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            Rileggere il craxismoLA GRANDE ILLUSIONE
 di Luciano 
            Cafagna
 La
    vicenda di Craxi – suggerisce Ideazione – probabilmente non presenta,
    considerata nel suo insieme, elementi di novità tali da giustificare una
    lettura della storia politica italiana degli ultimi vent’anni incentrata
    sulla sua persona. E’ così. Quei venti anni sono stati anni di crisi
    profonda, gravissima, della vita politica italiana, fra i più difficili
    della (difficile) storia di questa; e su ciò, non su questa o quella
    persona, si incentrerà la attenzione di una storiografia non puerilmente
    partigiana. Si incentrerà su quella crisi e le persone vi troveranno posto
    in relazione al ruolo in essa svolto. E’ incredibile come si tenda
    generalmente a passare sotto silenzio lo sfascio italiano fra il 1968 e il
    1978 (quella Storia di dieci anni qualcuno, prima o poi, dovrà scriverla),
    oppure a considerare quella stagione solo come stagione misteriosa di
    stragi, di P2, di conati golpisti e roba simile: fatti tutti gravi e
    orribili, ma nettamente derivati. E’ un’ottica assurda e puerile.
    L’Italia, colpita da un sisma sociale da ottavo grado della scala
    Mercalli, aveva in realtà, democraticamente fragile com’era, smarrito i
    propri equilibri politici senza trovarne di nuovi, e correva ogni giorno di
    più pericolosamente verso una vera ingovernabilità, verso un degrado di
    tipo sudamericano (ricordo di avere parlato allora di “sudamericanosi”
    sulle colonne dell’Espresso). Si dimentica incredibilmente che la stessa
    teoria del “compromesso storico” di Berlinguer si formò, nella mente di
    questi, proprio sotto l’impressione vivissima di una minaccia “cilena”
    per la vicenda italiana. Si andava, in quegli anni, verso un clima da guerra
    civile, che fu evitato soltanto per la incredibile, miracolosa e disperata
    collaborazione di forze politiche interne, che pure erano affette dalle più
    disparate teratologie (ma che avevano però, al tempo stesso, e
    paradossalmente, briciole di forza proprio in virtù di queste…), per i
    compromessi anche umilianti che in più direzioni queste accettarono, e per
    una congiuntura internazionale le cui paurose derive furono anch’esse
    miracolosamente rimesse sotto controllo proprio in tempo in tempo. Ne
    sapranno di più, di tutto questo, gli storici futuri, se e quando saranno
    aperti gli archivi dei servizi segreti e quant’altro potrà farci capire
    cosa le maggiori potenze pensavano potesse accadere da noi. Erano
    gli anni dell’ingorgo di una “tumultuosa” (l’aggettivo dei tempi!)
    espansione capitalistica mondiale con effetti estensivi a febbre alta, e
    drammatiche ripercussioni politiche, nei tre continenti variamente
    periferici (Asia, America Latina, Africa). Il sistema monetario di Bretton
    Woods era andato in pezzi per l’incapacità del dollaro a svolgere
    armonicamente la pesante duplicità dei suoi ruoli: moneta interna e moneta
    mondiale di riserva. La crisi petrolifera aveva indotto la grande
    inflazione: in molti paesi a due cifre. Non lo sapevamo allora, e ce lo ha
    spiegato solo molto tempo dopo Victor Zaslavsky, ma l’alto prezzo del
    petrolio fu anche la micidiale bombola d’ossigeno per il sistema sovietico
    che stava morendo, ma era però ricco di quella risorsa; micidiale perché
    fu la droga di un animale colpito a morte che prende a quel punto a
    dibattersi alla disperata contro avversari, concorrenti, succubi riottosi:
    una storia, questa, che va dal minaccioso schieramento di rampe di missili
    lungo la cortina di ferro verso l’Europa (le cui conseguenze furono
    sventate appena in tempo dall’allarme lanciato dall’allora cancelliere
    Helmut Schmidt), alla strategia del tentativo di controllo politico delle
    rotte petrolifere, fino al fatale intervento in Afghanistan. E che potrebbe
    aver incluso – perché no? – anche una scommessa sulla totale
    destabilizzazione italiana e l’uso a questo fine del terrorismo.
    L’Italia era ormai il ventre molle dello schieramento atlantico. Per ora
    abbiamo tracce soltanto di ingerenze in questo senso dei servizi segreti
    cecoslovacchi. Ma chi crederà mai alla bufala – come si dice a Roma –
    che la Cecoslovacchia, o addirittura i suoi servizi segreti, potessero
    allora fare politica estera autonoma? Si è detto di recente di una ostilità
    sovietica verso siffatte iniziative ceche: ma è più probabile che, se
    proprio vera, una tale ostilità sia da interpretare piuttosto come sintomo
    di contrasti interni fra settori del vertice sovietico. E perché nei
    vertici sovietici era considerata con ostilità – come par confermato
    fosse – la cauta politica di indipendenza di Berlinguer? Un’Italia
    berlingueriana, o del compromesso storico, sarebbe in ogni caso stata una
    componente atlantica più aperta al dialogo con l’Est. Ma non erano queste
    evidentemente, in quegli anni, le finalità perseguite dalla politica estera
    sovietica per ciò che riguardava il nostro paese! Comunque sia, la povera
    Italia di quegli anni era certamente diventata un luna park per i servizi
    segreti di tutto il mondo.  Fu
    in questo contesto che, sul teatro italiano, comparve Craxi. E fu rispetto a
    questo scenario che egli si qualificò e, via via, fu percepito da una parte
    crescente della opinione pubblica (e poi anche della diplomazia mondiale):
    come uomo capace di ricostruire l’immagine di una Italia fuori pericolo
    attraverso la restituzione di autorità a quello Stato che ormai persino
    uomini come Montale o Sciascia ritenevano indifendibile. Se si prescinde da
    questo si va fuori strada. E secondo me, se si prescinde da questo, si va
    fuori strada anche nel valutare Andreotti e la sua propensione – politica
    – ad accentuare, nello stesso contesto, i rapporti fra politica e potere
    mafioso: come si scrisse nella famosa relazione Violante del 1993 questi
    servivano al mantenimento dell’ordine, anche se tale mezzo doveva
    rivelarsi un boomerang. Vorrei aggiungere di più: se si prescinde da questo
    non si può capire neanche l’enigmatico e indeciso Berlinguer. Non lo si
    può capire se si prescinde dal fatto che Berlinguer si sentiva le mani
    legate non soltanto dalla ideologia comunista sovietizzante ma anche dalla
    spinta incontrollabile della agitazione sociale di quegli anni: il vero
    “compromesso”, alla fine, il successore di Togliatti e di Longo decise
    di farlo con la Piazza Massimalistica. Dovette rinunciare sia alla
    legittimazione democristiana offerta da Moro e Andreotti, sia allo
    “strappo” con l’Urss, per continuare a cavalcare la tigre del
    lunghissimo autunno caldo italiano. Sia in Andreotti che in Berlinguer
    assistiamo a concessioni nei confronti di qualcosa che va a configurarsi
    quasi come “sovranità” distinta da quella dello Stato, dotata di un
    proprio potere, cioè, distinto e a quello anche contrapponibile. Lo si è
    detto, con fondamento, della mafia. Ma vi è qualche fondamento ad
    affermarlo, in senso tecnico e senza le connotazioni ripugnanti di ciò che
    è criminale, anche per le “masse” quando queste tendono a esorbitare
    rispetto ai mezzi legalizzati di pressione e di lotta, quando la minaccia
    oggettivamente ricattatoria di una dilagante influenza di chi pratica
    apertamente l’illegalità, il terrorismo, ma soprattutto l’agitazione
    permanente e una sorta di anarchismo reale (una situazione vicina a quella
    del leniniano “dualismo di poteri”, di cui del resto si parlava molto in
    quegli ideologici anni), fa ritenere ai rappresentanti di poter perdere la
    rappresentanza e che quindi sia conveniente accodarsi (nel senso in cui
    Lenin parlava di “codismo”) e di negoziare mimetizzati all’interno del
    Behemot-sovrano, più cercando di intrattenere questo che cercando vere
    soluzioni politiche di governo. Un compromesso con l’eversione, dunque,
    sia pure per intrattenerla, anziché la rivendicazione della pienezza
    democratica della rappresentanza (come suggeriva invece fieramente, sul
    finire dei suoi giorni, Giorgio Amendola, disposto magari, per poter questo
    fare, a momentaneamente archiviare il dossier Urss, forse anche – chissà
    – per non invelenire ulteriormente l’azione dei servizi segreti
    orientali nel nostro paese). Pure, fu così che Andreotti e Berlinguer
    diedero paradossalmente il loro teratologico contributo non certo a sanare
    l’Italia malata, ma a tenerla in vita con espedienti: con questi
    discutibili compromessi. Per quanto faccia un po’ senso dirlo, fu a suo
    modo un miracolo anche questo: che vi siano riusciti.  Ma
    forse, alla lunga, non ce la si sarebbe fatta, il miracolo non avrebbe
    retto, se non ci fosse stato Craxi a tracciare le linee di un fondale di
    ricostruzione della autorità dello Stato davanti al quale quei compromessi
    potessero giustificarsi. Craxi parve diverso dai suoi concorrenti. I poteri
    “altri” non parevano dover avere, per lui, spazio. Era dunque la
    restituzione della piena sovranità e autorità allo Stato? No, purtroppo.
    Fu una illusione, come cercherò ora di dire. Ma l’avere tenuto desta
    questa illusione il tempo necessario a che gli incendi si spegnessero, a che
    gli “intrattenuti” dall’intrattenimento politico-sociale si
    sfiatassero, i mafiosi o le sette più o meno massoniche di restauratori
    dell’ordine non apparissero più utili, permise a quanto nella società
    italiana era ancora in grado di funzionare di riprendere i suoi ritmi. Così
    si disse, un giorno: «la nave va». Era vero. Non correva molto, quella
    nave, costava carissima, ma andava. Le falle a prua e a poppa, le ciurme
    ammutinate, il colera a bordo non c’erano più. Fuor di metafora, senza la
    restaurazione craxiana dello Stato, per quanto porosa fosse, né la
    ciclopica e improvvisa manovra finanziaria di Amato del 1993, né il grande
    accordo sociale di Ciampi l’anno dopo, sarebbero stati possibili;
    figurarsi il pilotaggio prodiano nel porto di Maastricht. O, su altro
    fronte, l’azione di Falcone e Borsellino, e dei carabinieri che
    arrestarono Riina. Si provi a pensare qualcosa di lontanamente paragonabile
    nei terribili anni Settanta. Ma, intendiamoci: l’operazione avviata da
    Amato, proseguita da Ciampi, Dini, Prodi, se rivela un organismo restituito
    a buona reazione vitale, è pur sempre una terapia d’urto su un corpo che
    continua ad essere affetto da gravi malattie. Craxi non aveva guarito
    l’Italia dai suoi mali maggiori. Non aveva utilizzato il suo grande
    momento, e la sua grande autorità di un momento, per affrontare con energia
    radicale, al tempo giusto, il risanamento finanziario, chiave della crisi
    italiana. Non aveva mostrato grande volontà di pilotare la riforma
    politica, di cui pure, fra i primi, aveva parlato. E aveva chiaramente
    rinunciato a egemonizzare tutta la sinistra sotto una direzione
    maggioritaria di tipo mitterrandiano, accontentandosi, invece, della propria
    abilità alla “Ghino di Tacco” nel fare uso di un potere marginale di
    coalizione che era proprio il fattore k – l’anomalia di un comunismo
    maggioritario a sinistra – a potenziare… Fra gli errori tattici più
    gravi della sua politica io penso – l’ho già detto altre volte – che
    si debbano mettere la sottovalutazione della questione morale e la
    sottovalutazione del peso degli intellettuali nella vita politica italiana,
    peso che il Sessantotto aveva ulteriormente, e non virtuosamente,
    accresciuto. Una
    questione morale, quando insorge in un paese, diventa una grandissima
    questione politica, perché mette in discussione la legittimazione stessa
    della classe dirigente. Craxi aveva ragione da vendere quando pose il
    problema delle pesanti asimmetrie che esistevano nel finanziamento dei
    partiti, con, da una parte, la solida rete dei finanziamenti attraverso le
    imprese pubbliche costruita dalla Dc e l’alimentazione esterna del Pci
    attraverso il flusso dei finanziamenti sovietici, mentre, dall’altra
    parte, un partito come quello socialista mancava di ogni punto d’appoggio.
    Ma la spregiudicatezza che egli mise nel modo di correggere quella
    asimmetria ebbe una ostensività arrogante e provocatoria che gran parte
    dell’opinione pubblica non poteva accettare. Combinando la disinvoltura
    finanziaria con l’autocrazia, anche patrimoniale, nel partito, lasciava
    addirittura l’impressione che non vi fossero precisi confini fra raccolta
    di danaro a fini politici e raccolta di danaro a fini personali. Permise e
    incoraggiò che questo modello si riproducesse in periferia. E così, a
    misura che si veniva estinguendo per consunzione il mito del suo salvifico
    decisionismo, si vennero anche cancellando quei margini di tolleranza verso
    l’affarismo politico che l’opinione pubblica finisce spesso col
    concedere a coloro nei quali riconosce però importanti meriti pubblici.
    Errore politico, dunque, a prescindere da ogni altro giudizio. Errore anche
    di politica-spettacolo, se si vuol ragionare in questi termini, perché non
    sempre lo spettacolo più redditizio è quello più sfacciato. L’altro
    errore, come ho detto, fu la sottovalutazione del ruolo degli intellettuali.
    In Italia vi è una realtà storica che Antonio Gramsci aveva capito e
    analizzato molto bene, e sulla quale è stata poi costruita per gran parte
    la forza del vecchio Pci di Togliatti. E questa realtà si è robustamente
    consolidata con il movimento sessantottino, acquisendo anche connotati di
    indipendenza dallo stesso partito comunista. Gli intellettuali di sinistra
    di quella generazione e dintorni hanno occupato aree di potere specifico  con posizione cruciale, come le aule delle scuole e delle
    università, le procure e le aule giudiziarie, nonché – dulcis in fundo
    – le redazioni di giornali, settimanali, televisioni, mass media in
    genere, fossero anche sotto altra proprietà o controllo… Ed è da queste
    sedi che è partita e si è alimentata la sommossa anticraxiana, già prima
    del 1992. Essa ha avuto, molto chiaramente, dei beneficiari politici, ma io
    credo che questi ultimi, pur non avendo certo perso l’occasione di
    approfittarne, siano stati piuttosto colti di sorpresa. Craxi pensava gli
    intellettuali come cortigiani, considerandoli quindi solo individualmente.
    Era un altro errore di valutazione profondamente politico. Concludo.
    Continuo a credere, come sei anni fa, che il sistema politico italiano
    difficilmente potesse beneficiare di quella che allora definivo una
    “grande slavina” abbattutasi sul paese. E che la classe politica avrebbe
    fatto assai meglio a compattarsi nel momento difficile per tutti e a
    scegliere la dignitosa via di una autocorrezione nelle regole e
    autoepurazione negli uomini, anche ampia, concordata e pilotata da chi
    conservava un residuo di potere, e di capacità di garantire la separazione
    dei poteri, e cioè dal presidente della Repubblica. L’occasione ci fu
    anche. Fu offerta dal decreto Amato-Conso nel marzo del ’93 ma l’allora
    presidente della Repubblica – che pure mostrava chiaramente di essere
    consapevole del ruolo eccezionale che la “crisi organica” della Prima
    Repubblica gli stava conferendo – non ritenne di coglierla. Chi poteva
    incoraggiarlo, e non lo incoraggiò, a tentare questo, in vista di propri
    benefìci di parte, porta anch’egli responsabilità storiche molto
    pesanti. Prevalse, invece e quindi, una sorta di guerra civile fra i poteri,
    che si è data poi nuovi campi di battaglia, ancora non è finita e continua
    ad avere sete di sangue. Resta da sperare che non finisca col bere il sangue
    stesso della democrazia di questo paese. Democrazia approssimativa, forse,
    ma sempre infinitamente migliore di tutti i suoi contrari. 
    (Ideazione Gennaio-Febbraio 2000) |  |