Il diritto a non comunicare
di Vittorio Mathieu
Ideazione di
marzo-aprile 2007

Quando cambiò il millennio notai che la rivoluzione cominciata verso il mezzo del Novecento era seconda per importanza solo al passaggio dal paleolitico al neolitico, che differenziò il modo di vivere dell’uomo da quello degli altri animali (Ideazione, 6/1999). Da allora la rivoluzione informatica è divenuta ancor più incisiva, benché incida solo su un modo di trasmettere l’informazione che l’homo sapiens pratica da molti millenni.

L’informazione è ciò che accomuna. Unisce le cose e, in particolare, gli uomini che vivono in società. Gli uomini comunicano parlando, perciò la politica, o arte del convivere, è condizionata nel bene o nel male dal parlare, di cui è arte la retorica, arte del retore o “parlatore”. Ciò spiega perché si parli di retorica in una rivista di cultura politica come Ideazione. Qui abbiamo già detto qualcosa nel numero 1/2007. Ora però il discorso punterà sui mezzi per comunicare – su cui incide la rivoluzione informatica – che sono in misura sempre più estesa macchine: macchine calcolatrici, o computer, con una struttura simile a quella del nostro sistema nervoso, ma che, a differenza di esso, hanno la peculiarità di essere artefatti, “fatti ad arte” anziché naturali. Per certi aspetti sono ancora molto inferiori ai sistemi naturali, ma per altri hanno rilevanti vantaggi. Accade spesso, ormai, che oggetti fatti a macchina riescano meglio dei corrispondenti fatti a mano, e così le comunicazioni trasmesse a macchina risultano a volte più minuziose e meno disturbate.

Molti problemi di comunicazione sono sorti dalle guerre. Immaginiamoci una batteria contraerea che deve colpire apparecchi in volo, le cui evoluzioni sono imprevedibili. Puntatori umani (esercitati a tirare al piccione, più che al piattello) dimostrano diversa bravura, ma gli informatici sono capaci di costruire sistemi meccanici di puntamento più bravi di loro (di qui le “bombe intelligenti” e altre consimili sciocchezze). Ora, perché le macchine possano decidere, le evoluzioni degli aerei devono essere loro comunicate, e la cosa sorprendente è che tale comunicazione va tradotta, per funzionare, in un linguaggio-macchina molto più “macchinoso” del linguaggio umano. È il linguaggio detto “digitale”, che potrebbe servirsi di due sole dita. Più esattamente si vale di due soli segni, variamente raggruppati. Già con l’alfabeto Morse i visi pallidi avevano dimostrato nell’Ottocento di comunicare meglio che gli indiani con segnali di fumo.

Uno dei genii più tristi del Novecento, Alan Turing morto suicida cinquantenne, teorizzò l’algoritmo, o macchina teorica, che prende il suo nome. Esso si limita a imprimere su una striscia due segni diversi, ad esempio 0 e 1, o a lasciare uno spazio bianco. Con ciò è capace di registrare tutto lo scibile, ossia tutto ciò che sappiamo, o anche non sappiamo ma potremmo sapere.

Già Leibniz – e prima di lui anche altri tra cui, pare, Confucio – aveva accertato che con due sole cifre si può scrivere qualsiasi numero e successione di numeri, purché si usi un po’ più di carta. Se perciò si riuscisse a ridurre in numeri tutti i concetti, aveva già detto Leibniz, qualsiasi ragionamento diverrebbe un calcolo; e quando ad esempio i teologi orientali e occidentali discutono se lo Spirito Santo derivi solo dal Padre o anche dal Figlio (ab utroque), non avrebbero che da sedersi intorno a un tavolo e dire “calcoliamo”. Così diceva Leibniz.

Un altro genio del Novecento (meno triste di Turing), Kurt Gödel, fece un passo più in là: mostrò che è effettivamente possibile dare a un ragionamento formalizzato la forma di un calcolo con un risultato rappresentato da un numero che si distingue da qualsiasi altro. La sua dimostrazione si fonda sull’unicità della scomposizione di qualsiasi numero in fattori primi, e quindi implica risultati prodotti da numeri elevati a potenza che, scritti con due sole cifre, occuperebbero strisce lunghe più volte il giro dell’universo. Ma l’importante è che in linea di principio sia possibile pensarle.

I computer sono ancora molto più perfezionati. L’operatore colloquia con loro e con altri per mezzo loro. A volte sembrano un po’ duri d’orecchio e lenti di comprendonio, sicché si farebbe prima a fare un biglietto ferroviario scrivendo su un foglio di carta “Agognate, adulti, II classe”. Ma il computer ha il vantaggio di conoscere già il prezzo e di conservare memoria della transazione per un eventuale controllo della Corte dei Conti. Molto più in là su questa strada si possono risolvere problemi calcolabili anche a mente, ma con una durata che li rende insolubili: la macchina li calcola senza difficoltà. Dalla età dell’informatica, perciò, non si torna indietro più che dall’età del bronzo all’età della pietra.

Tuttavia il trionfalismo è fuor di luogo, perché altri problemi si diffondono ad una con i vantaggi. Il principale è che collocando la tecnica nella macchina si rischia di svuotarne l’uomo, mentre la tecnica è il mezzo con cui l’uomo si realizza come uomo. L’ho documentato in La crisi della tecnica nell’età tecnologica. Oggi si commettono errori tecnici puerili. Ad esempio i bambini siedono su carrozzine che vanno spinte e che hanno le ruote direttrici davanti anziché dietro. L’inconveniente di solito si riduce a far girare le ruote anteriori come trottole, ma provate a spingere una carrozzina di quel genere su una strada inclinata su un fianco, e vi accorgerete di che cosa vuol dire. Nel caso specifico dell’informazione si rischia di non saper più né scrivere né parlare. Inoltre l’informazione, quando supera una certa quantità, soffoca se stessa. Vi sono impiegati e amministratori che perdono un’ora ogni giorno per scaricare la posta elettronica. Non è strano quindi che la nostra società istituisca un garante della privacy per evitare l’alluvione.

Ora mi capita tra le mani la traduzione tedesca del libro di un mio eccellente collega, Mario Perniola: Contro la comunicazione. Subito dopo ricevo la Ontologia del telefonino, di Maurizio Ferraris (Milano 2005) e di lì apprendo che del problema si è occupato addirittura Jacques Derrida, oggi citato a preferenza di Aristotele. Da ultimo ha preso posizione sul problema il Santo Padre, dicendo esplicitamente che l’eccesso di comunicazione può avere un effetto opposto. A questo punto mi sono reso conto che la posizione un po’ drastica che avevo assunta qualche anno prima contro il comunicare non era del tutto ingiustificata.

Fu uno scatto improvviso, di origine casuale. Sono amico del fondatore e presidente di una associazione per il diritto a comunicare. Un giorno, costretto a rinunciare alla siesta per andare ad ascoltare un oratore che non aveva potuto parlare al mattino, fui avvicinato dal fondatore della predetta associazione, che mi domandò non so che cosa. Lo mandai al diavolo, e feci male, ma ebbi un’idea felice: fondare e divenire il presidente di una associazione per il diritto a non comunicare. L’iniziativa ha avuto un successo immediato: siamo già in molti milioni, anche se non ci conosciamo perché, naturalmente, non comunichiamo. Ora vedo che Perniola non ha remore a parlare contro la comunicazione, e il titolo di Ferraris mi fa pensare che sotto ci sia molta ironia.

A forza di comunicare la “comunione” si perde
La radice latina Kommunication vedo che prevale in tedesco su calchi germanici come mit-teilen (“con-dividere”); e questo di per sé sarebbe un bene. Communio (da moenia) è “ciò che un muro ed una fossa serra”. Mentre condividere una cosa significa ripartirla tra molti, in modo che ciascuno ne abbia una parte, nella comunione ciascuno ha il tutto.

Oggi tuttavia l’espressione “valori condivisi” prevale su “valori comuni”: quelli passivi, questi attivi. Perfino il pane eucaristico è stato chiamato a volte pane condiviso, anziché pane che accomuna. L’azione allora verrebbe dall’associarsi di più individui, ciascuno dei quali solo associandosi diverrebbe “concreto”.

Al tempo del Vaticano II questa, che non mi perito di chiamare eresia, si fece per un momento minacciosa, al punto di far dire a qualcuno che la Messa è celebrata dall’assemblea: l’officiante, rivolto verso di lei si limiterebbe a presiedere. Si noti anche il diffondersi della locuzione “partecipare” alla santa Messa anziché “assistere”: quasi si trattasse di concelebrare. Tutto questo non deriva dal Vaticano II, ma incide sul sentire popolare di persone soggettivamente “credenti”. Riferirò un episodio. Una domenica il parroco era assente e la Messa non fu celebrata. Un diacono pronunziò molte preghiere della Messa, distribuì (se non ricordo male) ostie già consacrate, e non disse «ite, Missa est» perché parlava italiano. Buona parte del pubblico se ne andò pensando che la Messa ci fosse stata. Persone, dico, che andavano a Messa ogni domenica.

Un tempo il mistero del sacramento dell’Ordine era capito meglio, anche dai miscredenti. Voltaire immagina un orientale che vede una folla raccolta intorno a uno che sta mormorando qualcosa e commenta: il faisait Dieu. Il mistero della Transustanziazione è spiegato perfettamente in La voie lactée di Buñuel da un capo cameriere a due avventori, che capiscono, ma non del tutto, sicché il maître de table è costretto a precisare qualche particolare essenziale. Miscredenti, dunque, ma più precisi nel parlare e dunque nel pensare.

Nel Vangelo il Cristo dice: «Laddove due o tre di voi saranno riuniti nel mio nome, lì sarò io». La frase può essere intesa in due sensi opposti. Tutto sta nell’intendere quel “mio nome”. Il nome è il segno della individualità vivente e attiva. Ma se questa interpretazione è lasciata cadere, “Dio” diviene il risultato dell’unione anziché il suo fondamento.

Perniola è un professore di estetica, e il lettore che va oltre la prima metà del suo libretto si trova con sorpresa di fronte a una seconda parte che parla dell’arte e può sembrare il contrario della prima.

La comunicazione artistica è solo una forma particolarissima di comunicazione, o può darsi che per certi aspetti sia la principale? Quando riesce, non è mai ripetitiva: l’esatto opposto delle “notizie” giornalistiche o televisive che (così si dice) sono “vere”, ma sempre identiche: siccità e inondazioni, caldo e freddo, risse parlamentari, stragi e ingorghi nel traffico. Queste le notizie che in inglese si dicono impropriamente news, novità. L’arte, per contro, è sempre nuova.

In secondo luogo le “fanfaluche” inventate dall’Ariosto, sebbene non abbiano nulla di scientifico, sono state dette da un gran critico «la poesia della nuova scienza». L’arte ci fa conoscere l’uomo, la donna, i rapporti sociali, meglio delle “scienze umane”.

Anni fa don Pietro Pace, il segretario generale di una fondazione patrocinata dal cardinale König – Nova Spes – volendo abbracciare in un quadrinomio sotto la filosofia tutte le attività umane, disse: religione, scienza, economia, arte; riconducendo sotto il titolo dell’arte appunto il comunicare. Non deve sorprendere, perciò, la seconda parte del volumetto di Perniola. Essa chiarisce che noi non siamo punto contro la comunicazione autentica: siamo contro la successione quasi infinita di 0 e di 1, che può trasmettere tutto, ma di per sé non comunica niente: non ci accomuna tra noi, né con la verità.

In una “penna” meno ingombrante di un compact disc, si può far stare il contenuto di un’enciclopedia; e una macchina da poche migliaia di euro è in grado di tradurcelo in “buon” italiano. Multinazionali del sapere – che non nomino per non essere accusato di fare pubblicità – ci dicono: «Messo t’ho innanzi, omai per te ti ciba». On line c’è tutto; così noi possiamo permetterci di restare ignoranti, risparmiando tempo e denaro.

Questo il paradosso della comunicazione digitale, che Maurizio Ferraris affronta a proposito di uno strumento modestissimo, ma che può divenire universale: il telefonino. Ne scrive l’ontologia e spiega alla fine il perché di quel titolo. L’ontologia riguarda tutto ciò che c’è, e nel telefonino c’è tutto: parole, immagini, passioni, speranze. Cominciarono i giapponesi a semplificare i viaggi sostituendo al viaggiatore una macchina fotografica; ora tutto il mondo (e più di tutti l’Italia) “comprende” il reale collocandolo nel telefonino. Ferraris fa osservare che questo non è altro che un portare al limite una tradizione antica: incidere lapidi, trafiggere con una freccia due cuori su un tronco d’albero, scrivere l’inizio di una canzone sul polsino inamidato di una camicia. Se non che nella continuità della comunicazione qualcosa si è rotto: come quando Chaplin non riesce ad attaccare il motivo di Io cerco la Titina perché non riesce più a leggere l’appunto che ha scritto sul polsino. Anche noi abbiamo rotto tra lo strumento e l’utilizzatore. Nei Vangeli c’è un passo che ci fa capire questo pericolo. Gesù è rappresentato come uno che non registra nulla per scritto. Non registra nei telefonini perché non sarebbe capito; ma è rappresentato come uno che non mette nulla per scritto in generale: registra solo in una memoria tutta interiore. E quando sembra scrivere qualche parola lo fa sulla sabbia, cioè precisamente in ciò che non ha memoria.

Il nuovo medioevo
A quanto mi dicono, la natura aveva già scoperto tutto. Un audiologo di fama (che l’aeronautica incaricò di studiare i disturbi di udito che nascono da bruschi cambiamenti di altezza) mi ha spiegato che i suoni arrivano al timpano in forma analogica (onde di una data frequenza); vengono trasformati dalla coclea in forma digitale, perché solo così i nervi possono trasmetterli al cervello; e infine, nel cervello, riprendono la forma analogica, grazie alla quale accade anche che un Do di petto frantumi un bicchiere.

Mi misi a riflettere su ciò che può avvenire “nel cervello” e, naturalmente, non venni a capo di nulla. Che i nervi facciano capo al cervello e non al cuore, come hanno a lungo sostenuto alcuni, è una disputa ormai sistemata; ma quella capacità del cervello di unificare il diverso attraverso la complicazione mi sa di mistificazione. Ho l’impressione che si assegni al cervello un’abilità che solo i computer posseggono, e all’uomo la capacità di emulare la macchina. Dicono che nel cervello di un bambino di cinque anni ci siano più informazione che nella memoria di un calcolatore dell’ultima generazione. Ma questa tendenza a screditare la macchina mi insospettisce. Finché mi si dice che le cellule ciliate trasformano l’analogico in digitale io lo credo, ma quando mi si dice che nel cervello il digitale ridiviene analogico ho l’impressione che al cervello si assegni una capacità quasi profetica, di parlare a nome di Dio: perché l’analogico è analogo alla realtà creata da Dio. L’informatica mi insegna il contrario: che il digitale è la verità e l’analogico è l’apparenza, di cui parlavano gli Eleati: ciò che della verità captiamo noi.

Il dilemma è tuttora aperto, perché dalla scuola eleatica vengono gli atomisti, dunque la scienza; ma ne vengono anche i sofisti, dunque una retorica che inganna. La scienza, nel Novecento, si è liberata dalle inibizioni e ha fatto l’ultimo passo: quello che da Parmenide porta a Democrito e oggi a Jacques Monod, «che il mondo a caso pone». Ma da Parmenide non viene solo Democrito, viene anche Gorgia di Lentini che, anticipando come meglio poteva Emanuele Severino, nel linguaggio eleatico della scienza vede la rivelazione del nulla: il nichilismo. Per la scienza dell’ultimo Novecento il nulla è la verità, il qualche cosa l’apparenza; e ciò demistifica – o, come dice Derrida “decostruisce”– la metafisica. Questa scienza è l’informatica. La verità sarebbe un’informazione tutta digitale: nelle stringhe, nelle particelle elementari, che sottostanno alla meccanica quantistica, nel genoma, nella televisione satellitare e così via. Contestare tutto questo con la metafisica tradizionale – o, peggio, con la religione – diviene allora una tattica che ha la stessa efficacia di Oscar Luigi Scalfaro quando dice “non ci sto”.

Secondo i neoilluministi i filosofi retrò o, peggio, i capifila di confraternite religiose, che dicono “non ci sto”, negano il valore della scienza, cercano di soffocare la libertà di ricerca e vogliono riportarci al “medioevo”. Allora, per evitare di essere messi con le spalle al muro in attesa della fucilazione, i reazionari assumono una posizione drastica dicendo un no totale alla comunicazione, perché l’informatica è l’origine della loro disfatta, delle loro inibizioni, della loro confusione mentale. Ma è davvero così?

Nolite communicare. Dovremmo dunque chiuderci in noi stessi come, caduto l’impero romano, coloro che volevano continuare a riflettere si chiusero in convento? La mia intenzione nel fondare l’Associazione per il diritto a non comunicare non era questa. Anzi, era di salvare ciò che Eraclito chiama “il comune”. Di permettere una conversazione tra persone non disturbate da messaggi elettronici. Se questo verrà chiamato “nuovo medioevo” poco male. Il medioevo non fu una barbarie: fu la difesa dei romani e dei greci, nonché degli stessi “barbari” – cioè di coloro che parlavano lingue incomprensibili –, dal chaos dell’incomprensione. Se per questo sarà necessario erigere conventi, magari fortificati, ne sopporteremo il costo. I conventi medievali erano mentalmente aperti anche quando le porte erano chiuse. Una monaca come Rosavita poteva scrivere e far rappresentare commedie sul modello di Terenzio; e un abate e una badessa potevano amministrare mezzi di produzione economica molto più in attivo della Telecom.

È vero che anche il convento può divenire una tentazione. Elemire Zolla e la sua compagna si beavano quando scoprivano suore di clausura che si rendevano conto della condizione politica del momento meglio di Fanfani e di Andreotti. E Ugo Spirito, secondo cui la pace sarebbe portata dalla scienza, aveva della scienza un’idea piuttosto misticheggiante.

Dalle tentazioni pseudo mistiche conviene dunque guardarsi, perché appunto in esse potrebbe indurci la situazione col suo falso comunicare. Ma se il con di “comunicare” è tenuto distinto dal tra del trasmettere parole a valanga, la tentazione sarà superata. Il sapere della scienza tornerà ad essere un sàpere, un essere sapido, e non solo un mezzo per trasmettere il nulla. I contenuti cesseranno di essere ripetitivi sotto una falsa apparenza di novità. “Il comune” dell’antico Eraclito non si confonderà più con “La Comune” parigina del 1870 o col comunismo, violento sotto ogni latitudine. Eppure lo stesso Eraclito dice che il contrasto è «il padre di tutte le cose» e che perciò «un’armonia invisibile è meglio dell’armonia visibile» proclamata solo a parole. La parola “sociale” perderà la sua ambiguità, per cui i “centri sociali” sfasciano le carrozze e le assemblee sociali nominano consigli di amministrazione che frodino gli azionisti e il fisco. Per fondare la società non sarà più necessaria, come per Hobbes, l’associazione di singoli che rinuncino alla libertà per conservare la vita: basterà che ciascuno rispetti la libertà di ciascun altro e, soprattutto, il suo “diritto a non comunicare”.

 

 

Vittorio Mathieu, accademico dei Lincei.

(c) Ideazione.com (2006)
Home Page
Rivista | In edicola | Arretrati | Editoriali | Feuileton | La biblioteca di Babele | Ideazione Daily
Emporion | Ultimo numero | Arretrati
Fondazione | Home Page | Osservatorio sul Mezzogiorno | Osservatorio sull'Energia | Convegni | Libri
Network | Italiano | Internazionale
Redazione | Chi siamo | Contatti | Abbonamenti| L'archivio di Ideazione.com 2001-2006