L'ora della diplomazia
di Daniele Sfregola
Ideazione di
marzo-aprile 2007

I negoziati a sei per la soluzione della crisi nucleare che coinvolge la Corea del Nord sono ripresi l’8 febbraio scorso a Pechino in un clima di generale incertezza. Dopo quattro giorni di serrate trattative, il 12 febbraio è stato siglato l’accordo preliminare da sottoporre poi all’accettazione definitiva dei rispettivi governi. Per il capo-delegazione statunitense, Christopher Hill, l’accordo è «eccellente», sebbene rappresenti «la prima fase del processo di denuclearizzazione» della penisola coreana. Secondo il capo-delegazione cinese, Wu Dawei, questa bozza di accordo costituisce un «progresso, un passo importante per la pacificazione di tutta l’Asia nord-orientale e l’avvio di relazioni permanenti tra le nazioni coinvolte».

Al di là delle dichiarazioni ufficiali, l’accordo preliminare apre una nuova fase nei rapporti tra gli Stati Uniti e i loro alleati regionali, nonché tra questi e la Corea del Nord. Ma, contemporaneamente, la bozza costituisce il risultato finale di un lungo processo di ripensamento della propria politica estera nell’area e sul tema della proliferazione nucleare da parte dell’attuale amministrazione repubblicana. Se la questione nucleare in Estremo Oriente è oggi più complessa di quanto lo fosse all’avvento della presidenza Bush, le cause vanno ricercate anche nell’atteggiamento assunto dalla dirigenza politica statunitense e non soltanto nelle continue provocazioni del dittatore nordcoreano, per quanto inaccettabili e pericolose possano apparire. L’interesse condiviso nella regione dell’Asia orientale verte sull’equilibrio denuclearizzato nella penisola coreana, in un dialogo distensivo permanente che nel breve-medio periodo poco spazio lascia a propositi di cambio di regime nei confronti di Pyongyang. A questa conclusione è giunta anche l’amministrazione americana, dopo aver subito la lezione irachena e il paradossale effetto da questa ingenerato sulle ambizioni nucleari di Corea del Nord ed Iran. Come ha spiegato Francis Fukuyama, se lo scopo dell’avventura mesopotamica intrapresa da Bush nel 2003 fu quello di dimostrare ai nemici dell’America i rischi che avrebbero dovuto affrontare sfidandola apertamente, le insormontabili difficoltà incontrate da Washington in sede di post conflict State building in Iraq hanno finito per convincere Kim Jong Il e gli Ayatollah di Teheran che la soglia di deterrenza di un intervento di regime change sia ben più bassa di quanto i politologi neoconservatori hanno a lungo pronosticato. I costi umani, economici e politici sono insostenibili anche per la più grande potenza del mondo.

Il fallimento della sunshine policy
La cruciale posizione della Corea del Sud si è fatta via via più difficile. La preoccupazione principale di Seul risiede nella convinzione che un atteggiamento eccessivamente intransigente di Washington verso Pyongyang spinga presto o tardi la Corea del Nord ad aggredire i fratelli meridionali. La defunta sunshine policy sudcoreana, che nel 2000 aveva portato all’incontro tra i due leader coreani a Pyongyang, si ispirava all’interesse condiviso alla stabilità e alla pace, dando vita ad una graduale politica di engagement con la controparte nordcoreana, al fine di incrementare progressivamente il livello di reciproca fiducia, anche mediante l’instaurazione di relazioni economiche bilaterali. La crescente disaffezione della popolazione sudcoreana nei confronti degli americani è stata recentemente acuita anche dall’atteggiamento rigido della dirigenza politica statunitense, incapace di focalizzare gli interessi sudcoreani e di sintetizzarli in modo reciprocamente accettabile con quelli di Washington. L’amministrazione Bush ha avversato sino alla sua paralisi operativa la sunshine policy, partendo dall’assunto che una politica di siffatta impostazione implicasse la possibilità dell’evoluzione verso il libero mercato pur in mancanza di un assetto istituzionale interno di tipo democratico anche per la Corea del Nord, sul modello cinese degli ultimi vent’anni. Era questo l’obiettivo dell’amministrazione Clinton che si spinse fino all’invio nella capitale nordcoreana dell’allora segretario di Stato, Madeleine Albright, in visita preliminare per l’avvio di regolari relazioni diplomatiche tra i due Stati.

Il fallimento eterodiretto della sunshine policy ha costretto la Corea del Sud ad adeguarsi ai foschi presagi di guerra. Seul ha incrementato notevolmente le spese militari, nell’ottica di un potenziale confronto a breve termine con i fratelli settentrionali, e ha dovuto prendere in seria considerazione l’ipotesi di un equilibrio peninsulare non più denuclearizzato, bensì di dotazione nucleare generale, col Giappone a farle compagnia in funzione anti-nordcoreana e anti-cinese. Il corto circuito politico-militare attivato dagli Stati Uniti nella regione ha reso sempre più complesso il dialogo tra le parti. In tal senso, il test nucleare di Pyongyang dello scorso ottobre è stato interpretato come un messaggio indirizzato a più destinatari: Seul, per quel che un giorno potrà accadere; Washington, per i rischi potenziali di una proliferazione incontrollata degli armamenti nucleari connessi alla lotta al terrorismo internazionale; Tokyo, perché si senta più vulnerabile; Pechino, affinché tenga a mente la capacità d’autonomia nordcoreana. La fine della sunshine policy sudcoreana ha accelerato il dibattito interno in Giappone sui tempi e sulle modalità di superamento del pacifismo imposto con la nuova Costituzione del 1947, in particolar modo l’articolo 9 che è oggetto di una reinterpretazione estensiva sin dal 2002.

Anche per la Cina l’interesse alla soluzione della crisi è di primaria importanza. Pechino tiene a consolidare la propria credibilità di grande potenza emergente ancorché proclive alla stabilità macro-regionale. Nell’ottica cinese, il problema nordcoreano è di lungo periodo e si inserisce in un più ampio scenario dato dal futuro dei rapporti di forza nella regione. Tuttavia, come rileva Shen Dingli, fellow del Fudan University Institute of International Affairs di Shanghai, la questione nordcoreana non può non essere considerata in congiunzione con quella che coinvolge Taiwan: la prima costituisce un fronte di stallo ulteriore rispetto alla seconda sul piano regionale, limitando il peso relativo dell’influenza statunitense rispetto a quella cinese e rappresentando per Pechino una carta in più da giocare al tavolo del negoziato multilaterale. Specularmente, i falchi dell’amministrazione americana hanno posto l’accento sulla retorica dell’intervento preventivo anche a nord di Panmunjon con l’obiettivo di impegnare la diplomazia cinese in un’opera di mediazione costante con l’amico nordcoreano, con l’intento di evitare il collasso del regno eremita e le nefaste conseguenze suoi propri confini in termini di migliaia di profughi.

La progressiva involuzione dei rapporti nell’area è stata funzionale agli interessi americani nelle relazioni con i loro alleati regionali. I toni più aggressivi tra le controparti hanno amplificato l’esigenza di protezione di Corea del Sud e Giappone. L’obiettivo americano è stato quello di spingere così i due paesi a rinsaldare i legami cooperativi in materia di sicurezza, anche in considerazione dei timori di una parte dell’élite americana in merito all’ascesa cinese. E poiché in entrambi gli Stati le tendenze autonomiste sono emerse prepotentemente in risposta al rafforzamento della percezione di instabilità del sistema regionale, Washington ha finito per ribadire il principio della propria imprescindibile presenza fisica nei territori sotto sovranità di Seul e Tokyo, con l’esclusività del proprio ombrello nucleare, a garanzia della preminenza militare americana in Asia orientale. Ancora di recente, in risposta al dibattito sorto in seguito all’apertura del nuovo premier giapponese Shinzo Abe sull’opportunità di una dotazione nucleare nazionale per Tokyo, il segretario di Stato americano Condoleezza Rice ha ribadito che «è estremamente importante affermare con veemenza l’impegno statunitense alla difesa del Giappone e della Corea del Sud». Ma come ha spiegato dalle colonne di The National Interest l’ex assistente speciale di Ronald Reagan, Doug Bandow, rispondere al virus della proliferazione nucleare incontrollata con la cura della «proliferazione dell’ombrello nucleare» a stelle e strisce è una retorica decisamente aggressiva che rischia di produrre un duplice effetto paradossale. In primo luogo, paesi quali l’Iran e la Corea del Nord sono giocoforza spinti a garantire la propria sicurezza con gli armamenti nucleari. Contestualmente, la variegata schiera di coloro i quali a livello internazionale auspicano il ridimensionamento della capacità di ingerenza americana – la Cina nello Stretto di Taiwan, al Qaeda e la galassia islamista in Medio Oriente ed Asia centrale, la Russia lungo le frontiere caucasiche – assiste alla moltiplicazione senza limiti dei teatri di crisi in cui l’autorità di Washington risulta protagonista principale e se ne avvantaggia al fine di logorarla con metodi di violenza asimmetrica o prove di forza tattico-negoziali.

Gli Usa adottano un approccio realista
Le crisi in Iraq e con l’Iran hanno gradualmente sottratto attenzione all’evoluzione dello scenario in Estremo Oriente, a tutto vantaggio di Kim Jong Il che ha cinicamente alzato il tiro con il test nucleare dell’ottobre scorso. A questo Washington ha fatto seguire la risoluzione 1718 che impone sanzioni circostanziate al regime nordcoreano e, due mesi più tardi, i colloqui bilaterali di Berlino. Il clima politico interno ormai mutato e il progressivo isolamento dell’ala neoconservatrice hanno permesso il cambio netto di strategia diplomatica degli Stati Uniti. L’incontro bilaterale di Berlino ha segnato una prima, significativa eccezione da parte americana alla pregiudiziale multilaterale nel confronto con Pyongyang che ha caratterizzato sin lì l’intera presidenza Bush.

Con l’adozione del “2007 National Defense Authorization Act” poco prima delle elezioni di mid-term, il Congresso americano, ancora a maggioranza repubblicana, ha in qualche modo bocciato l’intera politica nazionale nei confronti della Corea del Nord dal 2001 in poi. In base a tale provvedimento, il Congresso ha chiesto al governo la nomina di un commissario preposto al riesame dell’intera azione statunitense nel caso nordcoreano e dato nuova linfa al negoziato diplomatico con Pyongyang. Il risultato delle elezioni e il ribaltamento della maggioranza congressuale in favore dei Democratici ha acuito la pressione sull’amministrazione americana affinché spenda le ultime risorse politiche prima della scadenza del mandato nel rendere più flessibile il proprio profilo negoziale. Secondo alcuni osservatori, l’accordo preliminare del 12 febbraio scorso è il frutto di una pressione interna sulla Casa Bianca volta a privilegiare l’approccio realista bipartisan in luogo di quello neoconservatore nei confronti del caso nordcoreano, avendo come scopo il conseguimento di un concreto successo diplomatico entro il termine del mandato presidenziale, in presenza del fallimento dei pronostici dei politologi neoconservatori sul processo di democratizzazione del Medio Oriente. Per la prima volta dal 2005, la richiesta di budget per l’anno fiscale 2008 dell’amministrazione Bush presenta la voce di due milioni di dollari per gli aiuti alla Corea del Nord.

Prima che i negoziatori riuniti intorno al tavolo di Pechino redigessero una bozza di accordo, il dialogo tra Washington e Pyongyang era ancora fermo al comunicato congiunto del settembre 2005 in cui si stabiliva il riconoscimento del governo di Kim Jong Il da parte americana come preludio alla firma del trattato di pace della guerra del 1950-53, la fine delle sanzioni e il contestuale passo indietro nordcoreano sul nucleare. Ma i sospetti reciproci, il congelamento di ventiquattro milioni di dollari depositati presso il Banco Delta Asia di Macao e riconducibili alle autorità di Pyongyang, il braccio di ferro sul reattore di Yongbyon e la retorica pregiudiziale al tema democratico mantenuta da Washington hanno finito per tradurre in lettera morta il risultato più significativo sino ad allora conseguito nel dossier nordcoreano dall’amministrazione Bush. Un anno e mezzo più tardi, la Corea del Nord ha dimostrato di essere ormai in possesso di armi nucleari e gli Stati Uniti non hanno ricavato nulla sul fronte delle riforme interne a nord del trentottesimo parallelo.

Il riflesso del mutamento di approccio e dell’abbandono della linea dei falchi neoconservatori si rinviene all’interno dell’accordo preliminare di Pechino. In base a questo, la Corea del Nord si impegna a chiudere il reattore nucleare di Yongbyon entro sessanta giorni in cambio di una fornitura di cinquantamila tonnellate di combustibile o di un aiuto economico di pari valore. Per la chiusura della centrale di Yongbyon è prevista una verifica da parte degli ispettori dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica. Come incentivo per l’osservanza degli impegni assunti dal regime nordcoreano, una clausola prevede la fornitura a favore di Pyongyang di un ulteriore milione di tonnellate di combustibile o di aiuto economico di equivalente valore dal momento in cui la Corea del Nord terminerà definitivamente il proprio programma nucleare. La pregiudiziale della denuclearizzazione totale ed immediata in cambio di aiuti economici è stata quindi abbandonata dagli Stati Uniti. Non solo. Washington si impegna formalmente ad avviare entro sessanta giorni il processo di rimozione della Corea del Nord dalla lista degli Stati canaglia e a stabilire, insieme al Giappone, relazioni diplomatiche con essa. Infine si costituiscono tra le sei parti cinque gruppi di lavoro che sono chiamati a negoziare su altrettanti temi: la denuclearizzazione della penisola coreana, la normalizzazione dei rapporti tra Washington e Pyongyang, la normalizzazione dei rapporti tra Tokyo e Pyongyang, la sicurezza collettiva in Asia orientale, la cooperazione economica ed energetica.

Una strategia diplomatica meno rigida, con una retorica meno aggressiva e un approccio politico meno ideologico, ha permesso l’apertura di questa nuova fase. I commenti provenienti dagli ambienti che avevano sponsorizzato la precedente impostazione non sono mancati. Per Nicholas Eberstadt dell’American Enterprise Institute il negoziato è semplicemente una «farsa», perché permetterebbe «la costruzione di un arsenale nucleare nordcoreano ben nascosto dalla coperta diplomatica internazionale». Secondo l’ex ambasciatore statunitense alle Nazioni Unite, John Bolton, questi accordi «inviano il segnale più sbagliato a chi ambisce alla proliferazione nucleare», perché li incentiverebbe a garantirsi l’arma nucleare per poi trattare da una posizione di forza. Il dilemma che infatti accompagna questo accordo sottende il non detto dal testo pattuito: quale sorte per le armi nucleari già in possesso di Pyongyang? Sarà questo quesito a costituire il prossimo ostacolo negoziale, la seconda fase del processo di denuclearizzazione della penisola. Ma come ha sottolineato il vicepresidente del Council on Foreign Affairs, Gary Samore, l’amministrazione Bush, con quell’atteggiamento a lungo inflessibile, ha facilitato il processo di proliferazione che così voleva combattere. Ha cambiato linea soltanto quando ha preso atto del proprio fallimento, dando mandato al capo-delegazione Hill di definire un primo passaggio concordato di incentivo all’interruzione del programma nucleare nordcoreano per poi puntare al completamento del disarmo nucleare in una seconda fase. La flessibilità suggerita dagli ambienti realisti repubblicani consiste in questo doppio passaggio negoziale, corredato da importanti incentivi economici e diplomatici, che ha permesso l’impegno multilaterale del 12 febbraio.

L’Italia cerca uno spazio di mediazione
Tra le pieghe del Trattato di Non Proliferazione del 1968, tra la scarsa flessibilità ideologica dell’attuale amministrazione americana e la difesa ad oltranza del regime anacronistico nordcoreano, l’incubo della diffusione incontrollata di armamenti nucleari in giro per il mondo si è materializzato in un’area che presenta smottamenti di potenza analoghi a quelli che caratterizzarono il Diciannovesimo secolo in Europa. La mancanza di una pacificazione indotta da una comunanza valoriale tra gli attori regionali e la rivalità crescente in tema di potenza nucleare rendono via via più drammatica l’assenza di un agente stabilizzatore quale soltanto gli Stati Uniti potrebbero essere. Ragionando in termini sistemici, la progressiva reintegrazione della Corea del Nord nella vita di relazione internazionale, a partire da quella regionale, è subordinata alla soluzione del contenzioso nucleare. Ma alla negoziazione di una soluzione condivisa della crisi in atto dovrebbe accompagnarsi l’incentivo dato dalla prospettiva di una progressiva inclusione di Pyongyang nei numerosi fori regionali di cooperazione. Tra questi il più adatto a dar vita ad una sorta di concerto politico istituzionale su scala regionale sembra essere l’Asean Plus Three, costituito dai paesi membri dell’Association of Southeast Asian Nations (asean) più Cina, Giappone e Corea del Sud. Un foro multilaterale di questo tipo, poiché dotato di poteri vincolanti in materia di cooperazione intergovernativa, può funzionare nel medio-lungo periodo da camera di compensazione negoziale tra i contrastanti interessi degli attori principali dell’Asia orientale, mediante il rafforzamento degli accordi di libero scambio su base multilaterale e bilaterale già in cantiere, i processi di assistenza economico-finanziaria e la ricerca di una soglia minima di condivisione valoriale utile a consolidare la stabilità regionale per il tramite di iniziative di soft security. Incoraggia in tal senso l’atteggiamento cinese nei confronti dell’Asean Plus Three. Per Pechino il foro è «il principale canale» in cui convogliare i propri sforzi per la costruzione di una comunità regionale più propensa al dialogo permanente a tutela dello statu quo.

La posizione italiana nella crisi merita una considerazione. Sebbene sia chiaramente fuori dal great game dell’Asia nordorientale, l’Italia ha tuttavia sacrificato un importante ruolo di mediatore nella crisi in esame durante la fase politica di “iperlealtà” verso l’alleato americano successiva al 2001. Pur essendo stato il primo governo ad aver riconosciuto diplomaticamente la Corea del Nord nel 2000 con Lamberto Dini alla guida del ministero degli Esteri, Roma ha progressivamente optato per una posizione meno centrale, abbandonando la scelta tattica del ruolo di assertivo mediatore tra Washington e Pyongyang man mano che il revirement diplomatico di Bush ha richiesto ai propri alleati lo schieramento pro o contro l’America nella lotta agli Stati canaglia, abbandonando così lo schema negoziale bilaterale che fu proprio degli anni di Clinton. Quella posizione privilegiata avrebbe invece permesso all’Italia di ritagliarsi un ruolo funzionale ad una penetrazione più articolata nella penisola coreana e di riflesso in Estremo Oriente, anche in considerazione della lenta crescita dell’interscambio tra i due paesi a partire dal 2002. C’è da sperare che il recente rilancio dell’azione diplomatica nazionale nella regione, grazie anche alla nuova stagione della politica estera statunitense, permetta di recuperare almeno in parte il terreno perduto, verosimilmente nell’ambito di un’azione comune a livello di Unione Europea.

La missione del ministro degli Esteri D’Alema in Giappone e in Corea del Sud, che ha seguito l’intensificarsi dei contatti tra i rappresentanti diplomatici di Seul e Pyongyang accreditati presso il Quirinale mediante i Convegni della Farnesina, prima che il test nucleare dello scorso ottobre obbligasse l’Italia all’interruzione dell’iniziativa, ha segnato l’avvio di una politica nuovamente indirizzata all’elaborazione di un margine, sia pur ristretto, di presenza ed azione dell’Italia nella crisi. La reazione di condanna espressa da Roma in conseguenza del test nordcoreano e la richiesta di una immediata ripresa del negoziato esapartito, fermo l’impegno per l’implementazione della politica delle sanzioni contro il regime di Pyongyang e il favore trasversale col quale maggioranza ed opposizione parlamentare guardano alla riconciliazione peninsulare, rassicurano l’alleato americano dell’iniziativa italiana. Il ruolo di membro non permanente a mandato biennale che il governo italiano ha assunto dal primo gennaio scorso in seno al Consiglio di Sicurezza ha permesso altresì l’elezione dell’Italia per l’anno 2007 alla presidenza del comitato per le sanzioni alla Corea del Nord stabilite dalla risoluzione 1718, accrescendo le opportunità di dialogo e le connesse responsabilità. La sostanziale estraneità geopolitica di Roma all’equilibrio regionale e i buoni rapporti vantati con tutti gli attori coinvolti nella crisi fanno sì che anche a Pyongyang si guardi con favore ad un eventuale e crescente coinvolgimento del nostro paese in fase di mediazione, sebbene il vincolo del negoziato a sei rimanga chiaramente il caposaldo del confronto.

La stabilità geopolitica dell’area nordorientale dell’Asia è una condizione necessaria per l’equilibrio complessivo continentale, dall’Oceano Indiano al Mar del Giappone. Con lo spostamento del baricentro del sistema internazionale verso est, il cosiddetto Estremo Oriente è sempre meno regione estrema per gli interessi di una potenza regionale di medio rango a proiezione globale quale è quella italiana. La penisola coreana e l’area asiatica nord-orientale non sono in tal senso più periferici o meno importanti dei colossi di Cindia.

 

 



Daniele Sfregola, specializzato in Relazioni internazionali presso la sioi di Roma, si occupa di politica estera italiana e storia diplomatica. Collabora con il gruppo di ricerca Epistemes.org.

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