Niente di nuovo sul fronte meridionale
di Massimo Lo Cicero
Ideazione di
marzo-aprile 2007

Nei prossimi mesi attraverseremo un guado difficile. Tra il 2006 ed il 2008 bisogna completare e collaudare i progetti di investimento supportati dai fondi europei di Agenda 2000. Contemporaneamente bisognerà impostare le procedure ed i meccanismi di spesa – ma anche declinare operativamente i contenuti puntuali – per le dieci priorità individuate nel quadro strategico nazionale, che disegna l’impianto del ciclo di programmazione 2007/2009 seminario del governo italiano. Questa delicata convivenza di compiti e di responsabilità riguarderà l’insieme delle relazioni che legano il Dipartimento per le Politiche di Sviluppo (dps) – oggi collocato nel Ministero dello Sviluppo Economico – le amministrazioni centrali dello Stato e le Regioni. Da questo triangolo istituzionale discenderanno le scelte e gli strumenti che dovrebbero indirizzare la spesa dei fondi appostati con la legge finanziaria, appena approvata, e recuperati sia dalla disponibilità delle risorse nazionali che da quella delle risorse europee. Anche se il nostro paese, essendo un creditore netto dell’Unione Europea per quanto riguarda la copertura dei fabbisogni generati dai trasferimenti agli Stati nazionali, utilizza solo in via indiretta risorse che vengono comunque dal risparmio nazionale e dal gettito fiscale da esso alimentato.

Al centro di questo complicato e delicato processo istituzionale si deve collocare un grande obiettivo, sociale e civile prima ancora che economico: il superamento del dualismo tra il Nord ed il Sud del nostro paese. Un superamento che deve essere la conseguenza della rimozione delle cause alla radice del divario, degli ostacoli che impediscono al Sud di crescere. Troppe volte, al contrario, questo traguardo viene confuso con la mera riduzione del divario di crescita che si osserva tra le due macroregioni del nostro paese. Ma il divario è un sintomo, la misura di un problema, di altra natura, legato alla debole produttività delle risorse umane e del sistema economico meridionale nel suo complesso. Accelerare con una spesa che non genera capitale fisso sociale e/o capitale umano il ritmo della espansione congiunturale nel Mezzogiorno rappresenterebbe solo un analgesico temporaneo ma non risolverebbe certo lo squilibrio di fondo che vede il Sud ospitare un terzo della popolazione nazionale, produrre un quarto del prodotto interno lordo, disporre di meno del 10 per cento delle medie imprese italiane di successo ed includere, nella propria popolazione, la metà dei disoccupati italiani.  

Da Caserta un approccio obsoleto
Il problema meridionale, dunque, non è il divario di crescita – il sintomo – ma il superamento del dualismo, lo squilibrio strutturale che separa oggettivamente sia l’economia che la cultura nazionale in due mondi che comunicano tra loro sempre meno e sempre peggio.

Nel seminario promosso dal governo italiano a Caserta nel mese di gennaio, nonostante il tema della riunione fosse stato individuato nella individuazione degli strumenti necessari allo sviluppo economico nazionale, la relazione tra questo sviluppo e la chiusura del dualismo tra Nord e Sud non è stata al centro dell’attenzione. Il Governo ha riproposto, invece, una interpretazione abbastanza datata, per non dire anche obsoleta, degli strumenti e delle strategie per affrontare il problema del riallineamento tra le condizioni economiche del centronord e quelle del Mezzogiorno: un flusso di spesa pubblica straordinaria. In questo modo, però, non si interviene sulle cause del dualismo tra le due macroregioni ma si ripropone, con tutte le contraddizioni che ne derivano, una prospettiva di sviluppo dipendente, finanziato dai trasferimenti pubblici. E si dimentica che la variabile strategica della crescita non è la quantità della spesa pubblica ma anche la qualità ed il contenuto dei progetti che quella spesa finanzia: se è una spesa per investimenti. Se si tratta di spesa corrente, al contrario, è naturale che essa si risolva in una esuberanza della domanda locale che si traduce in importazioni aggiuntive, deteriorando ulteriormente la bilancia dei pagamenti del Mezzogiorno e chiudendo il circolo vizioso della dipendenza. Riconfermano il ceto dirigente della politica locale come asse portante della “classe dirigente” della comunità meridionale. La quantità della spesa conta ma non risolve i problemi. Trasformare la quantità in una qualità capace di generare l’effetto della crescita è difficile. La trasformazione richiede organizzazioni e regole (un binomio che rappresenta il cuore ontologico delle istituzioni, secondo la letteratura anglosassone) capaci di conseguire i traguardi che danno corpo e realtà agli annunci della politica economica.

Nel ciclo precedente di interventi finanziati dalla Unione Europea – Agenda 2000 – la condivisione tra governo e regioni di regole ed organizzazioni ha prodotto alcuni effetti positivi ma anche un eccesso di localismo, parcellizzando l’impiego dei fondi ed ottenendo effimera effervescenza del tono economico e scarsa creazione di capitale fisso sociale e capitale umano. Abbiamo già detto che la quantità di spesa pubblica, e la velocità con cui quella quantità viene erogata, non devono essere considerate una base affidabile per una politica economica. Il fatto è che anche la quantità, nel nostro caso, non rappresenta una particolare innovazione. Nonostante non sia ancora possibile individuare con puntualità quale dovrebbe essere il flusso di spesa del nuovo ciclo delle politiche di coesione, il flusso annuale non dovrebbe superare il 2 per cento del prodotto interno lordo italiano. I numeri si leggono nelle tabelle della legge finanziaria e nel discorso di Romano Prodi a Caserta. Utilizziamo questa dimensione come parametro comparativo perché Claudio Signorile – ministro del Mezzogiorno negli anni Ottanta – impegnò il 2 per cento annuo del pil sull’intervento straordinario. Il 2 per cento, oggi, significherebbe 25 miliardi di euro, a prezzi del 2007. 

Gli strumenti incerti: regole e organizzazioni
Romano Prodi si adegua agli standard di allora, grazie anche ad un supporto europeo, che non era in quegli anni disponibile, ma che, anche oggi, risulta essere in parte sostenuto da finanza domestica, essendo il nostro paese un creditore netto dell’Unione nella struttura finanziaria che lega bilanci nazionali e bilanci europei. In questo modo, tuttavia, rimane assolutamente aperto il problema di regole ed organizzazioni capaci di trasformare queste somme in investimenti e non in una pioggia variegata di spesa.

Che il governo annunci il quantum, e le regioni si dividano la torta – diventando gli sponsor esclusivi dei progetti cui destinare la spesa annunciata – conferma, invece, la confusione tra ceto politico locale e classi dirigenti ed aiuta poco lo sviluppo della competizione sul mercato. Esaltando, al contrario, la competizione nella cattura dei fondi pubblici disponibili da parte delle rappresentanze organizzate degli interessi sociali.

Il dibattito politico generale, ma anche le opzioni avanzate da entrambi gli schieramenti, sulle misure capaci di dare corpo a nuove regole ed ad una profonda riforma della organizzazione, centrale e periferica, della pubblica amministrazione non offrono soluzioni compiute e condivisibili.

Destra e sinistra, ma anche imprese e sindacati, ritengono che il problema del Mezzogiorno – il dualismo tra il Sud ed il Nord del paese – non sia stato ancora risolto e che verso questo traguardo – superare il dualismo – debba indirizzarsi un grande e coeso sforzo collettivo. Anche perché, rimettendo in moto il Mezzogiorno si offre una leva alla crescita di tutto il paese. Le scelte e gli atti amministrativi del governo vanno in altre direzioni. Nel corso del 2006, il Dipartimento per le Politiche di Sviluppo, trasferito dal ministero di Padoa Schioppa a quello di Bersani dal governo Prodi, ha completato la stesura del Quadro Strategico Nazionale (qsn): 202 cartelle che rappresentano il master plan per disciplinare l’utilizzazione dei fondi europei dal 2007 al 2013. Ma, negli anni alle nostre spalle, le regioni hanno aspramente rivendicato il proprio ruolo nel processo di programmazione economica, chiedendo autonomia progettuale ed affermando di avere piena consapevolezza dei bisogni da soddisfare. Non sembra, tuttavia, che i loro programmi, ancora in corso di stesura, con largo e tardivo ricorso a forme di outsourcing verso risorse esterne alle burocrazie regionali, presenteranno novità radicali od ipotesi particolarmente innovative. Il governo, da parte sua, non ha ancora avviato il riordino di Sviluppo Italia ma ha modificato l’intera organizzazione istituzionale che presiedeva alla gestione della politica per il Sud. Insomma, tutti dicono che il Mezzogiorno è un problema aperto ma si fa una certa fatica a vedere quale debba essere la soluzione e quali gli strumenti – regole ed organizzazioni – per mettere insieme il problema e la sua soluzione. Nella prima parte del qsn si trova una diagnosi molto sensata sulle grandi trasformazioni intervenute nel corso degli sviluppi di Agenda 2000 (2000/2006): la intensificazione dell’integrazione economica internazionale, che spinge la crescita di tutto il mondo e l’apparizione di nuovi protagonisti nel mercato mondiale; la relazione, più intensa e reciproca, tra scienza e tecnologia, tra ricerca e produzione, che tonifica e qualifica quella crescita; la espansione demografica, che si colloca a valle del benessere generato dalla ripresa della crescita; la liberalizzazione, e la crescente competizione che ne può derivare, dei mercati del lavoro, delle merci e dei capitali.

L’insieme di queste quattro tendenze, parallele tra loro, spiega, in larga misura, il nuovo ritmo assunto dallo sviluppo mondiale.

In questo contesto potrebbe anche essere verosimile che un piano di investimenti, dedicati alla creazione di capitale fisso sociale ed alla formazione di nuovo capitale umano nelle regioni meridionali, potrebbe offrire alle imprese, italiane ed internazionali – forti di un sostegno che non replica l’assistenzialismo della spesa a pioggia sopravvissuta, in parte, anche nei decenni alle nostre spalle – la opportunità di accettare e vincere la sfida dell’integrazione, del Mezzogiorno e dell’Italia, nel grande fiume della globalizzazione.

Il “triangolo virtuoso” di una politica che abbia simili ambizioni presenta tre estremi. Tutti endogeni alla macchina pubblica controllata dal governo: il dps, Sviluppo Italia e le Regioni. Dire che, ad oggi, non esistano ancora armonia e coordinamento tra i tre vertici del triangolo è un cortese eufemismo. In compenso, dentro la sfera complessa della pubblica amministrazione, molti pensano ad un sistema di scatole ad incastro che replichi, regione per regione, le priorità indicate dal qsn secondo la sequenza della “programmazione”: un processo di “dirigismo negoziato” – tra le parti sociali ed il ceto politico locale – che ha ampiamente compromesso gli effetti di lungo periodo, cioè la formazione di capitale fisso e beni relazionali, durante la stagione di Agenda 2000. Mancano strumenti per raccogliere progetti espressi dagli attori privati prima di indicare, ex ante, gli ambiti di spesa per i fondi europei.

Manca un censimento dei bisogni effettivi della popolazione. Manca un sistema di valutazione della capacità dei progetti di esprimere valore e benessere e manca un sistema collaudato di controlli ex post su come saranno impiegati i fondi pubblici. È ridondante, invece, l’apparato di controlli ex ante, condotti dalla burocrazia od affidati in outsourcing dalle regioni. Non esistono, ancora, in una parola, competizione e merito nell’allocazione dei fondi e nella ricerca degli strumenti organizzativi per governare il processo di allocazione. Il futuro delle politiche per lo sviluppo del Mezzogiorno ristagna nel consenso generale ma oscilla, sospeso, tra la Biblioteca di Babele e l’Araba Fenice.

La politica per il Sud nel passaggio al Ventunesimo secolo
Con l’insediamento del governo di Romano Prodi la politica per il Mezzogiorno ha registrato una marcata discontinuità.

Al contrario – e questo era stato un evento singolare per la stessa tradizione italiana – tra il primo governo Prodi, il governo D’Alema e quello Berlusconi era stata mantenuto nel tempo sia l’impianto dei contenuti e delle metodologie che il disegno dell’architettura istituzionale alla quale era affidata la politica per le aree deboli del paese.

In altre parole, il medesimo impianto organizzativo ed il medesimo approccio strategico hanno dominato la scena per tutta la durata del ciclo settennale di Agenda 2000, riproponendo un assetto che era stato immaginato durante il governo Ciampi e mantenuto fino al completamento del ciclo delle politiche europee (1993/1999) che aveva preceduto la stessa Agenda 2000. Un lungo ciclo unitario si realizza dalle “Cento idee per il Mezzogiorno” – debutto della nuova stagione, voluto da Ciampi a Catania, alla fine degli anni Novanta – e la redazione dei documenti strategici per il ciclo 2007/2013 delle politiche di coesione e crescita – finanziate dai fondi europei – elaborati dal Dipartimento per le Politiche di Sviluppo (dps) e dalle regioni, poco prima della tornata elettorale. L’impianto organizzativo di questa lunga stagione era domiciliato nel ministero dell’Economia, nella configurazione disegnata da Bassanini ed interpretata da Ciampi e Tremonti con una certa efficacia. Il dps era la centrale di coordinamento tra fondi europei e fondi nazionali; la dote finanziaria era concentrata in quella sede ed amministrata dal cipe, presieduto dal ministro in carica o da un suo sottosegretario.

La ricetta ed i contenuti operativi erano chiari ed evidenti: formare capitale umano e realizzare capitale fisso sociale nel Mezzogiorno, sulla base di una larga condivisione, alla scala dei territori locali, dei contenuti operativi per queste due scelte; utilizzare fondi nazionali e fondi europei nella realizzazione dei singoli progetti; condividere, tra governo e regioni, l’impianto delle reti larghe di infrastrutture ed implementare le strategie regionali, con periodici accordi di programma tra il governo e le stesse regioni. Questa politica veniva monitorata dal dps mentre i risultati del monitoraggio venivano esposti annualmente all’attenzione del Parlamento. Tutto questo, tuttavia, ha permesso al Mezzogiorno di crescere solo poco più della media italiana negli anni Novanta. Anche per l’effetto della turbolenza del decennio in corso, e di un qualche eccesso di “localismo” nella interpretazione puntuale di questa politica, lo sviluppo del Mezzogiorno appare “frenato” agli inizi del Ventunesimo secolo.

La dote infrastrutturale non si adegua al ritmo necessario per ottenere effetti significativi; la riforma degli incentivi finanziari accusa lentezze; si afferma, in opposizione alla politica degli incentivi, una chiara preferenza per una fiscalità di vantaggio, considerata più veloce e meno discrezionale. Si osservano storie di eccellenza, come una generazione – limitata solo ad una decina di esemplari – di “patti territoriali” finanziati direttamente dai fondi europei. Ai loro promotori viene imposto l’obbligo di creare una propria stazione appaltante per l’erogazione dei fondi ricevuti: guadagnandone in efficacia, tempestività e rendicontabilità delle performance. Meno fortuna hanno avuto i pit, cioè i programmi integrati territoriali, che – finanziati da Agenda 2000 ma privi di strutture di spesa proprie – hanno ceduto, con mediocri risultati, l’onere e l’impegno di realizzare i progetti, selezionati ai tavoli di concertazione tra forze sociali, alle burocrazie regionali. Di fronte a questi segnali di mancato successo, ed in presenza di una robusta critica, anche da parte degli ambienti di centrosinistra nel corso dell’ultima campagna elettorale, conseguita la vittoria ed insediato il nuovo Governo, vengono introdotti robusti cambiamenti sul disegno, ereditato da Berlusconi, che veniva direttamente dalle intuizioni di Ciampi ed era sostanzialmente rimasto stabile per una decina di anni. Il dps viene trasferito ad un ministero di spesa – le Attività Produttive – denominato ora Ministero dello Sviluppo Economico, evocando l’eredità del Bilancio nell’epoca di Giolitti. D’altra parte il “nocciolo duro” del dps era proprio la struttura operativa del Ministero del Bilancio, accorpato da Bassanini con il Tesoro e le Finanze, per dare vita al Ministero dell’Economia.

Il coordinamento del cipe viene spostato, invece, alla presidenza del Consiglio: indebolendo ulteriormente il meccanismo creato da Ciampi. Ed accentuando un profilo del Ministero dell’Economia che si concentra sui temi della fiscalità e del debito pubblico. Mentre, sia Ciampi che Tremonti ne avevano interpretato il mandato con una vasta attenzione alla regia della politica economica nel suo insieme, dilatandone la proiezione operativa fino alle privatizzazioni ed alla riforma della legislazione sul risparmio. Infine, ma non è certo la meno rilevante di tali novità organizzative, non emerge una sede di coordinamento tra le politiche di promozione affidata a Sviluppo Italia e quella, realizzata da molte società pubbliche, dedicata alla creazione, alla gestione o al controllo delle reti infrastrutturali su tutto il territorio nazionale.

Una simile profonda discontinuità nelle regole e nelle organizzazioni che dovrebbero gestire la politica per il Mezzogiorno non poteva restare senza conseguenze. Il processo amministrativo, che dovrebbe tradurre nei suoi effetti concreti l’impianto complessivo di una politica, risulta almeno rallentato da queste circostanze e dai tempi necessari al ritrovamento di un equilibrio fisiologico tra le nuove e diverse dislocazioni organizzative delle singole competenze. Non è ancora chiaro chi debba decidere e quali decisioni siano state assunte – a questo punto – in ordine al modo in cui sbloccare lo “sviluppo frenato”, scegliere tra fiscalità ed incentivi, tarare meglio le azioni di sviluppo locale, tenendo conto dei casi di successo e di quelli deludenti. In sostanza non è ancora chiaro come si articolerà in futuro la politica per il Mezzogiorno e quali saranno i suoi contenuti. Complice, ovviamente, anche la discussione parlamentare sulla legge finanziaria per il 2007, che ha catalizzato ed assorbito sia il confronto che lo scontro tra i due schieramenti parlamentari. A questo vuoto programmatico si oppone, per ora, una ipotesi avanzata dalle regioni meridionali che si propongono, in termini reciprocamente cooperativi, come un insieme di istituzioni capaci di ridare unitarietà alla realizzazione delle politiche per il Sud ed hanno raccolto, su questa ipotesi di lavoro, un largo consenso sia delle organizzazioni sindacali che delle rappresentanze sindacali delle imprese italiane.

Un confronto logico tra i due modelli
La migliore tradizione storica del meridionalismo si fonda su una percezione comune del problema e su una divisione di campo sul terreno degli strumenti istituzionali da utilizzare. Il problema del mancato sviluppo meridionale è stato percepito sempre come una grande questione nazionale, un vero e proprio vizio, che deriva dallo scarto tra le modalità dell’unificazione politica e quelle, parallele, della unificazione economica. Un vizio che mina alle radici la velocità e l’intensità della crescita in Italia.

La misura del divario tra le “due Italie”, per quella tradizione, è solo una stima della temperatura del problema, un sintomo e non un obiettivo da perseguire, “chiudendo” quella divaricazione tra i due tassi di crescita.

Se si recuperasse la sincronia tra processo politico e processo economico, affermano meridionalisti vecchi e nuovi, solo allora si chiuderebbe il divario, di reddito e di produttività, ma anche di civilizzazione, tra le due aree del paese. Saraceno e Morandi, seguendo l’approccio di Beneduce, credevano di dover agire con una politica speciale dello Stato, affidandone il mandato operativo ad un ente pubblico esterno al sistema delle rappresentanze elettive del potere politico: un’agenzia, per dirla con i termini della cultura anglosassone. La Cassa per il Mezzogiorno nella sua denominazione storica. L’ipotesi dei comunisti italiani, invece, si fondava sulla convinzione che quella politica, speciale e nazionale, avrebbe dovuto essere affidata alle articolazioni istituzionali della democrazia italiana e, dopo la nascita delle Regioni, questa opzione trovava un domicilio possibile ancora più evidente. Il disegno, voluto da Ciampi alla fine degli anni Novanta, realizzava proprio quella opzione: coniugando la visione originaria di Nitti con il collegamento tra Europa e Regioni, realizzato attraverso le strutture del dps che, a sua volta, era collocato nel centro strategico nazionale della politica economica: il nuovo Ministero dell’Economia. Questo è l’impianto che il governo Prodi ha ribaltato radicalmente.

Si osservi che, tra i cambiamenti marginali realizzati tra il primo ed il secondo governo Berlusconi, il viceministro dell’Economia venne nominato ministro delle Politiche di Sviluppo. La medesima persona ricoprì i due incarichi, che si riassumono entrambi nella funzione di collegamento tra il ministero e la direzione operativa del dps. L’efficacia di quel collegamento si attenuò notevolmente con la promozione della medesima persona, mandataria dell’incarico, al ruolo di ministro senza portafoglio. L’esperienza ci dice, insomma, che la centralità del dps rispetto alla centralità del Ministero dell’Economia, e la intensità di questo collegamento, rappresentano un indubbio fattore di efficacia per il funzionamento della politica destinata alle aree deboli del paese.

Un’appendice di questa architettura era rappresentata, infine e notoriamente, dalla esistenza di Sviluppo Italia: l’organizzazione che ha finito per raccogliere funzioni e compiti appartenuti alla Cassa del Mezzogiorno, voluta da Rodolfo Morandi e Pasquale Saraceno, ed, in parte, ad alcuni suoi satelliti operativi.

Come si potrebbe rappresentare la nuova architettura istituzionale che emerge dalle scelte del Governo Prodi? Si è creata, in primo luogo, una distanza interna alle funzioni di governo. Il cipe riporta al premier. La gestione dei fondi strutturali afferisce al Ministero dell’Economia e, forse ed in parte, al Commercio Estero ed alle Politiche Comunitarie. Il dps è collocato nel Ministero dello Sviluppo, insieme con le politiche di agevolazione finanziaria per le imprese industriali. Il medesimo Ministero dello Sviluppo dovrebbe, affiancandosi a quello dell’Economia, occuparsi di Sviluppo Italia, che invece dovrebbe concentrarsi in modo esclusivo sulle politiche di attrazione per gli investimenti esteri in Italia. Le regioni meridionali, si è già detto, si propongono come promotrici di un loro autonomo coordinamento ma questa segmentazione – utile perché le regioni meridionali sono troppe e ciascuna di loro è troppo piccola rispetto alle dimensioni necessariamente unitarie del Mezzogiorno – si aggiunge alla contrapposizione, poco comprensibile, tra le ragioni del governo e quelle delle regioni italiane nel loro complesso. L’ultimo dei troppi paradossi del nostro “federalismo”.

Il quadro politico di contorno
La Commissione Europea ci chiede di raccordare il bilancio delle politiche di coesione, realizzate tra il 2000 ed il 2006, con gli obiettivi e gli strumenti da impiegare nel prossimo ciclo: quello che andrà dal 2007 al 2013 e che, dal 2011, dovrà scontare il sorpasso dei paesi deboli dell’Est rispetto alle regioni deboli dei paesi dell’ovest. Il nuovo governo deve rispondere a questi interrogativi tenendo conto sia delle trasformazioni, che ha indotto nell’architettura degli strumenti di cui dispone, che di un radicale ribaltamento nelle condizioni di contesto in cui quelle politiche dovranno essere realizzate. Una regola del contrappasso sembra aver dominato la dinamica degli eventi alla scala europea. L’allargamento ha reso più profonde le disuguaglianze tra le venticinque economie incluse nel mercato unico ed ha creato una tripartizione radicale: i paesi che adottano l’euro; i paesi che non aderiscono alla moneta unica ma si impegnano ad ancorare la propria valuta alla quotazione dell’euro; i paesi che entrano nel club commerciale del libero scambio ma non condividono il vincolo della moneta unica. Gli obiettivi ambiziosi di Lisbona e Goteborg – fare dell’Europa l’economia più competitiva del mondo, grazie alla valorizzazione della conoscenza e del capitale umano e sotto il vincolo della tutela del patrimonio ambientale esistente – non hanno prodotto alcun risultato. Ritrovare la strada della crescita, ridurre le disuguaglianze ed innestare gli effetti virtuosi della information and communication technology nella flaccida economia europea dovrebbero essere i traguardi da conseguire tra il 2007 ed il 2013.

Il Sud presenta problemi dovuti ad uno scarto nei livelli di civilizzazione: dalla sicurezza alla dotazione di beni pubblici. La “Padania” è la più grande regione europea omogeneamente ricca. Ma l’industria italiana è incapace di crescere e richiede un radicale processo di riconversione. Il paradosso italiano è evidente. L’Italia sconta al suo interno l’esistenza di un marcato dualismo economico e sociale: il più profondo in Europa. Ma la stessa Italia, pur essendo divisa drammaticamente, rappresenta una economia incapace di crescere, schiacciata nel segmento più stagnante del mercato europeo. L’Italia e’ un problema per l’Europa perché ne rallenta la crescita essendo essa incapace di crescere. Ed il Mezzogiorno deve essere riportato ad una dimensione competitiva, sul mercato europeo e su quello internazionale, proprio come è necessario fare per l’Italia intera.

Purtroppo il nostro paese trasforma ogni politica in un gioco a somma zero: tra chi perde e chi si attribuisce una parte delle risorse disponibili. Ne fa fede il confronto parlamentare sulla legge finanziaria. Proprio come avviene da sempre nel Mezzogiorno che, da troppo tempo, è abituato a vivere di trasferimenti e non di produzione endogena di ricchezza. La ripartizione di queste risorse esogene è stata l’oggetto prevalente della politica meridionale. La capacità, invece, di trasformare l’ultimo ciclo delle politiche di coesione in investimenti, capaci di rimettere in moto la società meridionale sarebbe un grande contributo all’intera economia nazionale, invertendo la pericolosa tendenza al declino che ci accompagna da oltre dieci anni.




Massimo Lo Cicero, docente di Economia della comunicazione e Economia dell’informazione e della conoscenza all’Università Tor Vergata di Roma.

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