| IdeazioneELOGIO DEL NOVECENTO
 di Alessandro Campi
Come
    ogni altro secolo (il Quattrocento, l’Ottocento) o epoca storica (il
    Medioevo, il Rinascimento) il Novecento dovrebbe essere considerato
    null’altro che una convenzione cronologica, in sé poco o nulla
    significativa, come ben sanno gli storici, i cui criteri di datazione e di
    analisi dei tempi storici (per brevi o lunghi che siano questi ultimi) sono
    infatti diversi da quelli, rigidi e preordinati, fissati dalle cifre del
    calendario e da quelli, scolasticamente rassicuranti, a cui ognuno di noi
    ricorre per neutralizzare le ansie del tempo, per ancorare il contingente
    all’eterno e per dare un ordine alla comprensione del passato. I processi
    storici, in quanto tali, non obbediscono ad alcuna limitazione formale,
    sfuggono alla precisione dei numeri, non coincidono mai con una data fissa:
    le periodizzazioni non sono intrinseche alla storia, ma al nostro bisogno di
    identità, di memoria e di sicurezza.
    
    
    
     Nel
    caso del Novecento – un secolo la cui conclusione si è accompagnata ad un
    finale di millennio – è parso invece a molti che esso abbia presentato
    tratti storici e culturali tali da caratterizzarlo, ad uno sguardo
    retrospettivo, quasi come un unicum storico, come un’epoca conchiusa
    dotata di caratteri peculiari, meritevole quindi di un giudizio complessivo.
    Unico, secondo certe estreme valutazioni, finanche nella sua indicibilità:
    lo si è infatti definito un “secolo innominabile”, diversamente dagli
    altri che lo hanno preceduto, troppo smisurato e contraddittorio, sfuggente
    e controverso per poter essere adeguatamente compreso e spiegato. Per Franco
    Venturi, ad esempio, il Ventesimo secolo «è soltanto il tentativo sempre
    ripetuto di capirlo», un girare intorno al cerchio rappresentato da questi
    cento anni di storia senza mai riuscire a toccarne il centro vitale.
    
    
     La sua
    fine – vissuta quasi come liberatoria e segnata da una accelerazione
    talmente brusca degli eventi da aver reso prematura o imprudente qualunque
    ipotesi di “fine della storia” – è stata perciò accompagnata da una
    vasta e sofferta discussione tesa ad enuclearne l’essenza, ad individuarne
    il lascito, discussione tanto più impegnativa considerata la coincidenza
    tra declino secolare e svolta millenaria, quest’ultima foriera, a sua
    volta, di attese, di ansie e di inquietudini.
    
    
     Sappiamo,
    ad esempio da Georges Duby, che i terrori dell’Anno Mille, gli orrori
    apocalittici legati al compimento dei primi mille anni dall’incarnazione,
    in realtà non sono mai esistiti: sono stati un’invenzione degli umanisti
    a partire dal XV secolo, perfezionata e diffusa, più tardi, dalla
    storiografia dell’Illuminismo e da quella romantica, in sintonia con
    l’immagine che esse avevano del Medioevo come di un’età oscurantista e
    superstiziosa.
    
    
    
     Anche
    la fine dell’Anno Duemila – qualunque cosa ne scriveranno un giorno gli
    storici, assumendo magari come barometro degli umori collettivi il tono di
    certe inchieste giornalistiche o qualche film di genere catastrofista –
    non sembra averci riservato orrori particolari o timori di una inevitabile
    fine dei tempi. Il passaggio di una cometa nel marzo del ’98, l’eclissi
    di sole dell’agosto del ’99, lo spettro del millenium bug che ha
    aleggiato per mesi sul nostro universo tecnologico, la serie sinistra di
    terremoti che ha colpito, nello spazio di poche settimane, dalla Turchia a
    Taiwan, dalla Grecia al Messico, non sono stati sufficienti a farci
    paventare alcuna reale ed imminente catastrofe ed a farci recedere dalle
    nostre certezze di uomini moderni.
    
    
     Si
    sbaglierebbe tuttavia a trascurare la seduzione che sulla psicologia
    collettiva hanno sempre esercitato gli schemi millenaristici, propri
    dell’ambito mentale implicitamente cristiano con il quale, in particolare
    noi euro-occidentali, guardiamo la storia: come cammino degli uomini verso
    un punto ultimo (al tempo stesso un fine ed una fine), scandito da una
    successione di età e di epoche orientate finalisticamente. E proprio
    all’interno di questi schemi (con ciò che essi sottendono di speranze e
    timori nei confronti del futuro) vanno compresi i rendiconti e i bilanci sul
    Novecento, così come gli azzardi, le previsioni e le profezie su ciò che
    ci riserverà il Terzo Millennio: certo non la fine del mondo (che nessuno
    sembra augurarsi davvero), ma, stando al clima che si respira, una lunga
    espiazione dal passato storico vissuto come colpa, un lungo sonno della
    storia.
    
    
     Ma
    cosa è stato il Ventesimo secolo agli occhi di coloro che, nella duplice e
    non sempre comoda e obiettiva veste di testimoni e di giudici, di
    protagonisti e di storici hanno cercato di fissarne un bilancio sintetico?
    Stando al dibattito storico-giornalistico di questi ultimi tempi, nei
    riguardi del Novecento si è sinora oscillato – spesso senza alcuna
    mediazione e senza alcun equilibrio – tra ripulsa ed accettazione, tra
    orrore ed entusiasmo. Al pessimismo di chi ha visto il secolo Ventesimo
    simboleggiato dai genocidi di massa, dai totalitarismi (“rosso” e
    “bruno”), dall’imperialismo e più in generale da una sorta di sprezzo
    ideologico nei confronti dell’esistenza umana («la morte come progetto
    totale è solo di questo nostro secolo maledetto», ha scritto ad esempio
    Cesare De Michelis) si è opposto l’ottimismo indotto in molti osservatori
    dai progressi inarrestabili fatti registrare in questo secolo dalla scienza
    e dalla tecnica (ben esemplificato dalle parole del fisico e premio Nobel
    spagnolo Severo Ochoa: «L’evoluzione e il progresso scientifico a mio
    parere caratterizzano questo secolo»). Eccessivo ed autopunitivo il primo,
    troppo ingenuo e consolatorio il secondo.
    
    
     Di
    recente, nel corso dell’annuale “lettura” organizzata a Bologna
    dall’Associazione Il Mulino, lo storico statunitense Charles S. Maier ha
    cercato di offrire del Ventesimo secolo un registro contabile equilibrato,
    come base di un bilancio morale in grado di contemperare con obiettività
    l’attivo e il passivo, le distruzioni con i progressi. Sulla colonna
    dell’attivo egli ha messo «i progressi nei diritti umani, nella prosperità
    materiale e, cosa fondamentale, in fatto di salute e di speranza di vita»,
    che hanno significato, nell’arco del secolo, una maggiore libertà
    politica e, soprattutto, la salvezza per milioni di vite umane. Sul lato del
    passivo egli ha invece imputato i morti, circa cento-centocinquanta milioni,
    caduti nel corso di guerre tra Stati, lotte civili, repressioni di massa ed
    etnocidi. Un computo macabro, al quale egli ha però fatto seguire la
    considerazione – statisticamente ineccepibile – secondo la quale questa
    cifra non rappresenta, al dunque, che l’uno per cento sul totale dei circa
    dodici-quindici miliardi di uomini vissuti sulla terra nell’arco del
    secolo, che è stato sì ambizioso e spietato, ma quanto più “cattivo”
    o “peggiore”, dal punto di vista più estremo, quello della morte, di
    quelli che lo hanno preceduto? In termini puramente numerici il saldo
    sembrerebbe dunque vantaggioso, sennonché è nelle ragioni per cui si è
    ucciso che va individuato, a suo giudizio, il tratto peculiarmente negativo
    del secolo, ragioni essenzialmente ideologiche, i cui prodotti storici sono
    stati il totalitarismo e, soprattutto, l’imperialismo. Proprio la violenza
    politica generata da questi ultimi – in particolare dal secondo –
    rappresenta, al dunque, il sigillo del secolo Ventesimo e la sua velenosa
    eredità.
    
    
     Il
    ragionamento di Maier conferma, sotto l’apparenza di un giudizio pure
    storicamente molto articolato, come l’immagine negativa e demonizzante del
    Novecento sia, a ben vedere, quella culturalmente e storicamente dominante e
    in via di crescente diffusione. Per convincersene basta in effetti una
    rassegna delle valutazioni che ne sono state date sino ad oggi. Secondo
    Hobsbawm, che ha teorizzato il Novecento come “secolo breve”,
    quest’ultimo ha avuto un carattere peculiarmente cataclismatico: si è
    aperto, non a caso, nel 1917 con la catastrofe militare del primo conflitto
    mondiale e si è chiuso con la catastrofe politica del comunismo, cui ha
    fatto seguito, in una perfetta chiusura del cerchio storico novecentesco, la
    tragica appendice delle guerre balcaniche. Proprio in apertura del suo libro
    lo storico marxista inglese aveva posto una silloge di giudizi sul secolo
    Ventesimo improntati, per la maggior parte, al più doloroso pessimismo: «il
    secolo più terribile della storia occidentale» secondo Isaiah Berlin, «un
    secolo di massacri e di guerre» per il francese René Dumont, «il secolo
    più violento della storia dell’umanità», stando allo sguardo cupo e
    disperato dello scrittore e premio Nobel William Golding.
    
    
    
     Una
    macabra rassegna contabile – comprensiva non solo dei morti nei lager e
    nei gulag, ma anche delle sterilizzazioni di massa nella civilissima Svezia,
    delle campagne di purificazione etnica realizzate in Africa e nell’ex
    Jugoslavia, dei genocidi perpetrati in Tibet e in Cambogia – ha condotto
    Gianni Moriani a definire il Novecento il “secolo dell’odio”. Sergio
    Romano, dal canto suo, ha spiegato come ad occhi contemporanei esso non
    possa risultare che il “secolo assassino”. Cento anni di orrori e di
    guerre, di violenze e di sopraffazioni – con la Germania come tragica
    protagonista – sono quelli descritti con autolesionismo tipicamente
    teutonico da Günter Grass, premio Nobel per la letteratura nel 1999, nel
    recente Il mio secolo: ennesimo bilancio in perdita di un Novecento da
    dimenticare. Con autolesionismo non minore, dando un sigillo epocale alla
    sua ormai storica crociata anti-italiana, Giorgio Bocca ha definito un
    “secolo sbagliato” – cioè volgare, sprecone, delittuoso – il
    Novecento italiano, a conclusione del quale l’unica morale che può
    ricavarsi è che nulla, nella nostra storia, sia mai andato per il verso
    giusto. Radicalizzando il lascito intellettuale delnociano Marcello
    Veneziani, a sua volta, ha letto il Novecento come un secolo eminentemente
    dissipatore (di idee, di fedi, di ideologie), svoltosi nel segno della
    secolarizzazione ed intrinsecamente nichilista. In una prospettiva
    teologica, quale quella adottata da Michael Novak, il Novecento è il secolo
    che, nella forma estrema simboleggiata da Auschwitz, ha messo l’uomo
    dinnanzi al volto eterno del male. Si potrebbe continuare...
    
    
     Un «cupo
    negativismo», come lo ha definito Federico Romero, prevale dunque nella
    gran parte dei bilanci sul secolo che si sono letti di recente, con intensità
    crescente. Siamo forse all’inizio di una “leggenda nera” sul
    Novecento, destinata a fare scuola nel futuro? Se sì, per quali ragioni? 
    E perché una tale ansia di gettarselo alle spalle?
    
    
    
     Per
    comprendere tale rifiuto del Novecento occorre considerare almeno due
    elementi. Il primo è di natura temporale. In realtà questo secolo appare
    orrendo e disumano soprattutto agli occhi di coloro il cui orologio mentale
    si è come fermato, spesso per banali ragioni connesse all’età, al primo
    cinquantennio del secolo. Molti dei più negativi giudizi sul Novecento
    vengono, a ben vedere, da studiosi e personalità che hanno vissuto, spesso
    sulla propria pelle, il dolore della guerra e delle persecuzioni, la
    privazione totale della libertà, la spoliazione di ogni bene. Non è
    difficile pensare che agli occhi delle generazioni, soprattutto occidentali,
    nate e cresciute nel secondo dopoguerra il Novecento appaia sotto una veste
    affatto diversa.
    
    
     Il
    secondo è di natura spaziale: la rappresentazione del Novecento in termini
    cupi e negativi è in realtà soprattutto euro-occidentale, non presenta
    quindi un carattere realmente globale. Per l’autocoscienza storica delle
    popolazioni non europee, ad esempio per miliardi di indiani e cinesi, il
    Novecento (ammesso che una tale periodizzazione presenti ai loro occhi un
    qualche interesse o valore) ha costituito, probabilmente, qualcosa di più e
    di diverso che una serie interminabile di guerre e di distruzioni, avendo
    esso coinciso con l’inizio di importanti processi di autodeterminazione
    politica e con significative trasformazioni d’ordine socio-economico.
    
    
    
     Ma
    c’è un altro fattore che non andrebbe trascurato, allorché si vogliano
    comprendere le ragioni che stanno alla base di giudizi tanto negativi sul
    Novecento. Un fattore di natura culturale e spirituale, che riguarda il
    modo, ad un tempo disincantato e rassegnato, con cui nella sfera culturale
    in senso lato euro-occidentale si guarda ormai alla storia ed al passato. La
    liquidazione del Novecento è tutt’uno, a ben vedere, con il desiderio di
    liberarsi dal fardello del passato (qualunque passato) e di azzerare la
    memoria storica così diffuso nella cultura occidentale e del quale tracce
    vistose si registrano, senza spingersi troppo lontano, nel nostro paese.
    Prevale, oggi, una stanchezza mentale dovuta probabilmente all’eccesso di
    storia che è gravato, proprio durante questo secolo, su questa parte di
    mondo. Da qui la voglia, quasi, di concedersi un lungo congedo dalla storia
    (peraltro impossibile), che ha condotto sempre più spesso negli ultimi
    tempi ad esercizi di afflizione collettiva, a mea culpa mediatici spesso
    solo di facciata, resi per dovere, come omaggio allo spirito dei tempi.
    Senonché tali lavacri, tali esercizi di tardiva contrizione – vengano
    dalla Chiesa, dai postfascisti, dagli eredi delle potenze coloniali, da
    incanutiti finanzieri di rapina scopertisi filantropi – risultano, oltreché
    moralmente ambigui e spesso insinceri, anche storicamente inutili: deformano
    il passato e non lasciano presagire nulla di ciò che sarà realmente il
    nostro futuro.
    
    
    
     Ma se
    non una sequela di orrori, cosa è stato dunque il Novecento? Quale altra
    memoria – oltre le morti di massa ed il nichilismo – possiamo cercare di
    conservarne per le generazioni a venire?
    
    
     Si
    potrebbe rispondere che il Novecento è stato, per gli uomini che lo hanno
    vissuto, un secolo vertiginoso ed affascinante, grandioso ed unico, superbo
    e scandaloso, ambizioso e tragico, viscerale e provocatorio, straordinario
    proprio in virtù della sua natura spesso crudele e spietata, del suo
    carattere epigonale, degli abissi e delle vette che esso ha conseguito, del
    bene e del male che ha coniugato senza soluzioni di continuità:
    l’espressione di una modernità alla quale non si può e non si deve
    sfuggire. Un secolo di ferite profondissime, come molti sostengono non senza
    ragioni, le cui cicatrici vanno però esibite, con doloroso orgoglio, e non
    occultate, come prova delle passioni che lo hanno animato, della tragica
    grandezza che gli è stata propria. Un secolo che gli uomini, come spesso è
    accaduto nella storia, hanno cercato di piegare alla loro volontà,
    esaltandosi e quindi errando. Un secolo di velocità e di dinamismi,
    brulicante di idee e di aspirazioni, il secolo delle grandi masse e delle
    loro speranze, della giovinezza come soggetto politico, delle donne, di
    interi popoli in marcia. Un secolo di sfide, di parossismi, di rivoluzioni
    politiche fallimentari e di rivoluzioni materiali realizzate, di pace e di
    guerra, di ricchezze e di povertà, in cui passato e futuro, arcaismi e
    tecnologia hanno convissuto come mai nella storia dell’uomo. Un secolo di
    attese e di illusioni, di utopie e di disincanti, nei confronti del quale
    non si può certo essere indulgenti ma nemmeno ingenerosi. Un secolo da
    superare, ma non da dimenticare, da comprendere nella sua interezza e
    complessità ma senza nulla rinnegare. Un secolo che ha prodotto mali e
    rovine, ma solo perché ha osato, cercando risposte ambiziose (e spesso
    errate) alle grandi sfide della modernità.
    
    
    
     Cosa
    ci lascia in eredità? Nulla in apparenza, avendo tutto dissipato del suo
    immenso patrimonio. In realtà, per il fatto di averci condotti, come dire?,
    nudi alla meta, quindi senza più certezze, senza più credenze consolidate,
    senza più sicurezze sul domani, questo secolo un grande risultato lo ha
    comunque conseguito: ha posto gli uomini dinanzi a se stessi ed alle proprie
    responsabilità, obbligandoli per ciò stesso a riprendere, magari
    controvoglia, il filo del proprio destino storico. Da un certo punto di
    vista esso appare effettivamente come un campo di rovine: ideologiche,
    politiche, morali, a partire dalle quali si deve però pur trovare la forza
    di procedere verso nuove costruzioni. Dopo il Novecento si deve guardare al
    futuro con prudenza e realismo, ma non ci si può più permettere alcun
    cedimento nostalgico. Occorre comunque guardare avanti. Franco Cardini ne ha
    parlato come del “secolo del disincanto”, alla fine del quale tutti
    coloro che a diverso titolo, nel bene come nel male, ne sono stati
    protagonisti si sono trovati messi di fronte alle verità più amare (tutti,
    anche coloro che nell’euforia del post-guerra fredda hanno creduto, per
    qualche tempo, di potersi accontentare dei vantaggi della vittoria). Se
    qualcosa questo secolo ci ha insegnato – con tutte le sue iniquità e tra
    mille fallimenti e proprio in loro virtù – è che la vera libertà,
    quella per cui gli uomini hanno sempre lottato, non è mai disgiunta dalla
    passione e quindi dall’errore. Il Novecento è finito, la storia continua.
    
    
    
     
    (Ideazione Gennaio-Febbraio 2000) |  |