Efficienza energetica, dalla teoria alla pratica
di Gianguido Piani
Ideazione di
marzo-aprile 2007

Apriamo con una provocazione. L’Italia potrebbe risparmiare almeno la metà delle risorse fossili (carbone, gas, petrolio) di cui oggi fa uso, con enormi benefici economici, ambientali, di sicurezza nazionale, di salute e qualità della vita. I cambiamenti necessari potrebbero essere finanziati dalle somme risparmiate sulle importazioni di energia, in un orizzonte temporale di 10-15 anni gli investimenti sarebbero cioè a costo zero. Molte ricette sono ampiamente dibattute (risparmio energetico, modifiche strutturali nei trasporti, energie rinnovabili), alcune funzionano già in altri paesi, altre ancora sono plausibili e andrebbero provate. Nel seguito non sarà presentata l’ennesima lista delle buone intenzioni, ma si analizzeranno le difficoltà del passaggio dalla teoria alla pratica, in particolare quando scelte in ambiti limitati mettono a rischio strategie di più ampia portata. Il potenziale per nuove soluzioni è enorme, e ogni necessità è anche opportunità di affari, di esportazione. Si tratta qui di scegliere tra agire o continuare a dipendere da importazioni di energia e di know-how, senza miglioramenti di benessere e competitività. È inoltre necessario evitare polemiche a priori su quanto le misure da attuarsi siano “guelfe” o “ghibelline”: la loro efficacia deve essere valutata rispetto ad obiettivi reali, non a presunte connotazioni ideologiche.

I principali ostacoli al cambiamento verso l’efficienza energetica sono tre. Il primo è quello tecnologico ed economico: occorre intervenire sulla maggior parte di quanto è già in funzione, dall’isolamento termico degli edifici ai motori industriali, e soprattutto occorre finanziare modifiche e nuove installazioni. Tra i vari ostacoli, questo è probabilmente il più facile da affrontare. Il secondo riguarda la classe politica e dirigenziale che, a parte lodevoli eccezioni, o è disinteressata, o manca degli strumenti culturali per affrontare il problema: politici attenti solo a poltrone e prebende, sindacalisti prigionieri di ideologie del secolo scorso, dirigenti d’azienda senza visioni e strategie. Infine, il terzo ostacolo è una popolazione sulla difensiva e obbligata a decidere alla giornata, per la quale i progetti di vita sono un lusso. In altri paesi i cambiamenti economici e sociali sono percepiti come necessari e inevitabili, ma anche carichi di opportunità. Questo atteggiamento sarebbe necessario anche in Italia.

Energia: domanda, offerta o risparmio?
Le proposte più immediate per affrontare i problemi di ambiente ed energia sono solitamente rivolte all’offerta: nucleare, carbone “pulito”, rigassificatori e energie alternative. Ognuna di queste fonti ha però lati negativi e irrisolti. Il nucleare è certamente la tecnologia più controversa e, mentre l’Occidente si interroga sul suo futuro, i paesi in rapido sviluppo ne fanno sempre maggiore uso. Il carbone “pulito” non esiste, almeno fino a che non sarà dimostrata la fattibilità della separazione dell’anidride carbonica nei processi di combustione, operazione che sarebbe comunque molto costosa in termini energetici. Anche i rigassificatori sollevano molti dubbi economici e geopolitici. Oltre al notevole costo energetico per il trasporto di gas liquefatto, con il loro uso su grande scala si rinuncerebbe alla vantaggiosa accessibilità geografica ai grandi giacimenti russi e nordafricani. La Ue vuole costruire un mercato del gas per diversificare i fornitori, l’effetto sarebbe però anche quello di moltiplicare il numero dei potenziali acquirenti – una strategia economica molto rischiosa!

Le fonti rinnovabili – vento, energia solare, biomasse – coprono bisogni molto differenti. Con l’eolico si genera elettricità, dalle biomasse si producono calore o combustibili per l’autotrazione, il solare può sia fornire calore che elettricità. In natura le energie rinnovabili sono estremamente diluite, la loro conversione in forme utili richiede apparati di grandi superfici e volumi e avviene a bassa efficienza. L’uso di queste energie è pertanto giustificabile solo dove l’ utilizzo sia già estremamente razionale e senza sprechi e possa adattarsi ai loro cicli naturali di disponibilità. Ad esempio, la funzione più efficiente del solare è il riscaldamento di ambienti, dove può agevolmente sostituire i combustibili fossili. Al contrario sarebbe assurdo cercare di alimentare con il fotovoltaico grattacieli a condizionamento forzato oppure capannoni industriali senza finestre, che richiedono illuminazione artificiale anche di giorno.

Non esiste “la” soluzione unica, nucleare, solare o biomassa, a tutti i problemi. Una politica ragionevole dovrebbe pertanto differenziare tra più fonti, così da non essere vulnerabile verso una sola di esse. Allo stesso tempo sono indispensabili interventi di riduzione della domanda, che tra l’altro contribuirebbero a limitare il numero degli impianti di generazione elettrica e le importazioni di combustibile. Le opzioni su domanda e offerta vanno pertanto affrontate congiuntamente senza accuse “per lo spreco” o “contro lo sviluppo”. Risparmio non significa necessariamente consumare meno, mentre efficienza significa ottenere di più da risorse sempre più limitate. La bassa efficienza nell’uso dell’energia è la conseguenza della disponibilità di combustibili fossili ad alta densità calorica. Finora si è prestata poca attenzione all’isolamento termico degli edifici perché gasolio e metano per il riscaldamento avevano un costo contenuto e il successo dell’automobile è dovuto innanzitutto alla benzina a prezzi accessibili. Oggi la sfida è rovesciata, occorre costruire un’economia a bassa intensità di energia. Non vale la ricetta del Gattopardo recentemente riscoperta dall’enel, «la vera rivoluzione è non cambiare il mondo». Al contrario, una rivoluzione è necessaria e va affrontata con serietà. Saranno qui esaminate alcune opzioni nei settori riscaldamento di ambienti, trasporto e generazione elettrica perché ad essi è dovuta la maggior parte dei consumi finali di energia e di emissioni di gas serra.

Nuovi edifici in nuove città
Oggi sono tutti d’accordo sulla necessità di ridurre la domanda di calore degli edifici: a questo possono contribuire soluzioni progettuali e l’uso di adeguati materiali da costruzione. Un esempio è il sistema sudtirolese CasaClima, rivolto ad ottenere bassissimi consumi di energia nell’edilizia pur mantenendo un elevato comfort abitativo. Il sistema segue le disposizioni della Direttiva Ue 2002/91/EC sull’efficienza energetica degli edifici e i suoi punti principali sono rigorosi parametri tecnici, un metodo sistematico di verifica e di certificazione, una capillare informazione. Lo stesso nome CasaClima è stato scelto per evitare le connotazioni negative di “casa passiva”, che in pratica significa la stessa cosa. I consumi specifici sono espressi in litri di gasolio per metro quadro all’anno, unità tecnicamente meno precisa di kWh o MJ ma con significato immediatamente comprensibile: un edificio CasaClima consuma da uno a tre litri contro una media nazionale di quindici. Questa esperienza è ora presa a modello per iniziative analoghe nel resto d’Italia.

La riduzione delle emissioni in singoli edifici è un passo importante, ma rappresenta una soluzione ancora parziale. Per risparmiare ulteriormente occorre considerare modelli urbanistici integrati. Gruppi di edifici contigui consumano infatti meno energia di una cubatura equivalente più frammentata sul territorio e per maggiori densità abitative i servizi a rete di energia e trasporti diventano più semplici e meno costosi. Questo punto non è però facile da affrontare in generale, ed è particolarmente dolente in Italia. Nei paesi nordici, che già mostrano parametri di efficienza tra i più elevati al mondo, gli edifici più moderni hanno ampie vetrate e sono orientati in modo da sfruttare al massimo luce e calore solari; le caldaie convenzionali sono ormai state rimpiazzate da sistemi a bassa temperatura, pompe di calore e distribuzione centralizzata. Si sta diffondendo il teleraffreddamento estivo di quartiere così da evitare la proliferazione di impianti autonomi di condizionamento. Perfino la neve rimossa dalle strade d’inverno viene accumulata in zone ombreggiate per servire durante l’estate come sorgente a bassa temperatura per il raffreddamento ambientale.

Il verde urbano può fornire un importante contributo all’efficienza energetica, abbassando d’estate di alcuni gradi la temperatura della zona circostante e alzandola d’inverno (i piazzali asfaltati, al contrario, peggiorano notevolmente la situazione, in particolare in estate quando formano isole di calore). Oggi nei centri storici italiani molti cortili interni potenzialmente adatti per farvi giardini sono usati come parcheggi. Il dilemma è ovvio: il disagio della perdita del posto macchina è immediato mentre gli alberi per crescere hanno bisogno di decenni. Nell’ambito del Protocollo di Kyoto si propongono iniziative per compensare le emissioni di gas serra con rimboscamenti in paesi tropicali. Se il rinverdimento fosse invece attuato nelle nostre città i vantaggi sarebbero di gran lunga maggiori. Una nuova visione di città che integra abitazioni, uffici, servizi, verde urbano e trasporto pubblico si sta affermando in diversi paesi europei e asiatici. Gli abitanti sono facilitati a fare a meno dell’automobile e quasi ovunque la vicinanza a una stazione di metropolitana o treno regionale fa lievitare i prezzi degli immobili. In molte città d’Oltralpe i tram servono non solo al trasporto, ma anche alla riqualificazione dei centri storici. Centri commerciali con comodi orari di apertura sono presenti in aree urbane così da non obbligare all’uso dell’auto per fare la spesa in periferia. Il problema principale del trasporto locale è adesso la suburbia, gli insediamenti costruiti in funzione dell’automobile. Indubbiamente la scelta di dove e come vivere deve restare libertà e responsabilità individuale, ma la politica può contribuire a orientare alcune scelte. In diversi paesi Ue si considera di eliminare le detrazioni fiscali sui viaggi tra casa e lavoro e sulle auto aziendali proprio per togliere un incentivo indiretto all’espansione di abitazioni monofamiliari e al diffondersi di auto di grande cilindrata.

Il diffondersi dell’architettura solare e di altre forme di sfruttamento delle energie ambientali apriranno nuovi problemi urbanistici, in particolare sui diritti e sui limiti di accesso a risorse comuni. Oggi in principio non si è sottoposti a vincoli di edificabilità sul proprio terreno. Ma se un nuovo edificio ne mette in ombra un altro che già sfrutta l’energia solare per riscaldamento e illuminazione? E la sola intenzione di costruire un edificio solare può essere sufficiente per bloccare i progetti del vicino? È evidente il rischio di abusi nell’uno o nell’altro senso, e nella tradizione italiana i relativi contenziosi rischierebbero di trascinarsi nei tribunali per decenni. Servono pertanto fin d’ora decisioni di principio orientate non solo all’interesse dei singoli ma ad interi ambiti territoriali e con adeguati strumenti operativi e di verfica. Un altro ostacolo all’efficienza energetica tanto diffuso quanto banale è dovuto al rapporto, spesso conflittuale, tra affittuari e inquilini. L’inquilino non è interessato a finanziare interventi strutturali che resterebbero a vantaggio del proprietario, e questo a sua volta non ha bisogno di investire per ridurre costi di gestione che può comunque trasferire all’inquilino. In questa ed altre situazioni è richiesto un ruolo attivo del legislatore. Interessi di parte, anche se giustificati, non dovrebbero prevalere su strategie integrate e rivolte all’efficienza complessiva.

Il futuro sta nel trasporto collettivo
Più che in altri settori, per i trasporti non esiste una formula magica che permetta di continuare con il sistema attuale ma consumando meno energia. I biocarburanti potrebbero alimentare solo una minima parte del traffico stradale, mentre metano, elettricità e idrogeno non sono al momento alternative plausibili a benzina e gasolio. Qui più che altrove sono necessarie misure drastiche, che non incidano sulla mobilità come tale, ma sui suoi modi. Nel traffico di persone il trasporto collettivo diventa nella maggior parte dei casi scelta obbligata per ridurre consumi ed emissioni.

Al centro di ogni discorso sui trasporti è chiaramente l’automobile. L’Ue intende sanzionare (gennaio 2007) l’industria automobilistica a causa delle emissioni eccessive delle autovetture. Tali emissioni però non dipendono da un errato progetto dei motori ma dalla dimensione dei veicoli, che a loro volta più che a trasportare il conducente servono a mettere in evidenza la sua personalità. In moltissimi casi si potrebbe fare a meno del mezzo privato, o utilizzarne di dimensioni e consumi ridotti, ma nessuna politica razionale di ottimizzazione dei trasporti può intervenire sull’irrazionalità delle scelte personali. Ogni misura seriamente orientata a limitare l’uso dell’automobile è inevitabilmente destinata all’impopolarità. Un primo passo fondamentale sarebbe il mettere in relazione i costi, anche indiretti, dell’uso degli automezzi addebitandoli ai proprietari piuttosto che facendoli gravare sui bilanci pubblici, ma per questo sono necessari un disegno strategico a lungo termine e, soprattutto, coraggio.

Il trasporto collettivo, in primo luogo quello ferroviario, può svolgere un ruolo fondamentale nella riduzione dei consumi energetici. In questo campo è paradossalmente proprio l’Ue a imporre politiche in contraddizione con obiettivi di efficienza e difesa dell’ambiente. Le ferrovie meglio funzionanti d’Europa sono probabilmente quelle svizzere e quelle tedesche. Invece di seguire questi modelli, l’Ue preme per la liberalizzazione del settore ferroviario secondo il modello inglese, ormai considerato fallimentare dai suoi stessi ideatori. I binari saranno gestiti da società separate da quelle di trasporto, che saranno in concorrenza, mentre al contrario l’esperienza mostra come il buon funzionamento della rete ferroviaria richieda uno stretto coordinamento tra i vari elementi del sistema. In tutta Europa il trasporto pubblico è troppo poco sviluppato rispetto a quello privato perché abbia senso frammentarlo ulteriormente, la concorrenza dovrebbe essere del trasporto pubblico nel suo insieme contro quello privato. La vera sfida è cioè di convincere il viaggiatore a passare dall’auto al treno, scegliere fra treni è ancora prematuro. L’automobile ha un grande vantaggio rispetto al treno con la flessibilità nella scelta dei tempi di viaggio e la capillarità di penetrazione sul territorio. Per ridurre lo svantaggio le ferrovie dovrebbero offrire corse frequenti, coincidenze bene coordinate fra trasporto regionale e treni a lunga percorrenza, orari facilmente comprensibili, semplicità nelle tariffe – proprio come in Svizzera, ma l’esatto contrario delle riforme volute dalla Ue.

In Italia numerosi altri irritanti aspetti ostacolano l’uso del mezzo pubblico. Di solito non è possibile acquistare i biglietti sugli autobus, e ogni città ha un suo proprio sistema di vendita che spesso disorienta visitatori esterni. L’inflessibile sistema di prenotazioni di Trenitalia aumenta le situazioni di possibile infrazione, che vengono sanzionate in base a regolamenti bizantini e tariffe penalizzanti. Le stazioni non sono concepite per la comodità del viaggiatore e la loro stessa architettura rispecchia lottizzazioni territoriali, contenziosi sindacali, disinteresse d’insieme quando invece ci sarebbe bisogno della semplificazione dei sistemi tariffari, di punti di vendita biglietti anche con nuove tecnologie quali Internet e sms, schermi ben visibili per la presentazione continua di informazioni al posto di sporadici e poco comprensibili annunci acustici preregistrati. In questo mondo alla rovescia il risultato dell’insipienza nazionale sta ora diventando politica ufficiale dell’Unione Europea.

Liberalizzazioni o mercato?
La politica nazionale e dell’Ue vede nel proseguimento delle liberalizzazioni la principale ricetta per ridurre il prezzo dell’elettricità, identificare nuovi investimenti, aumentare la sicurezza delle forniture. Purtroppo non si è fatto tesoro delle esperienze negative degli ultimi anni: con le liberalizzazioni nella loro formulazione attuale aumenteranno le emissioni di gas serra e la sicurezza delle forniture sarà sempre più a rischio; ci abitueremo a convivere con i blackout.

Il discorso è complesso e ne verranno qui considerati solo due aspetti essenziali, l’unbundling e la ripartizione di rischi e responsabilità in termini di mercato. Unbundling è la separazione dei sistemi elettrici nei settori di generazione, trasporto e distribuzione con l’organizzazione di società indipendenti e l’istituzione di un mercato concorrenziale tra generatori. Di fatto tale mercato è molto limitato. A causa degli enormi costi infrastrutturali e delle limitazioni di accesso ai combustibili, le tecnologie di generazione sono in gran parte obbligate. Sole e vento non sono concorrenziali al carbone. L’idroelettrico è ormai totalmente sfruttato. Il gas naturale permette di generare elettricità con investimenti contenuti e con emissioni ridotte di gas serra, ma la forte crescita della domanda ha recentemente sollevato problemi di fornitura e di prezzi. Altre tecnologie concorrenziali per generare grandi quantità di energia oggi non esistono. Inoltre, nel prospettare i vantaggi del mercato non si considerano gli svantaggi della perdita di coordinamento di sistema. Per mantenere la sicurezza è necessario prevedere maggiori ridondanze nelle linee elettriche, il che richiede investimenti aggiuntivi. In regime di unbundling le società di generazione a fronte di aumenti di domanda possono solo agire aumentando la produzione, ma non possono fare investimenti in riduzioni di carico. Una delle conseguenze delle liberalizzazioni degli anni Novanta in California fu proprio l’interruzione dei programmi di efficienza energetica, il che contribuì in parte all’aumento della domanda e quindi alla crisi del sistema elettrico. Una delle prime misure contro il blackout fu proprio la riattivazione dei programmi di efficienza energetica.

Tra le numerose possibilità di riduzione dei carichi elettrici si prenderanno ad esempio le alimentazioni stand-by, molto tematizzate negli ultimi anni. Buona parte dei carichi stand-by sono dovuti ad apparecchi le cui funzioni potrebbero oggi essere gestite in modo diverso: decoder per il digitale terrestre combinati con ricevitori satellitari, schede sim virtuali con l’indirizzamento di più chiamate sullo stesso telefonino, sistemi di messaggeria unificata con servizi integrati di telefonia, segreteria, inoltro messaggi, fax, posta elettronica. Con queste soluzioni si eviterebbero numerose scatolotte che ingombrano i mobili di casa e dell’ufficio e che presi tutti insieme rappresentano un carico di centinaia di MW su scala nazionale, l’equivalente di alcune grandi centrali elettriche. Le opzioni sopraindicate non sono tecnicamente difficili da realizzarsi, ma non risvegliano interesse commerciale fino a che si preferisce vendere oggetti, e non servizi. Le alimentazioni stand-by sono anche un esempio dove il mercato dell’elettricità non può venire in aiuto per via dei troppi passaggi indiretti e della difficoltà di ripartire costi e responsabilità.

La concorrenza funziona solo quando l’acquirente può reagire all’aumento del prezzo dell’elettricità cambiando generatore oppure riducendo i consumi. L’utenza è però quasi sempre vincolata e il consumo di elettricità non dipende dal prezzo: le fabbriche funzionano in orari ben definiti; la luce serve quando è buio, non quando l’elettricità costa poco. Le poche utenze industriali che possono organizzare la produzione in funzione dei costi dell’energia lo facevano anche prima delle liberalizzazioni. Inoltre, senza un’infrastruttura capillare di contabilizzazione e controllo della domanda elettrica il mercato perde di significato reale. In regime di mercato, nelle utenze domestiche (con le debite proporzioni lo stesso principio vale anche per quelle industriali) il contatore dovrebbe indicare il prezzo istantaneo del kWh e permettere così al consumatore di scegliere di volta in volta quali elettrodomestici collegare. La corrente adesso è troppo cara? Allora non stiro. Nell’ideale del mercato, all’aumentare del rischio black-out o in occasione di altre limitazioni nella generazione o trasmissione i prezzi salirebbero e con questi le disconnessioni volontarie così da riportare in equilibrio domanda e offerta. Con il comando a distanza del limite di potenza presso le utenze anche le energie alternative sarebbero a pieno titolo nel mercato. La generazione solare è insufficiente? L’utente che ha scelto l’energia “pulita” viene scollegato. Si interrompe una linea ad alta tensione verso la Slovacchia? La fabbrica che si fornisce da lì a prezzo vantaggioso viene disconnessa dalla rete. Per la quasi totalità degli utenti il sistema prospettato sarebbe però ingestibile e indesiderabile, più semplice affidarsi all’enel o alle municipalizzate. Occorre qui avere il coraggio della scelta: se l’elettricità è un prodotto come un altro – uno dei principali argomenti a sostegno delle liberalizzazioni – allora occorre trattarlo come tale e accettare che a volte lo scaffale sia vuoto. Un vegetariano coerente non mangia una bistecca se mancano le patate, lo stesso dovrebbe valere anche per i servizi energetici. Gli esempi presentati possono sembrare paradossali, ma servono ad indicare che anche azioni buoniste, tipo l’acquisto di elettricità cosiddetta pulita, hanno forti limiti quando si scontrano con le realtà dei sistemi energetici.

Un aspetto importante per le energie rinnovabili sono gli incentivi finanziari. Al momento il metodo più diffuso di finanziamento di fonti alternative è l’acquisto a prezzo agevolato dei kWh prodotti. Questo metodo può però portare a distorsioni nell’efficienza complessiva perché privilegia alcuni metodi di generazione ma non considera il contesto generale. Si corre ad esempio il rischio di incentivare la generazione solare in piena estate, quando serve poco, mentre impianti convenzionali a combustibili fossili restano comunque necessari per fornire energia in fredde e buie giornate invernali. Una volta accettato che in una fase iniziale un qualche tipo di incentivo è necessario, questo dovrebbe fondarsi su tre componenti: l’energia prodotta (i kWh), la potenza nominale (i kW installati) ed un coefficiente di disponibilità (l’idroelettrico ad esempio è disponibile con più regolarità di vento e sole e, a parità di altri fattori, dovrebbe venire maggiormente incentivato). Per promuovere l’efficienza energetica sarebbe inoltre necessario che i meccanismi incentivanti fossero orientati non solo ad aggiungere capacità, ma anche a ridurre i carichi, tenendo conto anche in questo caso delle componenti di potenza, energia e distribuzione temporale del carico evitato. Ogni intervento di riduzione di carico installato dovrebbe idealmente ricevere un suo valore spendibile sul mercato proprio per incentivare l’efficienza piuttosto che l’aumento di capacità generativa.

Il ruolo dello Stato e delle banche
Un buon passo per aumentare l’efficienza energetica nazionale sarebbe lo snellimento della burocrazia. Internet è uno strumento ideale perché permette di sostituire il trasporto di informazione a quello di persone e cose. Si è timidamente iniziato a mettere on line formulari pdf, il grande passo sarebbe permettere il riempimento dei dati online e l’invio di domande e certificati in forma totalmente elettronica. Evitare viaggi, code e irritazioni inutili aiuterebbe a risparmiare energia ed aumenterebbe notevolmente il benessere dei cittadini.

Il passaggio dalla società attuale verso una ad alta efficienza energetica richiede necessariamente tempi medio-lunghi. Al contrario, il mercato nella sua formulazione attuale è costretto a guardare al breve termine e non è in grado di affrontare questioni strategiche. È qui che la politica deve assumere un ruolo guida, indicando strategie e direzioni. Decisioni a basso livello, fosse anche solo la definizione dell’orario di un treno locale, non devono contraddire strategie di efficienza e risparmio di più ampio respiro.

I mercati dell’elettricità o delle quote di emissione per Kyoto sono molto volatili e male si adattano quale strumenti di finanziamento di soluzioni a lungo termine. Occorrono garanzie sul mantenimento di particolari livelli di prezzi, garanzie che questi mercati non possono dare. Finanziamenti molto più semplici, facilmente comprensibili e collaudati da decenni sono i mutui bancari. Combinati con le agevolazioni descritte in precedenza per la generazione rinnovabile e per il risparmio energetico, fornirebbero uno strumento a medio-lungo termine più che adeguato. Si dovrà attendere ancora a lungo prima che le nostre banche scoprano il potenziale di affari dell’efficienza energetica?




Gianguido Piani, esperto di sistemi energia a San Pietroburgo.

(c) Ideazione.com (2006)
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