Chavez, come si costruisce una dittatura
di Alberto Indelicato
Ideazione di
marzo-aprile 2007

La carriera di rivoluzionario di Vladimir Iliic Ulianov detto Lenin sarebbe potuta essere considerata conclusa – e ingloriosamente conclusa – il 17 luglio 1917. Quel giorno, con il cranio già calvo coperto da una buffa parrucca, con il volto trasformato da un maquillage non si sa quanto veramente efficace, con documenti d’identità falsi, egli era scappato precipitosamente da Pietrogrado e si era nascosto in Finlandia per sottrarsi all’imminente arresto. Il tentativo di prendere il potere mettendo la sua piccola frazione politica a capo di un’insurrezione contro il governo del socialista moderato Alexandr Kerenski era, infatti, miseramente fallito. Altri dirigenti bolscevici: Anatoli Lunaciarski, Lev Trotski, Alexandra Kollontai conobbero in quell’occasione, sia pure per qualche giorno, le prigioni del governo provvisorio, ben più sopportabili peraltro di quelle in cui il loro regime avrebbe rinchiuso i suoi avversari nei decenni successivi.

Kerenski si sarebbe ben presto accorto a sue spese, ed a spese della libertà dei popoli del crollato impero russo, di essere stato molto imprudente nel perdonare il tentativo eversivo bolscevico. Tre mesi dopo, infatti, Lenin, dopo essere riuscito ad accreditare il suo partito come il salvatore della democrazia russa contro la pretesa minaccia di una dittatura militare del generale Lavr G. Kornilov, instaurava con un colpo di Stato un regime totalitario che sarebbe durato tre quarti di secolo.

Qualcosa di simile sarebbe avvenuto nel novembre del 1923 in Germania, dove un colpo di Stato fu tentato da un altro demagogo, nazionalista questa volta, nella città di Monaco di Baviera. Si chiamava Adolf Hitler. Costui dopo il clamoroso insuccesso, non fuggì, fu arrestato e condannato a cinque anni di fortezza. Ne scontò meno di uno in una comoda prigione anch’essa ben più ospitale di quelle del suo regime e dei suoi Lager. Dovette attendere ben più di tre mesi dopo il primo tentativo, ma anch’egli, dieci anni più tardi, perdonato e riabilitato dal debole regime che aveva già tentato di abbattere, riuscì ad instaurare la sua dittatura personale. Non si pose come il salvatore della democrazia, ma di essa sfruttò gli strumenti e le debolezze per distruggerla nel giro di poche settimane.

I regimi liberi non hanno mai risolto il problema di come devono comportarsi nei confronti dei loro nemici. Sino a che punto essi, che della tolleranza fanno uno dei loro principi cardine, devono tollerare coloro che di essa approfittano ripromettendosi, e addirittura proclamando a gran voce, di volerla sopprimere per sbarazzarsi degli avversari. Certo le democrazie qualche volta danno prova di un sussulto di energia e magari condannano coloro che le minacciano, ma dimenticano presto e perdonano sempre, prestando fede alle assicurazioni di rinsavimento.

In certo modo la traiettoria di Hugo Chávez Frías non è stata sino ad ora diversa da quella di Hitler. In seno alle forze armate, a cui era orgoglioso di appartenere dopo aver frequentato l’accademia militare, aveva creato un movimento segreto, che entrò in azione nel febbraio 1992 per tentare di rovesciare il governo legittimo del presidente Carlos Andrès Pérez e instaurare la sua dittatura manu militari. I rivoltosi potevano contare sulle tre maggiori guarnigioni del paese e specialmente sul corpo dei paracadutisti e su quello dei carristi, a cui era stata data la missione di occupare il palazzo presidenziale. Quella tentata rivolta, che fece una dozzina di morti e diverse decine o addirittura centinaia di feriti, malgrado un parziale successo in una provincia, fu però repressa dalle forze leali e l’allora tenente colonnello Chávez, che avrebbe dovuto conquistare la capitale, fu arrestato nelle more di un processo. Due anni dopo, prima che arrivasse la condanna, un’amnistia decretata dal nuovo presidente della repubblica Rafael Caldera Rodríguez lo rimise in libertà. Ormai per i suoi progetti eversivi il fallito golpista non avrebbe più potuto contare sull’esercito, da cui era stato espulso, per cui si dedicò ad organizzare una formazione che gli permettesse di prendere legalmente quel potere che non aveva potuto conquistare con le armi. Alla sua forza politica egli diede lo stesso nome della disciolta associazione militare segreta: Movimiento Bolivariano Rivoluzionario. Questa denominazione fu proibita dalle autorità non già per l’aggettivo “rivoluzionario”, ma per il riferimento al padre della patria Simón Bolívar che, appartenendo a tutti i venezuelani, non poteva per legge designare un determinato partito politico. Chávez per il momento non poté che rassegnarsi a tale decisione, che lo privava di un riferimento patriottico essenziale. Bolívar, eroe dell’indipendenza dalla Spagna, rappresenta per i venezuelani non soltanto l’uomo-simbolo dell’indipendenza, ma anche il sogno ambizioso dell’unità del continente, o almeno della sua parte centro-settentrionale.

Adottata la nuova denominazione di Movimiento de la Quinta República, il partito di Chávez si definì “socialista, nazionalista, umanista”. Senza voler approfondire quanto vi sia (o non vi sia) di bolivariano in un socialismo che ai tempi del Libertador era ancora in fasce, notiamo che il riferimento in quel momento era necessario a Chávez al fine di costituire un’alleanza con altre formazioni ritenute affini, quali il Movimiento al Socialismo, il Movimiento Electoral del Pueblo ed il Partido Comunista de Venezuela. Tuttavia Chávez, non senza contraddizioni, si affrettò in un primo periodo a chiarire che il suo socialismo si sarebbe ispirato piuttosto al laburismo britannico e, anche per rassicurare i mercati internazionali, affermò che la coalizione avrebbe perseguito «una politica da Terza Via alla Tony Blair» (l’esponente laburista britannico era stato nominato premier nel 1997). Quanto a lui, se fosse stato eletto presidente, avrebbe addirittura effettuato delle privatizzazioni. La coalizione di cui faceva parte il suo movimento vinse le elezioni legislative del 1998 ottenendo il 34 per cento dei voti di fronte ai due partiti concorrenti: la coalizione di centro-sinistra Azione Democratica ed i cristiano-sociali, che ebbero rispettivamente il 22 per cento e l’11 per cento. L’anno successivo l’ex golpista fu eletto presidente della repubblica con una solida maggioranza del 56,5 per cento dei voti. Come Hitler anche Chávez era andato al potere con un imponente appoggio popolare.

La similitudine con Lenin, Mussolini e Hitler non si ferma qui. I tre predecessori, una volta impadronitisi delle leve dello Stato, si erano sbarazzati nel giro di qualche settimana o di pochi mesi dei partiti alleati. Anche Chávez ha liquidato rapidamente le formazioni che l’avevano sostenuto, per appoggiarsi sul solo Movimiento Quinta República composto da suoi fedelissimi. Tuttavia tre anni dopo la sua posizione non doveva essere del tutto solida se una composita coalizione di scontenti – formata da appartenenti a strati popolari (specialmente dipendenti delle società petrolifere), a una parte della borghesia media ed alta e a gruppi di intellettuali, preoccupati per il corso illiberale che stavano prendendo gli avvenimenti – tentò un improvvisato golpe con l’indubbio incoraggiamento degli Stati Uniti. Il 12 di aprile 2002 sembrò che Chávez per la seconda volta dovesse rinunciare alle sue ambizioni. Pare che per qualche ora egli sia stato praticamente prigioniero dei golpisti e avesse addirittura temuto per la sua vita. Il colpo di Stato era stato però male organizzato (come quello che egli aveva tentato dieci anni prima), anche a causa delle discordie dei suoi iniziatori e delle loro differenti intenzioni. Egli, a quanto si è detto, avrebbe accettato di lasciare, con il potere, anche il Venezuela. Lo salvarono anzitutto le esitazioni nel campo dei suoi avversari. Qui il precedente è forse l’Aventino antimussoliniano del 1924. Due giorni dopo il tentato colpo di Stato, Chávez era tornato in sella, ben deciso a non permettere mai più una rivincita dei suoi oppositori. Costoro – bisogna aggiungere – non si astennero dal commettere altri gravi errori, come l’infelice conduzione del referendum “revocatorio” del 2004, la cui convocazione era stata ottenuta in base ad un articolo della Costituzione voluta dallo stesso Chávez. E, mentre essi continuavano a dissentire tra loro sull’eventuale dopo-Chávez, il presidente utilizzava gli ingenti mezzi finanziari e una burocrazia statale già epurata ed allineata, nonché una struttura organizzativa che aveva avuto il tempo di consolidarsi. In queste condizioni la partita degli oppositori era perduta in partenza. D’altro canto il presidente contestato aveva avuto buon gioco nella sua propaganda a puntare sulla carta patriottica, in pratica antistatunitense, presentando il referendum come una scelta tra i sostenitori dell’indipendenza e della sovranità nazionale ed i “venduti” al grande vicino del nord.

Perón e Chávez
Era la stessa carta che nel 1946 aveva in Argentina portato alla vittoria Juan Domingo Perón contro una coalizione numerosa e composita di partiti, a sostegno della quale si era pubblicamente ed imprudentemente schierato l’ambasciatore degli Stati Uniti Spruille Braden. Lo slogan “O Braden o Perón” assicurò al secondo – anch’egli un militare – un’elezione trionfale. Negli anni seguenti Perón lanciò la sua politica di “terza via” nella politica estera, procedette a nazionalizzazioni, attaccò la Chiesa e s’inimicò anche le forze armate, che alla fine lo avrebbero destituito e costretto ad un lunghissimo esilio. È probabile che Chávez abbia tenuto presente la lezione nazionalista di Perón. In un certo senso tuttavia la sua posizione era ed è più favorevole. Nel 1945, infatti, si era appena usciti dalla seconda guerra mondiale e Perón poté essere accusato, a torto o a ragione, di “fascismo” dagli avversari e dagli stessi statunitensi. Nulla del genere è stato detto del suo tardo emulo venezuelano. Ma oltre alla demagogia populista c’è un elemento ben più concreto che accomuna Chávez e Perón: la grande disponibilità di mezzi, con una decisiva differenza a favore di Chávez. Quelli di Perón derivavano dalle riserve finanziarie accumulate con il commercio di cereali ed altri prodotti agricoli, nonché della carne, prodotti che il paese aveva venduto durante il conflitto ai paesi belligeranti. Quei mezzi erano destinati ad esaurirsi ed effettivamente si esaurirono nel giro di pochi anni a causa sia delle misure “sociali” di Evita in favore dei descamisados sia degli sperperi della classe dirigente. I mezzi di cui può disporre Chávez sono enormemente maggiori e, quel che importa, destinati a durare nel lungo periodo: il Venezuela è, infatti, il quinto produttore mondiale di petrolio, il cui prezzo è salito dal momento dell’elezione di Chávez da 8 a 60 dollari al barile. Negli ultimi sei anni gli introiti provenienti dall’esportazione di petrolio sono ammontati a 120mila milioni di dollari degli Stati Uniti.

Come Perón anche Chávez ha destinato una parte della ricchezza del paese a misure sociali, dette “missioni bolivariane”, quali una campagna di alfabetizzazione e di assistenza sanitaria per le classi meno favorite. Per quest’ultimo programma il governo ha utilizzato medici inviati da Cuba che, oltre al loro lavoro, svolgono un’intensa opera di proselitismo marxista-castrista. Tuttavia i risultati della politica governativa sono quanto meno discutibili in termini di disoccupazione (stabile intorno al 15 per cento) e di livello di povertà: le famiglie considerate povere nel 2004 rappresentano il 60 per cento del totale contro il 42,4 per cento del 1999. Il debito pubblico, che era di 2,3 miliardi di bolivares nel 1998, si è moltiplicato per dieci (23,3 miliardi) nel 2003. In effetti buona parte della ricchezza prodotta dalle risorse del paese viene investita in un particolare genere di iniziative: alcune destinate all’immagine dello stesso presidente presso la popolazione venezuelana e negli altri paesi del Continente, altre a propagandare l’ideologia “bolivariana” al fine di ottenere il sostegno dei governi da convertire o già amici, a cominciare ovviamente da quello cubano, cui sono destinati 2,3 miliardi di dollari al giorno. Sovvenzioni sono date anche all’Ecuador di Rafael Correa, al Nicaragua di Daniel Ortega ed alla Bolivia di Evo Morales, tutti paesi che Chávez intende reclutare per la sua battaglia propagandistica contro gli Stati Uniti. L’impresa si è rivelata impossibile con altri governi del continente, specie con la Colombia, dove il Venezuela dà un appoggio non molto surrettizio – armi e santuari nel suo territorio – ai guerriglieri marxisti delle farc (Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia). Com’è noto, il furore propagandistico di Chávez non si limita all’America Latina, ma si estende sul piano diplomatico. Egli cerca di stabilire rapporti di grande cordialità con qualunque paese, dall’Iran alla Bielorussia, che possa essere reclutato nella lotta contro il liberalismo, il capitalismo, la globalizzazione, in pratica contro gli Stati Uniti.

Totalitarismo dolce
Che cosa sia il bolivarismo nell’accezione che gli ha dato Chávez non è stato ben chiaro sino a quando egli non ha svelato che sarebbe stato il “socialismo del Ventunesimo secolo”. Questo – lo abbiamo ricordato – non ha nulla a che fare con il Padre della Patria ed i suoi ideali e non sembra differire molto da quel socialismo del Ventesimo secolo, che è già miseramente e a volte tragicamente fallito alla prova della realtà. Quale sia in concreto il contenuto del suo progetto è stato rivelato da Chávez in occasione del suo ultimo insediamento alla presidenza dopo le ultime elezioni del dicembre 2006. Dal punto di vista economico egli ha annunciato la decisione di procedere alla nazionalizzazione delle più importanti compagnie di elettricità e di telecomunicazioni (la cntv, Compañia Nacional de Telecomunicaciones de Venezuela) attualmente controllate dalle ditte statunitensi aes e Verizon, a cui sono stati promessi degli indennizzi, che però non saranno negoziati né fissati secondo valutazioni indipendenti, ma stabiliti dallo stesso governo: i proprietari dovranno accettare le condizioni offerte o cedere le imprese senza ricevere nessun indennizzo. Le nazionalizzazioni non si fermeranno qui: altri complessi industriali e commerciali e, in particolare, le società petrolifere straniere saranno “restituiti al popolo”, vale a dire al governo. L’autonomia del Banco Centrale sarà soppressa.

Nello stesso tempo il Movimento della Quinta Repubblica costituirà il nucleo fondamentale di un partito unico: il Partido Socialista Unificado, nel quale confluiranno altri 23 gruppi politici fedeli al presidente. Il compito del psu sarà di sostenere l’opera di Chávez, del suo governo e del suo parlamento. Infatti dal punto di vista istituzionale i tre organi – presidenza, governo e parlamento – fanno ormai tutt’uno. In seno all’Assemblea Nazionale (la Camera dei deputati) non c’è più un’opposizione, perché nessuno degli altri partiti ha voluto partecipare alle ultime elezioni, dopo aver denunciato le manipolazioni governative del Registro Elettorale, reso in tal modo totalmente inaffidabile. Immediatamente il parlamento ha concesso i pieni poteri al presidente, che potrà legiferare con decreti per diciotto mesi. Chávez ha inoltre manifestato l’intenzione di modificare opportunamente la Costituzione e di restare al potere almeno sino al 2020, ben al di là dunque del termine del 2013, scadenza del suo ultimo mandato. Neanche il Tribunale Supremo di Giustizia (la Corte costituzionale) si è sottratto ad un allineamento: il numero dei suoi componenti è stato considerevolmente aumentato dall’Assemblea Nazionale, che ha provveduto all’immediata nomina dei nuovi membri. Il nuovo presidente, a scanso di equivoci, ha subito dichiarato pubblicamente di essere rivoluzionario e bolivariano, vale a dire seguace del partito al governo, come erano a suo tempo seguaci del socialismo i magistrati dei paesi comunisti. Altre modifiche alla costituzione permetteranno di abolire anche l’autonomia degli enti locali, i cui capi saranno scelti dall’alto e non più con il suffragio popolare.

I partigiani di Chávez sostengono che tutte queste misure e le altre dello stesso tenore che seguiranno non costituiscono delle lesioni alla democrazia, perché sono state implicitamente approvate dal popolo quando ha eletto il presidente. Gli “amici” stranieri del nuovo corso (gli stessi che esaltano Castro) fanno notare che in Venezuela non vi sono prigionieri politici, ma l’opposizione sostiene che attualmente almeno 248 cittadini sono sotto processo per delitti di carattere politico, quali l’aver organizzato le manifestazioni dell’opposizione o avere apertamente dissentito da Chávez e dai suoi metodi. Il governo ribatte che gli avversari sono ancora liberi di esprimersi e che esiste una stampa indipendente, come dimostra il fatto che nessun giornale è stato proibito o soppresso. È vero, ma al canale televisivo rctv, appartenente ad una società privata, non è stata rinnovata la concessione governativa, il che ha provocato tra le altre proteste quella del segretario generale dell’Organizzazione degli Stati Americani, prontamente insultato da Chávez. Quanto ai quotidiani non governativi, la vita è stata loro resa sempre più difficile da ogni sorta di ostacoli e complicazioni amministrative, come ha rilevato anche Amnesty International nel suo rapporto annuale del 2004. Come avviene in circostanze del genere non è poi necessario instaurare una censura ufficiale. Editori e giornalisti, a scanso di guai, diventano automaticamente prudenti. L’autocensura è notoriamente più efficace della censura. D’altronde una recente modifica del codice penale ha introdotto nuove fattispecie di reati che incidono sulla libertà di pensiero, di riunione e di attività politica.

Un autorevole oppositore, l’ex rivoluzionario Teodoro Petkoff, ha definito il regime che si sta instaurando un “totalitarismo dolce”. Più tradizionalmente i latino-americani hanno sempre distinto con un amaro gioco di parole tra dictadura e dictablanda, quest’ultima priva degli aspetti feroci che hanno distinto ad esempio il regime dei colonnelli in Argentina o quello di Pinochet in Chile. È possibile dunque che all’inizio quella di Chávez si atteggerà a dictablanda, ma i rapporti anche ideologici che il presidente intrattiene con il declinante Fidel Castro, il cui governo è tutt’altro che blando, non fanno presagire nulla di buono. 

È interessante osservare a proposito di questi rapporti come Chávez, mentre manifesta un’ammirazione ed una devozione quasi filiale per il cubano, in fondo lo considera ormai non più il suo maestro, ma una sorta di Giovanni Battista, un precursore della missione che egli intende realizzare. È evidente inoltre che egli mira a raccoglierne l’eredità, ed in ciò fa pensare a quei personaggi della commedia pieni di attenzioni per il vecchio e facoltoso zio moribondo, dal quale sperano di ricevere presto le ricchezze. Le “ricchezze” da ereditare da Castro sono la popolarità in molti strati della popolazione del Sudamerica e la bandiera della lotta anti-usa, quella stessa che era già stata agitata dal primo Perón. Nel suo discorso di investitura del dicembre scorso, di fronte ad un parlamento formato esclusivamente da suoi seguaci, Chávez ha giurato che intende realizzare una rivoluzione che – ha aggiunto più tardi davanti alle forze armate – «sarà pacifica ma non disarmata», per fare del Venezuela un paese socialista. Ed ha gridato: «Socialismo o morte!». Si sa per esperienza storica ormai secolare che le due cose non sono affatto alternative.

 

 

 


Alberto Indelicato, storico e saggista, è stato ambasciatore italiano.

(c) Ideazione.com (2006)
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