Rileggere il craxismo
IL NODO DI GORDIO
DELLA TRANSIZIONE
di Domenico Mennitti

Fare storia del presente è il più difficile degli esercizi. Ma è anche il più utile. Soprattutto per una fase controversa come quella del craxismo i cui nodi irrisolti condizionano ancora la politica dei nostri giorni. In questo quadro va sollecitato, nei limiti che sono propri di un dibattito fra studiosi, un chiarimento di tutto il nostro passato più prossimo e, quindi, del nostro inquieto presente. Deriva da questo convincimento la nostra scelta di pubblicare una sezione nella quale storici e studiosi dell’Italia contemporanea di diversa formazione ideale tentano, in piena autonomia, un approfondimento su ciò che Craxi e gli anni da lui vissuti da protagonista hanno rappresentato per la storia politica e per il costume del paese. La nostra decisione non è scaturita dalle vicende recenti che hanno riproposto il caso Craxi per cercare una soluzione umanitaria, sollecitata dalle precarie condizioni della sua salute, o per proporre iniziative giudiziarie atte a modificare il suo stato di cittadino colpito da sentenze passate in giudicato, in modo da porre fine – seguendo una strada o l’altra – al disagio del lungo rifugio in Tunisia di un ex presidente del Consiglio. Noi vorremmo riuscire a restar fuori da questo quadro di solidarietà pelose e di rancori livorosi. Non condividiamo la tesi secondo la quale la Prima Repubblica è finita a causa di un complotto organizzato da magistrati filocomunisti. Tangentopoli non è stata la causa della caduta di quel sistema, piuttosto la conseguenza della crisi che investì la politica e ne paralizzò ogni capacità di evoluzione. Dentro quella crisi c’è tutto: da un lato la corruzione, che aveva raggiunto punte di insostenibilità perché non riguardava neppure più solo il costo della politica, ma s’era diffusa agli arricchimenti personali; dall’altro il ritardo culturale nella interpretazione dei nuovi bisogni emergenti. Gli errori di Tangentopoli sono successivi e riguardano la scelta di campo politico delle procure più impegnate, che hanno scompaginato una parte e protetto l’altra del sistema di malaffare che era esercitato dai partiti; si riferiscono al tentativo, tuttora in corso, di alcuni pubblici ministeri di aprire o sbarrare strade ai movimenti politici ricorrendo alla inquisizione giudiziaria, alimentata da furori ideologici. Craxi, essendo stato protagonista del suo tempo, è sovraesposto per tutti gli aspetti: per quelli della corruzione, ma pure per gli altri – le riforme istituzionali, la modernizzazione del paese – per i quali manifestò sensibilità accentuate ed intuizioni felici.

Perciò, l’approfondimento che proponiamo e che ci accingiamo a condurre con libertà intellettuale ed anche con una punta di spregiudicatezza, mira soprattutto a fornire utili indicazioni per la comprensione della lunga transizione. Premesso che Craxi ha consentito alla politica italiana di  attraversare un frangente assai particolare e difficile, si tratta di capire – nel quadro di una valutazione globale della storia italiana di questo dopoguerra, spingendosi oltre le dispute di parte – quali siano stati, dal punto di vista storico e della cultura politica, i caratteri propri di tale frangente e quale sia stata l’eredità che ne è derivata ai partiti ed ai movimenti attualmente presenti sulla scena politica nazionale.

I tempi sono maturi per tracciare un primo bilancio

Si pongono perciò alcune domande essenziali: che cosa hanno rappresentato Craxi e il craxismo nella storia politica dell’Italia repubblicana? Quale impatto e quali conseguenze ha prodotto sulla cultura politica del nostro paese l’esperienza – partitica e di governo – dell’ex leader socialista?

Ancora oggi – lo sappiamo bene – qualcuno obietterà che porre simili domande è provocatorio, inutile o prematuro. Provocatorio perché c’è il rischio, attraverso la risposta a tali questioni, di giungere (magari del tutto involontariamente) ad una sorta di polemica e strumentale rivalutazione o riabilitazione di un personaggio in effetti controverso. Sulla sua figura, infatti, si sono accumulati, già negli anni dell’impegno politico diretto in qualità di segretario del Psi e di presidente del Consiglio, rancori ed odi viscerali, resi più acuti dalle vicende che hanno accompagnato Tangentopoli e che proprio nella persona di Craxi hanno trovato, secondo alcuni, un suggello simbolico non del tutto casuale. Inutile perché la vicenda Craxi probabilmente non presenta, considerata nel suo insieme, elementi di novità tali da giustificare una lettura della storia politica italiana degli ultimi vent’anni incentrata sulla sua persona. Prematuro, infine, perché l’eccessiva vicinanza ai fatti che hanno avuto Craxi come protagonista, di per sé dovrebbe scoraggiare qualunque tentativo di comprensione e di giudizio in chiave di analisi storico-politica.

I tempi però sono maturi per tracciare un primo – necessariamente provvisorio – bilancio critico dell’esperienza politica craxiana. È la stessa cronaca di questi ultimi anni – diremmo di queste ultime settimane – a suggerire un tale bilancio e quindi l’avvio di una seria riflessione di natura storico-politica. L’ombra di Craxi, qualunque cosa si pensi dell’uomo e del politico, continua ad aleggiare sulla scena italiana, condizionandola. Che si tratti del problema relativo al rapporto tra democrazia e denaro (e, in subordine, del problema relativo ai costi della politica), della riforma istituzionale, dei rapporti tra forze politiche e magistratura, del successo di Forza Italia e delle scelte politiche e strategiche di Silvio Berlusconi, del “passato che non passa” di alcuni dei partiti che hanno fatto la storia della Prima Repubblica (a partire dagli eredi del Pci), dei cambiamenti in atto nella sinistra italiana ed europea, del collocamento del nostro paese sulla scena internazionale, del rapporto tra intellettuali e politica, dell’aggiornamento dei patti fra lo Stato e la Chiesa; che si tratti di uno qualunque di questi argomenti, sullo sfondo rimane, per così dire, il “nodo Craxi”, probabilmente risolto sul piano della lotta politica, ma ancora da chiarire sul piano dell’interpretazione storica generale, anch’essa carica di conseguenze politiche.

Interprete della tradizione autonomista del Psi

La storia del Psi nel dopoguerra si divide in due fasi ben distinte, che hanno avuto entrambe come riferimento Pietro Nenni. La prima è quella frontista, che si caratterizzò per la piena collaborazione – ed anche per la totale soggezione – nei confronti del Pci, che si può simbolicamente raffigurare con l’attribuzione del premio Stalin a Nenni, completamente appiattito su Togliatti. La seconda è la stagione autonomista, annunziata al congresso di Venezia nel 1957, che condusse in pochi anni i socialisti al governo, allargando – con la formula del centro-sinistra – la base elettorale e parlamentare della maggioranza. Craxi deve considerarsi a pieno titolo nella tradizione culturale del Psi, in quella socialdemocratica però, della seconda fase. Assumendo la carica di segretario nazionale del partito nel 1976, a chiusura della drammatica assemblea del Midas, egli si sforzò subito di reinterpretare questa tradizione in modo originale sotto il profilo ideologico, spesso allontanandosene nella pratica politica. In questo senso la sua azione ha rappresentato un momento di rottura con il passato, soprattutto nei rapporti col Pci, ed ha lasciato anche tracce durature per il futuro. Recuperando infatti il patrimonio della socialdemocrazia europea, impadronendosene e allo stesso tempo dandone una lettura assai particolare, ha monopolizzato una risorsa politica di assoluto rilievo che in Italia non era stata mai sufficientemente messa a frutto, sottraendola ai suoi concorrenti. Non è un caso che, ancora oggi, gli orfani del comunismo dissertino di “nuova sinistra” e “terza via” e sembrino aver saltato del tutto la fase socialdemocratica. La strategia fondamentale di Craxi puntò a riprodurre a parti invertite il processo storico che nel dopoguerra aveva portato il Pci a diventare il principale partito della sinistra a scapito del Psi. Le condizioni internazionali degli anni Ottanta erano favorevoli, però quelle domestiche sono risultate fortemente condizionate dalla intesa fra cattolici e comunisti, che aveva ispirato la Costituzione del 1948 e determinato l’intero processo politico della Prima Repubblica.

Fondamentale ci sembra lo sforzo politico e concettuale compiuto da Craxi per incrinare la tendenza egemonica e compromissoria  della cultura marxista, in quegli anni al suo culmine. Il nuovo corso socialista puntò ad aprire nel tessuto culturale della sinistra, occupato di fatto dalla soffocante vocazione centripeta del Pci, spazi di elaborazione critica e di aggregazione alternativa degli intellettuali. In questo quadro si iscrive il recupero del patrimonio politico nazionale simboleggiato dalla figura di Garibaldi, la rivalutazione di pensatori come Proudhon, il ruolo di riviste come Mondoperaio, l’apertura – oltre le mura del Palazzo – alla società civile, forse semplicisticamente identificata con la “élite senza potere” di registi, attori e cantanti. Va ricordato, come evento di grande spessore culturale e di preveggente attualità, la Biennale del dissenso, interpretata allora da gran parte del mondo intellettuale come esempio di strumentale polemica anticomunista.

La stagione craxiana nacque riformista particolarmente sui temi istituzionali. Il nuovo leader socialista intuì che le condizioni dalle quali era scaturita la organizzazione dello Stato repubblicano, segnate dalle esperienze del fascismo e della guerra, erano venute meno e che perciò i tempi erano maturi per considerare superato lo schema dei vecchi rapporti e porre mano immediatamente all’opera di modernizzazione della macchina pubblica. Craxi si pose l’obiettivo della rottura dello schema bipolare Dc-Pci, che nella seconda metà degli anni Settanta si era accentuato sino alla realizzazione della maxi-maggioranza di Andreotti e Berlinguer, e riuscì a conquistare una centralità nello schieramento politico che si concretizzò nella progressiva crisi dei due partiti maggiori e nella formazione della maggioranza di pentapartito, fondata sulla pari dignità tra i cinque partiti e sul principio dell’alternanza alla guida del governo. Contemporanemente si pose il problema del recupero della destra al gioco politico, ponendo fine alla pesante discriminazione alla quale il Msi era stato sottoposto nel ventennio 1960/1980 e riconoscendogli il ruolo istituzionale di partito di opposizione. Egli partecipò proprio ad Almirante, nel corso delle consultazioni che precedettero la formazione del suo primo governo, il convincimento di ritenere esaurito l’effetto politico della cosiddetta filosofia dell’arco costituzionale ed aprì uno spiraglio di possibile intesa sul piano istituzionale abbracciando la tesi della riforma presidenziale dello Stato, sulla quale il Msi era da tempo schierato. Sui temi istituzionali quindi avvenne il recupero della destra come interlocutore politico e così si evidenziò la prima incrinatura nella strategia compromissoria alimentata dalla Dc e dal Pci, che soffocava qualisasi ipotesi di alternanza.  Questi argomenti per merito di Craxi scossero la staticità culturale del Paese ed imposero un dibattito serrato, recuperandolo dall’area di marginalità dove l’intellighenzia ufficiale italiana l’aveva relegato, classificando quelle idee come “golliste”, volendole in verità indicare come “golpiste”.

Però su questo fronte l’azione si svolse troppo a fasi alterne, a prescindere dalle difficoltà obiettive di realizzare il progetto in un quadro politico che si caratterizzava per la prevenuta opposizione a qualsiasi cambiamento. La proposta di riforma dello Stato in senso presidenziale non fu danneggiata – come qualcuno sostenne – dall’immagine decisionista di Craxi, piuttosto dalla frammentarietà del progetto che – ad esempio – mostrò scarsa attenzione alla riforma elettorale, la quale invece manifestò appena qualche anno dopo d’essere il grimaldello adatto a scardinare il vecchio sistema. Noi pensiamo che le riforme istituzionali rappresentino ancora oggi il punto di ingorgo del sistema costituzionale e di quello politico e che la transizione durerà, influendo negativamente sulle condizioni del paese, sino a quando quelle pagine della Costituzione non saranno riscritte. E sosteniamo che questo passaggio sarebbe stato risolutivo nei primi anni Novanta, quando il fallimento della commissione Bicamerale, affidata alla presidenza di De Mita prima e della Iotti poi, diede il segnale definitivo ed inequivocabile che la crisi della politica s’era tradotta nella paralisi del sistema.

Il Craxi che ancora alla fine del 1991 mostrava certezza d’essere l’arbitro dei destini del paese e che avrebbe potuto scegliere per sé se tornare a Palazzo Chigi o trasferirsi al Quirinale, trasmetteva la sensazione d’aver perso di vista il tema sul quale la sua originalità più s’era segnalata. L’aver sacrificato troppo al feticcio della “governabilità”, sino a mettere in ombra il disegno della Grande Riforma, va considerato un elemento di crisi interno al progetto. La verità è che la gestione del potere negli anni della Prima Repubblica ha seguito delle prassi ed ha funzionato secondo meccanismi assai precisi, spesso descritti con il termine “partitocrazia”. Rispetto a questa prassi ed a questi meccanismi, la stagione craxiana ha fatto registrare momenti di accelerazione e di inasprimento, ma pure di rallentamento e di accondiscendenza, avvalorando infine la tesi che si sia trattato dell’evoluzione dall’interno di un sistema politico rimasto sostanzialmente lo stesso. Per quel tanto che il poco tempo trascorso consente di valutare sul piano storico, a noi sembra di dovere affermare che il sistema di potere socialista è ordinariamente considerato come una continuazione di quello democristiano; per certi aspetti più spregiudicato ed anche più cinico, essendo stato il campo sul quale si sono giocati molti regolamenti di conti. Craxi avvertì il disagio delle guerre fra bande e in qualche circostanza rese anche palese il suo rammarico, ma non ne fu vittima, piuttosto protagonista, essendo anch’egli alla testa di un gruppo che, per garantirsi il primato, doveva far ricorso agli stessi metodi ed agli stessi mezzi delle altre componenti.

Proprio nel rapporto molto stretto concepito dal Psi fra autonomia finanziaria ed autonomia politica si può cogliere uno dei limiti del progetto craxiano, il cui fallimento è attribuibile alle difficoltà esterne ma pure a ragioni intrinseche. La concezione disinvolta del reperimento dei fondi necessari a sostenere l’attività politica aiuta molto ad individuare la ragione della accentuata esposizione all’azione penale di Tangentopoli. La tesi del complotto giudiziario, sempre ribadita da molti protagonisti dell’epoca, equivale a sostenere che non c’è stato niente di degenerativo nel modo in cui i socialisti hanno gestito, a fini politico-partitici, le risorse finanziarie pubbliche ed il sistema delle tangenti: si è trattato, a loro avviso, di un modo deliberato e consapevole (peraltro motivato dalla precisa esigenza storica di sottrarsi alla condizione di subalternità nei confronti del Pci ed della Dc) di gestire con spregiudicatezza il rapporto fra politica e risorse finanziarie. Una tesi che non è riuscita a far breccia nella coscienza degli italiani.

Un importante fattore di crescita per il paese  

Il periodo craxiano ha rappresentato un’epoca di grande e veloce sviluppo economico. Non avrebbe gran senso confrontare i quasi quattro anni di governo craxiano dell’economia con i sette anni e mezzo di Alcide De Gasperi per la eccezionalità delle circostanze che caratterizzarono la ricostruzione. Più paragonabile è la legislatura del centro-sinistra: il confronto suggerisce di primo acchito l’idea dell’ingresso, con lo sventurato Aldo Moro, nel tunnel di una lunga crisi economica e socio-politica; e dell’uscita da questo tunnel con Bettino Craxi. Egli ha avuto la fortuna di governare in tempi migliori, ma anche il merito di promuovere una grande espansione produttiva: la sua presenza a Palazzo Chigi coincise con un evento, discutibile e tuttavia impressionante, come il sorpasso da parte nostra dell’Inghilterra dal settimo al sesto posto nella graduatoria mondiale delle potenze economiche. Il valore emblematico di quell’evento fu tale da abbracciare persino cicli diversi della storia italiana e si diffuse l’impressione che eravamo fuori non solo dalla profonda depressione degli anni Settanta, ma anche, per qualche aspetto, dalla sconfitta subita nella seconda guerra mondiale. Vanno registrati risultati significativi: fu ridimensionata l’inflazione, risanato l’assetto finanziario delle imprese, ridotta la conflittualità sindacale, rivitalizzata la Borsa. La legge finanziaria tornò ad essere approvata nei termini, interrompendo il ricorso puntuale e scandaloso all’esercizio provvisorio del bilancio. Si avviò anche un profondo processo di modernizzazione sociale, obiettivo che, per altro, il leader socialista ha perseguito consapevolmente. Viene abitualmente citato il referendum sulla scala mobile, ma ci sembra vada ripensato con attenzione anche il processo di liberalizzazione dell’etere che ha aperto a una nuova imprenditoria un settore in espansione, allargando i ristretti confini dell’economia privata in Italia. Questo processo è stato spesso criticato e letto soltanto nell’ottica della edificazione del sistema di potere socialista, mentre noi pensiamo che in questo caso Craxi abbia rappresentato un importante fattore nella crescita del paese. Si obietta che negli anni Ottanta il debito pubblico italiano sia cresciuto in maniera esponenziale e si è sviluppata una corrente di opinione pubblica che in quel debito vede un segno del deterioramento della vita politica, economica e morale del paese. Però, a parte il fatto che i numeri, se ben letti, danno di questo fenomeno una dimensione più contenuta di quella corrente (la percentuale della spesa pubblica sul Pil era del 52,1 nel 1982 con Spadolini e, dopo essere salita di due punti nel 1983, nel 1986 era ancora al 53,2 per cento), le vicende che stiamo vivendo all’interno dell’Europa dell’euro dimostrano che la riduzione del debito di bilancio non è risultato che si possa considerare come dato assoluto. Il recente successo conseguito nello stabilizzare il settore finanziario sta addirittura complicando le difficoltà dell’economia reale, che soffre molto la competizione internazionale anche perché, se guardiamo con attenzione alla presenza delle aziende italiane nei comparti strategici, dobbiamo prendere atto che non siamo più presenti in settori trainanti quali l’elettronica, la biochimica, le telecomunicazioni. Non c’è ragione di ostentare sorpresa quando le graduatorie ufficializzano il nostro ritardo di competitività rispetto ai paesi più avanzati. Sembra utile perciò promuovere un approfondimento per capire quale funzione abbia avuto quel debito pubblico dell’era craxiana nella redistribuzione del reddito, nello sviluppo economico, nel rapporto fra Nord e Sud, nella salvaguardia degli equilibri sociali. In altre parole, per capire che tipo d’Italia abbiamo ricevuto in eredità e che tipo d’Italia ci troviamo oggi a gestire. Senza proporre paragoni azzardati, si può ricordare che anche la gestione Reagan gonfiò il debito pubblico con conseguenze a lungo termine non certo negative per l’economia americana.

Di certo Craxi fu uomo sensibile ai problemi della modernizzazione della società italiana, ma subì il condizionamento della propria storia politica e culturale che non gli consentì neppure d’immaginare come si sarebbe trasformato il quadro degli schieramenti e quanto su di essi avrebbe influito la precipitosa crisi del comunismo. Nella realtà il suo progetto, man mano ch’egli interpretava le nuove esigenze della società italiana immettendo dosi di liberalismo, era andato oltre le stesse posizioni socialdemocratiche, aggettivo allora da utilizzare con mille cautele perché la cultura ufficiale gli attribuiva un significato equivoco, di compromesso. Craxi era considerato un liberalsocialista e la definizione era caricata di ambiguità; perciò egli non poteva imprimere la spinta decisiva perché quel progetto divenisse “liberal-democratico”, come lo definiremmo tranquillamente oggi, quando la guerra delle parole non incute più timori e non suggerisce reticenze. Ove avesse compiuto consapevolmente questa scelta, avrebbe dovuto compierne un’altra di collocazione politica; ma Craxi era socialista, aveva combattutto una dura lotta contro il Pci e riteneva d’averla vinta, restò immerso nell’area della sinistra, dove la crisi era diventata così profonda da non consentire neppure a lui di cogliere la dimensione dei cambiamenti del 1989. La incoerenza fra le idee sostenute e lo schieramento politico prescelto, valutata oggi, può essere considerata una causa determinante del suo declino. Berlusconi, infatti, che non aveva obblighi di appartenenza, si qualificò liberaldemocratico e si collocò coerentemente nell’area di centro-destra, dove nel frattempo erano cambiati i connotati del centro e della destra, diventati il primo antagonista della sinistra e la seconda affidabile forza democratica. Il fatto che la maggioranza degli elettori del Psi abbia votato per Forza Italia sin dal 1994 (insieme a tutti quegli italiani genericamente liberaldemocratici che Craxi non riuscì mai a conquistare) significa che quella evoluzione era logica e naturale.

Un uomo che aveva perso il rapporto con il paese

Nei primi anni Novanta davanti ai più evidenti segnali di crisi del sistema politico repubblicano – in particolare l’inizio di Tangentopoli e i referendum sul sistema elettorale – Craxi reagì con fastidio e arroganza, sembrando non presagire affatto la sua prossima fine politica. In molti si chiedono come un uomo, che sulla sensibilità politica e sulla capacità d’interpretare l’opinione pubblica aveva costruito la propria fortuna, abbia potuto perdere completamente il rapporto con il paese. L’unica risposta che abbia senso è che avesse esaurito la funzione politica e che non fosse più nella condizione intellettuale, morale, forse anche fisica di inserirsi in una prospettiva di rinnovamento. In politica un protagonista finisce quando non è più in sintonia con il suo popolo e perde i riferimenti internazionali che contano. Abbiamo già scritto che la tomba politica di Craxi fu quel camper in cui incontrò Forlani e insieme disegnarono la mappa del potere, del quale entrambi non disponevano più. Non avevano capito la direzione ed il senso di quello che poi tutti avrebbero chiamato “il vento dell’89”; Craxi in particolare non era riuscito ad interpretare la ragione della solitudine nella quale s’era ritrovato quando ordinò perentoriamente di andare al mare agli italiani che invece preferirono affollare i seggi elettorali; non si rese conto che, in fila dietro De Mita nel sostenere una riforma parlamentare, aveva perduto il ruolo di grande sostenitore della repubblica presidenziale, s’era spogliato del patrimonio delle idee che professava e, contemporaneamente, delle speranze che suscitava. Sul piano internazionale, infine, dopo alcuni successi, Craxi non era più riuscito a stare dalla parte giusta, come testimoniano le scelte sulle vertenze del Medio Oriente. La prova è nel fatto che ora incontra difficiltà ad essere accolto persino in paesi tradizionalmente considerati “terre d’asilo”.

No, Tangentopoli non fu la causa della fine del regime; sopravvenne quando la crisi s’incancrenì e riuscì a produrre effetti così forti perché la politica era debole, senza progetto, identificata con i “mariuoli”. E contro i ladri il processo penale è sufficiente a spazzare la piazza, dove s’impongono i furori giustizialisti. Certo, alla costruzione della “via giudiziaria al comunismo” ha lavorato a lungo in Italia un gruppo elitario e d’altronde l’irruzione sulla scena giudiziaria della corrente di Magistratura Democratica è considerata lo strappo più profondo intervenuto nella concenzione dell’amministrazione della giustizia. Tuttavia siamo dell’avviso che Tangentopoli abbia portato alla ribalta un fenomeno nuovo e più complesso, che si manifesta nella contrapposizione del “potere buono” dei giudici contro il “potere cattivo” dei politici (interpretazione efficacissima di Cossiga) ed ha messo in campo una nuova realtà, che si può indicare con il nome di “partito dei giudici”. Il nodo sempre più perverso dei rapporti politica-magistratura (la debolezza della prima e l’influenza montante della seconda fuori dai propri ambiti istituzionali) è tutt’altro che specifico del caso italiano. Il crescente potere dei giudici è una linea di tendenza propria a molte altre democrazie avanzate e supera lo schema cospiratorio di Tangentopoli e delle “toghe rosse”. La sinistra ha beneficiato e beneficia dell’azione giudiziaria, che non l’ha investita e colpita, ma ha fatto prigionieri, anzi ostaggi,  anche in quell’area. Questa considerazione rafforza l’opinione che la via giudiziaria si è aperta perché quella politica è rimasta sbarrata per troppo tempo a causa di interminabili lavori. Quando i politici non esercitano più le loro funzioni sopravvengono i tecnocrati: magistrati, militari, alti burocrati della finanza e dell’economia.

Se non fosse per le conseguenze devastanti prodotte sulla salute dell’interessato, le vicende giudiziarie le lasceremmo alla cronaca, ma vale – al punto in cui sono le cose – porsi un’ultima domanda. Sebbene abbia in gran parte promosso il rinnovamento della classe politica, da un punto di vista processuale il ciclone giudiziario che ha abbattuto la Prima Repubblica non può essere considerato che un fenomeno abortito. Il senatore a vita Giulio Andreotti è stato assolto a Perugia e a Palermo. Arnaldo Forlani è un uomo libero e Ciriaco De Mita è deputato nazionale ed europeo. Fra gli uomini del Psi, uno – Amato – è attualmente ministro del Tesoro; un altro – Martelli – è parlamentare a Strasburgo; Mancini è stato assolto dall’accusa d’aver fatto politica con l’aiuto della mafia e fa il sindaco a Cosenza; Benvenuto e Del Turco, i due successori alla segreteria, presiedono importanti commissioni parlamentari. Fra i massimi leader della Prima Repubblica, l’unico a pagare sul piano giudiziario è Bettino Craxi. È giusto che ciò avvenga o è tempo di porsi il problema della “moralità” di Tangentopoli? Che effetto fa alla coscienza civile di questo paese l’aver scaricato su un unico capro espiatorio tutte le responsabilità di una stagione politica?

Domenico Mennitti


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