochimica, le
    telecomunicazioni. Non c’è ragione di ostentare sorpresa quando le
    graduatorie ufficializzano il nostro ritardo di competitività rispetto ai
    paesi più avanzati. Sembra utile perciò promuovere un approfondimento per
    capire quale funzione abbia avuto quel debito pubblico dell’era craxiana
    nella redistribuzione del reddito, nello sviluppo economico, nel rapporto
    fra Nord e Sud, nella salvaguardia degli equilibri sociali. In altre parole,
    per capire che tipo d’Italia abbiamo ricevuto in eredità e che tipo
    d’Italia ci troviamo oggi a gestire. Senza proporre paragoni azzardati, si
    può ricordare che anche la gestione Reagan gonfiò il debito pubblico con
    conseguenze a lungo termine non certo negative per l’economia americana.
    
    
     Di
    certo Craxi fu uomo sensibile ai problemi della modernizzazione della società
    italiana, ma subì il condizionamento della propria storia politica e
    culturale che non gli consentì neppure d’immaginare come si sarebbe
    trasformato il quadro degli schieramenti e quanto su di essi avrebbe
    influito la precipitosa crisi del comunismo. Nella realtà il suo progetto,
    man mano ch’egli interpretava le nuove esigenze della società italiana
    immettendo dosi di liberalismo, era andato oltre le stesse posizioni
    socialdemocratiche, aggettivo allora da utilizzare con mille cautele perché
    la cultura ufficiale gli attribuiva un significato equivoco, di compromesso.
    Craxi era considerato un liberalsocialista e la definizione era caricata di
    ambiguità; perciò egli non poteva imprimere la spinta decisiva perché
    quel progetto divenisse “liberal-democratico”, come lo definiremmo
    tranquillamente oggi, quando la guerra delle parole non incute più timori e
    non suggerisce reticenze. Ove avesse compiuto consapevolmente questa scelta,
    avrebbe dovuto compierne un’altra di collocazione politica; ma Craxi era
    socialista, aveva combattutto una dura lotta contro il Pci e riteneva
    d’averla vinta, restò immerso nell’area della sinistra, dove la crisi
    era diventata così profonda da non consentire neppure a lui di cogliere la
    dimensione dei cambiamenti del 1989. La incoerenza fra le idee sostenute e
    lo schieramento politico prescelto, valutata oggi, può essere considerata
    una causa determinante del suo declino. Berlusconi, infatti, che non aveva
    obblighi di appartenenza, si qualificò liberaldemocratico e si collocò
    coerentemente nell’area di centro-destra, dove nel frattempo erano
    cambiati i connotati del centro e della destra, diventati il primo
    antagonista della sinistra e la seconda affidabile forza democratica. Il
    fatto che la maggioranza degli elettori del Psi abbia votato per Forza
    Italia sin dal 1994 (insieme a tutti quegli italiani genericamente
    liberaldemocratici che Craxi non riuscì mai a conquistare) significa che
    quella evoluzione era logica e naturale.
    
    
    
    
     
    Un
    uomo che aveva perso il rapporto con il paese
    
    
    
    
    
    
     Nei
    primi anni Novanta davanti ai più evidenti segnali di crisi del sistema
    politico repubblicano – in particolare l’inizio di Tangentopoli e i
    referendum sul sistema elettorale – Craxi reagì con fastidio e arroganza,
    sembrando non presagire affatto la sua prossima fine politica. In molti si
    chiedono come un uomo, che sulla sensibilità politica e sulla capacità
    d’interpretare l’opinione pubblica aveva costruito la propria fortuna,
    abbia potuto perdere completamente il rapporto con il paese. L’unica
    risposta che abbia senso è che avesse esaurito la funzione politica e che
    non fosse più nella condizione intellettuale, morale, forse anche fisica di
    inserirsi in una prospettiva di rinnovamento. In politica un protagonista
    finisce quando non è più in sintonia con il suo popolo e perde i
    riferimenti internazionali che contano. Abbiamo già scritto che la tomba
    politica di Craxi fu quel camper in cui incontrò Forlani e insieme
    disegnarono la mappa del potere, del quale entrambi non disponevano più.
    Non avevano capito la direzione ed il senso di quello che poi tutti
    avrebbero chiamato “il vento dell’89”; Craxi in particolare non era
    riuscito ad interpretare la ragione della solitudine nella quale s’era
    ritrovato quando ordinò perentoriamente di andare al mare agli italiani che
    invece preferirono affollare i seggi elettorali; non si rese conto che, in
    fila dietro De Mita nel sostenere una riforma parlamentare, aveva perduto il
    ruolo di grande sostenitore della repubblica presidenziale, s’era
    spogliato del patrimonio delle idee che professava e, contemporaneamente,
    delle speranze che suscitava. Sul piano internazionale, infine, dopo alcuni
    successi, Craxi non era più riuscito a stare dalla parte giusta, come
    testimoniano le scelte sulle vertenze del Medio Oriente. La prova è nel
    fatto che ora incontra difficiltà ad essere accolto persino in paesi
    tradizionalmente considerati “terre d’asilo”.
    
    
    
     No,
    Tangentopoli non fu la causa della fine del regime; sopravvenne quando la
    crisi s’incancrenì e riuscì a produrre effetti così forti perché la
    politica era debole, senza progetto, identificata con i “mariuoli”. E
    contro i ladri il processo penale è sufficiente a spazzare la piazza, dove
    s’impongono i furori giustizialisti. Certo, alla costruzione della “via
    giudiziaria al comunismo” ha lavorato a lungo in Italia un gruppo elitario
    e d’altronde l’irruzione sulla scena giudiziaria della corrente di
    Magistratura Democratica è considerata lo strappo più profondo intervenuto
    nella concenzione dell’amministrazione della giustizia. Tuttavia siamo
    dell’avviso che Tangentopoli abbia portato alla ribalta un fenomeno nuovo
    e più complesso, che si manifesta nella contrapposizione del “potere
    buono” dei giudici contro il “potere cattivo” dei politici
    (interpretazione efficacissima di Cossiga) ed ha messo in campo una nuova
    realtà, che si può indicare con il nome di “partito dei giudici”. Il
    nodo sempre più perverso dei rapporti politica-magistratura (la debolezza
    della prima e l’influenza montante della seconda fuori dai propri ambiti
    istituzionali) è tutt’altro che specifico del caso italiano. Il crescente
    potere dei giudici è una linea di tendenza propria a molte altre democrazie
    avanzate e supera lo schema cospiratorio di Tangentopoli e delle “toghe
    rosse”. La sinistra ha beneficiato e beneficia dell’azione giudiziaria,
    che non l’ha investita e colpita, ma ha fatto prigionieri, anzi ostaggi, 
    anche in quell’area. Questa considerazione rafforza l’opinione
    che la via giudiziaria si è aperta perché quella politica è rimasta
    sbarrata per troppo tempo a causa di interminabili lavori. Quando i politici
    non esercitano più le loro funzioni sopravvengono i tecnocrati: magistrati,
    militari, alti burocrati della finanza e dell’economia.
    
    
     Se non
    fosse per le conseguenze devastanti prodotte sulla salute
    dell’interessato, le vicende giudiziarie le lasceremmo alla cronaca, ma
    vale – al punto in cui sono le cose – porsi un’ultima domanda. Sebbene
    abbia in gran parte promosso il rinnovamento della classe politica, da un
    punto di vista processuale il ciclone giudiziario che ha abbattuto la Prima
    Repubblica non può essere considerato che un fenomeno abortito. Il senatore
    a vita Giulio Andreotti è stato assolto a Perugia e a Palermo. Arnaldo
    Forlani è un uomo libero e Ciriaco De Mita è deputato nazionale ed
    europeo. Fra gli uomini del Psi, uno – Amato – è attualmente ministro
    del Tesoro; un altro – Martelli – è parlamentare a Strasburgo; Mancini
    è stato assolto dall’accusa d’aver fatto politica con l’aiuto della
    mafia e fa il sindaco a Cosenza; Benvenuto e Del Turco, i due successori
    alla segreteria, presiedono importanti commissioni parlamentari. Fra i
    massimi leader della Prima Repubblica, l’unico a pagare sul piano
    giudiziario è Bettino Craxi. È giusto che ciò avvenga o è tempo di porsi
    il problema della “moralità” di Tangentopoli? Che effetto fa alla
    coscienza civile di questo paese l’aver scaricato su un unico capro
    espiatorio tutte le responsabilità di una stagione politica? 
    (Ideazione Gennaio-Febbraio 2000) |  |