Eugenio Montale, un poeta al Senato
di Antonio Funiciello
Ideazione di
marzo-aprile 2007



Io so che andrò incontro al mio destino,
lassù da qualche parte tra le nuvole;
io non odio quelli che combatto
e non amo quelli che difendo 

(William B. Yeats, “An irish airman foresees his death”,
in The wild swans at Coole, Dublino, 1917)

 

Comincerei dalla fine, per poi saltare qua e là nell’opera e nella sua biografia. Tanto per strizzare subito l’occhio a Montale, ammiccare alla sua ritrosa benevolenza e far saltare i nervi a qualche storicista nei paraggi – «La storia non è magistra / di niente che ci riguardi. / Accorgersene non serve / a farla più vera e più giusta»[1]. Comincerei dalla 313ª seduta dell’assemblea di Palazzo Madama dell’VIII legislatura che si apre, in una mite giornata d’inizio autunno, giovedì 8 ottobre 1981, con la commemorazione del senatore Eugenio Montale, morto il 12 settembre a Milano nella clinica San Pio X. Era stato ricoverato il 3 agosto per seri disturbi vascolari, rientrato d’urgenza nel capoluogo meneghino da Forte dei Marmi, dove trascorreva le vacanze estive ormai da anni. S’è già scritto altrove[2] dei funerali solenni celebrati in Duomo dall’allora arcivescovo di Milano Carlo Maria Martini, alla presenza del presidente della Repubblica Sandro Pertini. La breve commemorazione senatoriale se ne sta, invece, da anni dimenticata nelle pagine ingiallite degli atti parlamentari raccolti nella Biblioteca del Senato. L’ultimo ad averla letta è forse l’addetto dell’ufficio resoconti che l’ha corretta e conservata a futura memoria. Breve, si diceva, proprio come sarebbe piaciuta al poeta. Poco importa se la brevità è dovuta all’avvio della sessione di Bilancio che impone un programma dei lavori serrato e prevede, subito dopo l’elogio del poeta, le due lunghe esposizioni del ministro del Tesoro Beniamino Andreatta e di quello del Bilancio Ugo La Malfa. Una bizzarra contingenza che il verso del Montale prosastico avrebbe certo saputo utilizzare al meglio.

Il presidente del Senato è Amintore Fanfani che, levatosi dallo scranno presidenziale seguito da tutti i senatori presenti, riesce ad essere retorico al punto giusto. Ricorda la nascita genovese del poeta e la sua partecipazione alla prima guerra mondiale quale ufficiale di fanteria. Ricorda la fondazione di Primo Tempo, la collaborazione a Il Baretti, la firma al Manifesto degli intellettuali antifascisti. Ricorda la direzione del Gabinetto Viesseux e il suo allontanamento per motivi politici, la fondazione de Il Mondo e la collaborazione con Il Corriere della Sera. E i premi, le lauree honoris causa, la nomina a senatore a vita, il Nobel. «Ma specialmente in questa sede è nostro dovere ricordarlo maestro di tolleranza e di libertà. Motivi di salute impedirono ad Eugenio Montale di recare ai nostri lavori il pieno contributo del suo acuto ingegno, del suo animo aperto, della sua vasta esperienza. Ma non possiamo noi tutti dimenticare l’onore e l’orgoglio di averlo potuto salutare quale punta di diamante della cultura italiana nel mondo»[3]. “Punta di diamante della cultura italiana nel mondo”: erano queste iperboli, questo tipo di goffi stereotipi linguistici che più di altro ispiravano a Montale battute velenosissime. Che incredibile dispetto della morte non permettergli d’essere lì, stipato in un angolo nell’alto delle tribune, nascosto nel suo imbronciato sorriso, ad ascoltare l’encomio senatoriale per chiosarlo a modo suo. Magari come quando al Corriere scoprì per sbaglio il suo coccodrillo. L’episodio lo colpì al punto di citarlo nel discorso[4] all’Accademia di Svezia il giorno dell’assegnazione del Nobel per la letteratura.

A domandare di parlare dopo Fanfani è il presidente del Consiglio dei ministri in carica, Giovanni Spadolini, buon amico del poeta, suo direttore al Corriere tra il ’68 e il ’72. Nella VII e nell’VIII legislatura Montale è membro del gruppo repubblicano (nella VI lo è di quello del Partito liberale) e sostituisce spesso Spadolini nelle commissioni parlamentari al momento dei suoi ingressi nei diversi governi. È lui nel maggio del ’75, in qualità di ministro dei Beni culturali, ad annunciare alle aule di Montecitorio e Palazzo Madama il conferimento del premio Nobel al poeta: «Era la prima volta, dopo quasi 70 anni, che lo stesso riconoscimento veniva conferito ad un poeta senatore, dopo il precedente di Carducci; ma era un precedente che da solo non diceva molto: diversissimi i protagonisti ed opposti i tempi. Carducci premiato come poeta civile, come punto d’incontro tra le tradizioni democratiche e le tradizioni nazionali sullo sfondo di un secolo chiuso da pochi anni, ma inesorabilmente. Montale finalmente premiato dopo tanti rinvii per aver interpretato, sullo scenario di una umanità dissacrata dalle lacerazioni di due guerre, il dramma dell’uomo europeo, la sua solitudine, la sua disperazione, la sua totale rinuncia alle illusioni. [...] Montale ha concorso con i suoi versi e con le sue prose a rivendicare i valori profondi della coscienza individuale e della stessa identità esistenziale contro i miti superomisti e dissacratori del nostro tempo. Credente nella religione del dubbio, nella laica religione dell’uomo attraverso la fedeltà profonda e sofferta verso i vivi e verso i morti; avversario del superficiale avanguardismo ed attivismo, non meno che, molti anni più tardi, della facile e sommaria contestazione; fedele ad un certo passato civile, ad un certo paesaggio umano; mai conservatore nel senso accigliato e neghittoso del termine»[5].

Così Spadolini, col suo tono regolare e persuasivo, a salutare l’amico che Palazzo Madama aveva ospitato tra i suoi scranni per quattordici lunghi anni. Sono forse proprio le sue parole l’abbrivio più sicuro per provare a parlare oggi del senatore Eugenio Montale.

La religione del dubbio
Montale vince il Nobel nel ’75: ha 79 anni. Sedici anni prima a Salvatore Quasimodo, più giovane di lui di cinque anni, è già stato cinto il capo dal lauro svedese. Nel ’59 Quasimodo ha 58 anni ed è fortemente sostenuto dalla critica cattolica e da quella comunista. Non è azzardato riconoscere nella volontà del presidente della Repubblica Giuseppe Saragat, che il 13 giugno del 1967 nomina Montale senatore a vita, un atto di vera e propria riparazione liberale. Oggi Quasimodo è stimato quale scrittore importante del Novecento italiano. Montale è tradotto e studiato nelle università di tutto il mondo.

Ma torniamo al giorno del conferimento del Nobel. Perché la cronaca di quella tarda mattinata di giovedì 23 ottobre ’75 in cui l’ambasciatore di Svezia telefona a Montale è emblematica per comprendere la maniera originalissima con cui il poeta gestisce il rapporto tra privato e pubblico. Nel giorno del Nobel, il momento della vita in cui come mai si ritrova catapultato al centro della più vasta popolarità internazionale, Montale è nella sua casa milanese in via Bigli 15, in compagnia della Gina, la fedele governante, e degli amici Gaspare Barbiellini Amidei e Giulio Nascimbeni. Sono le tredici. È l’ultimo dei due giornalisti a riferire della telefonata dell’ambasciatore di Svezia e della serie di oui e di merci di Montale. «La scena aveva una castità e una semplicità straordinarie. Le pareti della casa erano vuote: i quadri non erano ancora stati riappesi dopo l’estate. L’annuncio del premio Nobel avveniva nella piccola anticamera che precedeva la cucina, tra un vecchio frigorifero e la porta del bagni di servizio. Montale disse ancora una volta merci. La Gina lo baciò sui capelli. Poi gli chiese “Andiamo a tavola?”. In cucina erano pronti il riso all’olio e due polpette con l’insalata. Montale propose un piccolo rinvio: “Fumo un’altra sigaretta con questi amici. L’ambasciatore mi ha raccontato che scrive poesie anche lui”. Tornò a sedersi: “Dovrei dire cose solenni, immagino. Mi viene invece un dubbio: nella vita, di solito, trionfano gli imbecilli. Lo sono diventato anch’io?”»[6].

L’irruzione del pubblico, felpata del tono ufficiale della voce del rappresentante dei reali di Svezia, è accolto dal più riservato dei nostri poeti col solito distacco. «L’ambasciatore mi ha raccontato che scrive poesie anche lui» è la prima frase che rivolge agli amici emozionati che gli siedono accanto. Non un cenno ai complimenti o, più modestamente, alle motivazioni. Gli sarà venuta in mente una vecchia idea delle sue, per cui se un nuovo Guglielmo Giannini (quello dell’Uomo qualunque) fondasse un partito dei poeti avendo come unico punto programmatico che «ogni cittadino ha diritto a stampare i suoi versi a spese dello Stato, manderebbe certo a Montecitorio un centinaio di deputati»[7]. Gli amici avranno certo sorriso di quello che sembrava essere l’unico aspetto che l’avesse colpito durante la più importante telefonata della sua vita artistica. Per uno come Montale poi, che d’essere poeta si era discretamente vergognato sin dai suoi esordi e per una vita intera! Sulla sua carta d’identità, alla voce professione, compariva scritto a macchina: “giornalista”, per quanto la sua anzianità professionale fosse controversa e in discussione, cosa che lo faceva penare non poco. Eppure lì, nella casa arredata dalla moglie scomparsa, insieme a due tra i suoi più cari frequentatori, Montale s’accorge che è un po’ poco. «Dovrei dire cose solenni, immagino. Mi viene invece un dubbio: nella vita, di solito, trionfano gli imbecilli. Lo sono diventato anch’io?». L’ironia che sgombra l’incipiente imbarazzo e sovverte l’ordine delle cose imposto dal senso comune, rendendo così quell’ordine accettabile anche a chi alla sua realtà non ha, in fondo, mai creduto. Il dubbio come il più sorprendente punto d’appoggio che un moderno Archimede possa scovare per scoperchiare con la leva dell’ingegno il pianeta e scoprire il suo doppio fondo cavo, scrigno sibillino di significati imprevedibili.

Montale diviene neofita della religione del dubbio all’inizio della sua educazione intellettuale. In un’epoca, quella del fascismo, in cui l’adesione alla realtà è per gli uomini di pensiero tanto vissuta e diffusa, sia (e maggiormente) in positivo, in un rapporto di identificazione col corso dei tempi, sia in negativo, in un rapporto di avversione col regime e la sua Italia, il caso di Montale fa prudentemente eccezione. Aderire od osteggiare il fascismo con la sua opera di scrittore avrebbe preteso da Montale una cifra di fiducia nelle verità fenomeniche assolutamente aliena al suo spirito ed anche al suo temperamento. «Il tentativo di fermare l’effimero, di rendere non fenomenico il fenomeno»[8] sarebbe andato vano qualora il poeta avesse scelto di militare poeticamente su uno dei due fronti. Il suo posizionamento morale è chiarissimo dal primo momento ma la sua ispirazione non avrebbe trovato di che nutrirsi da un adeguamento, positivo o negativo che fosse, alla vicenda storica della nazione. «Avendo sentito fin dalla nascita una totale disarmonia con la realtà che mi circondava, la materia della mia ispirazione non poteva che essere quella disarmonia»[9]. Un racconto politico dell’impolitico Montale deve fare i conti anzitutto con questo a priori esistenziale ed estetico proprio della dimensione privata ed artistica del poeta, dal momento che condiziona massicciamente la sua concezione di dimensione del proprio ruolo pubblico. Il dubbio estetico ed esistenziale di Montale misura ogni sua scelta o comportamento pubblico estorto dall’irruzione del presente. Torna prezioso un altro poeta: «In pace e in guerra, al fronte o nelle retrovie, da ufficiale come da medico, fra trafficanti ed eccellenze, davanti alle celle dei manicomi e a quelle delle prigioni, accanto ai letti e alle bare, nell’ora del trionfo e in quella della caduta, non mi ha mai abbandonato la trance che questa realtà non esista»[10].

Il senatore Eugenio Montale
Montale firma nel 1925 il Manifesto degli intellettuali antifascisti, redatto da Benedetto Croce e ispirato da Giovanni Amendola. Il rapporto di Montale con Croce finisce sostanzialmente qui. La sordità cocciuta di don Benedetto nei confronti della letteratura contemporanea gli impedisce di distinguere in Montale il genio letterario. All’acume filosofico profondissimo di Croce non corrisponde alcuna vera dimestichezza critica. Egli resta uno straordinario teorico dell’arte, ma altrettanto straordinaria fu la sua incapacità di riconoscere il pregio degli scrittori del suo tempo: da D’Annunzio e Pirandello a seguire, la lista è davvero lunga. La devozione di Montale per la lezione crociana, non gli impedisce d’altronde di sbeffeggiare elegantemente don Benedetto. Nel Diario del ’71 e del ’72 sono raccolti i versi a lui dedicati che cominciano: «Una virtù dei Grandi è di essere sordi / a tutto il molto o il poco che non li riguardi…»
[11].

Non bastasse la sua firma in calce al Manifesto, il pedigree antifascista di Montale è anche ricostruibile dai rapporti assidui e vincolanti intrattenuti con molti antifascisti militanti. Sulla rivista di Piero Gobetti, Il Baretti, Montale pubblica i primi saggi e presso la sua casa editrice nel ’25 gli Ossi di seppia, il primo libro di versi. Montale è anche l’ultimo a vedere l’intellettuale torinese vivo in patria, alla stazione ferroviaria di Genova, prima che passi il confine per morire in Francia a seguito di molte bastonate ricevute da solerti squadristi. Nel ’51 sul Corriere, per il cinquantenario della nascita di Gobetti, Montale lo ricorderà così: «Intransigente, dinamico, ostinato, duro a morire ma, ahimé, fragilissimo, […] era sempre in movimento, unendo a una straordinaria curiosità intellettuale la convinzione che la vita si spiega con la vita e che l’uomo è il solo fabbro del suo destino»[12].

Il suo antifascismo coerente ma discreto è anche il protagonista della vicenda gogoliana che interessa il poeta poco dopo il suo arrivo a Firenze nel ’27. L’antifascista Montale, uno dei pochi firmatari del Manifesto di Croce, è assunto al Gabinetto scientifico letterario G. P. Viesseux in qualità di direttore. Il suo curriculum dovrebbe tenerlo lontanissimo da qualsiasi incarico istituzionale. Eppure, un collaboratore di riviste sovversive, nonché frequentatore di sovversivi, finisce, su indicazione del direttore dimissionario Bonaventura Tecchi, in una terna di papabili sottoposta al presidente dell’ente, il filologo Paolo Emilio Pavolini. L’indicazione spetta però al podestà di Firenze, conte Giuseppe della Gherardesca. Questi s’informa immediatamente sull’iscrizione al pnf dei tre candidati e, appreso che Montale non ha la tessera, decide di nominare proprio lui. Chi sa bene quanto complesso sia stato quel fenomeno storico, politico e culturale, che chiamiamo fascismo, non si stupisce della bizzarria di questa decisione. Come nemmeno del licenziamento di Montale dall’ente nel ’38, proprio perché non iscritto al partito[13]. Dopo la seconda guerra Montale si iscrive, invece, al Partito d’Azione conoscendo il suo «primo quarto d’ora di impegno politico»[14]. Gli viene offerta[15] anche la vicedirezione de L’Italia liberata, diretta dall’amico Leo Valiani, con cui si ritroverà nel gruppo repubblicano al Senato. Ma la cosa salta insieme al quarto d’ora d’impegno politico, a causa dell’implosione del partito azionista. Seguono una ventina d’anni di lieta lontananza dalla politica ufficiale, fino alla nomina a senatore a vita.

Analizzare gli atti parlamentari del Senato nel periodo in carica del senatore Eugenio Montale (giugno ’67 - settembre ’81) permette di ricostruire il suo operato di legislatore per offrirlo organicamente a una lettura inedita. «Il Presidente della Repubblica, visto l’articolo 59 della Costituzione, nomina il dottor Eugenio Montale a vita senatore della Repubblica per avere illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo letterario e artistico»[16], così Giuseppe Saragat. Montale arriva a Roma quando la IV legislatura è a un anno dal giungere (cosa rara) al suo termine naturale. Resta a Palazzo Madama, con un ritmo di presenza ai lavori parlamentari dettato dai problemi di salute, per le intere V, VI e VII legislatura e per metà dell’VIII. Risulta iscritto a due gruppi. Quello del Partito liberale italiano per la VI. E quello del Partito repubblicano italiano per la VII e l’VIII. Nel primo capita quasi per sbaglio[17]: i senatori liberali sono solo 8 e chiedono a lui e a Cesare Merzagora (il record man dei presidenti del Senato) di aggregarsi a loro come indipendenti, allo scopo di raggiungere il numero di 10 senatori, indispensabili secondo il regolamento per la costituzione di un gruppo parlamentare. L’iscrizione al gruppo repubblicano nella VII e nell’VIII legislatura è meno casuale. Giovanni Spadolini è nel ’72 eletto senza tessera in Senato per il Partito repubblicano. Ugo La Malfa lo incarica di guidare il gruppo a Palazzo Madama, dove ottiene l’adesione prima di Montale e poi di Leo Valiani[18]. Oltre che di questi gruppi parlamentari, nei quattordici anni in carica il poeta è membro prevalentemente della II commissione permanente “Giustizia”, della IV “Difesa” e della VI “Istruzione pubblica e belle arti”.

I pochi disegni di legge di cui Montale è cofirmatario sono di natura assai varia. Anzitutto certe proposte inerenti il suo essere uomo di cultura, come i “Provvedimenti per l’università” del ddl n. 408[19] del 1969 presentato con Giovanni Gronchi o il ddl N. 1646[20] del 1971 per una “Nuova disciplina delle associazioni e delle fondazioni culturali e di ricerca scientifica”. Ma quando più partecipe è la sua adesione a un gruppo parlamentare, come nel caso di quello repubblicano, più interessante si fa anche la sua attività legislativa, con la presentazione nell’ottobre del ’79 del ddl n. 318[21] per un “Nuovo ordinamento degli enti locali”, o del ddl n. 319[22] su “Norme per l’incentivazione dell’uso dell’energia solare nel settore dell’edilizia privata e pubblica e dell’agricoltura”.

Per non parlare del Disegno di Legge Costituzionale n. 320[23] dello stesso periodo, in cui insieme a Spadolini, Visentini e altri, Montale chiede la “Soppressione dell’ente autonomo territoriale provincia”. Oggi lo si definirebbe un provvedimento riformista. E Montale ne riderebbe di gusto. Il poeta è naturalmente tra coloro (Interrogazione orale n. 848[24] del 4 agosto 1980) che chiede al governo in carica di riferire sulla strage della stazione di Bologna, ma si segnalano anche due originali mozioni: la prima sulle diagnosi precoci dei tumori (n. 1 - 0007[25] del ’72), la seconda che chiede conto al governo in carica «del dibattito sui problemi posti dalla diffusione della droga in Italia» (n. 1 - 00016[26] del ’79).

Se si ricorda a margine anche l’impegno referendario a difesa della legge Fortuna sul divorzio, con tanto di appello a sostegno di uno dei primi scioperi della fame di Marco Pannella, e l’adesione a una proposta dei Radicali di revisione del Concordato, si può forse uscire dalla cronaca della attività politica del senatore Eugenio Montale e provare a scavare più in profondo.

Piccolo testamento
«Questo che a notte balugina / nella calotta del mio pensiero, / traccia madreperlacea di lumaca / o smeriglio di vetro calpestato, / non è lume di chiesa o d’officina / che alimenti / chierico rosso, o nero. / Solo quest’iride posso / lasciarti a testimonianza / d’una fede che fu combattuta, / d’una speranza che bruciò più lenta / di un duro ceppo nel focolare. / Conservane la cipria nello specchietto / quando spenta ogni lampada / la sardana si farà infernale / e un ombroso Lucifero scenderà su una prora / del Tamigi, dell’Hudson, della Senna / scuotendo l’ali di bitume semi– / mozze dalla fatica, a dirti: è l’ora»
[27]. Montale redige questo piccolo testamento nel ’53, pubblicandolo su La Fiera Letteraria. È una delle ultime poesie del Montale lirico, ma si sente che il verso già spiana, la sua percentuale di pendenza ritmica si riduce e s’affaccia il ghigno prosastico degli ultimi anni. La sua luce non è quella di un candelabro o di una lampada d’officina, ma un’iride che brucia tenace all’imbizzarrirsi della danza della vita che già muta in danza della morte. La donna a cui il verso parla è avvisata: può provare a salvarsi affidandosi alle luminarie intermittenti di religioni o ideologie, oppure scegliere la chiarità discreta ma incorruttibile di questo punto di luce che le offre il poeta.

La poesia, alla sua uscita, si guadagna velocemente lo sprezzo dei critici comunisti. Le accuse, la cui sofisticata superficialità cela spesso una più semplice stupidità, sono le solite: confusamente classiste – “Montale borghese”, “Montale aristocratico”; sommariamente positiviste – “Montale nichilista”, “Montale decadente”. La pazienza, in questi casi, è d’obbligo. La lirica si compone di tre diversi livelli allegorici: il quadro storico dell’inquieta quiete dopo la tempesta della seconda guerra mondiale; il quadro ideologico in cui cattolicesimo e marxismo ad un tempo si combattono e si fiancheggiano; il quadro individuale del poeta che nella sua tensione etica prova a salvaguardare la propria, irriducibile umanità. La politicità di Montale, nell’Italia repubblicana che gli tributerà i più grandi onori, si risolve in un posizionamento morale coerente con quello assunto precedentemente. Se il suo antifascismo nell’Italia fascista non si traduce mai nell’impugnare la penna come una baionetta, nell’Italia istituzionalmente antifascista il suo approccio non cambia. Ancor più al cospetto di chi dell’antifascismo istituzionale si fa maggiormente interprete e custode. In Montale è certo fatta salva l’idea weberiana di cristianesimo come tipo ideale, ma i rapporti con quel cattolicesimo post-conciliare non sono buoni e la sua adesione a certe battaglie radicali sta lì a dimostrarlo. E pur essendo circondato da amici che provengono da quello stesso marxismo che cova i suoi più arditi detrattori, ha per Hegel e i suoi discepoli un divertito disamore che sintetizzano bene quattro suoi versi: «Rabberciando alla meglio / il sistema hegeliano / si campa da più di un secolo / e naturalmente invano»[28].

Montale è un umanista e un liberale. Crede fermamente che gli uomini siano diversi gli uni dagli altri e che questa differenza rappresenti la cifra del concetto stesso di umanità. Nella sua diversità spirituale, che l’ideologia e la religione (ma anche la scienza) pensano di poter artatamente annullare, l’uomo è solo ed è impossibilitato a coprire lo spazio che lo separa dagli altri. Se il calcolo infinitesimale ha (appunto artatamente) risolto il paradosso di Achille e la tartaruga, Montale è dell’avviso che l’eroe omerico non può recuperare il vantaggio che con superbia concede al rettile. Perché la realtà in cui si svolge la loro gara non è quella fisica, ma quella del pensiero, una realtà in cui quanto è andato perso non può essere recuperato. L’uomo, fosse pure il principe acheo, è costretto in una condizione di solitudine per cui non esistono rimedi. È a questo uomo che Montale parla e per lui redige il suo Piccolo testamento.

La poesia dopo Montale
Oggi in Italia i poeti e i premi Nobel per la letteratura si candidano per fare i sindaci delle loro città. O meglio, ci provano, coi risultati imbarazzanti che conosciamo tutti. Oggi i poeti sono tendenzialmente preoccupati: degli ogm e della decadenza dell’Europa, del global warming e dell’impero americano. Sono così preoccupati che la loro arte ne risente, al punto che il numero di buone poesie diminuisce in un rapporto inversamente proporzionale all’accrescersi della loro preoccupazione. Una preoccupazione che talora, inacidita da bruciori di stomaco o violente emicranie, si accompagna ad indignazione. Così il nostro poeta, già di suo preoccupato, se ha un qualche disturbo fisico è, altresì, senza rimedio alcuno indignato. Se si aggira in mezzo a premi letterari e festival della letteratura – pardon, delle letterature – mette all’indice il silenzio della scuola, della religione, delle istituzioni. Poco importa se in prima fila lo applaudono vescovi e insegnanti, e lo premiano pubblici amministratori. Non perde occasione per sindacalizzare la sua indignata preoccupazione e la sua preoccupata indignazione coinvolgendo, sensibilizzando, movimentando. Quando poi parla di poesia in pubblico (nelle università, nei bar, sui giornali, al cimitero) lo fa sempre in maniera magniloquente, nel dolore incessante cui lo consegna il dramma dell’elezione antropologica del suo stato.

Mi manca Montale. Intendiamoci, la sua presenza negativa si fa ancora sentire, come ha ben scritto Berardinelli qualche mese fa: è ignorando lui, difatti, che è la poesia italiana del Novecento, che la poesia italiana contemporanea definisce se stessa. «Oggi rileggere Montale che parla di poesia farebbe scandalo. Sembrerebbe un attentato alla comunità o setta o corporazione dei poeti, a cui (stranamente) ogni poeta sente ormai di appartenere»[29]. Il poeta, l’artista, ovvero l’individuo la cui singolarità è per definizione meno contrattabile, assimilabile e riducibile, si muove nel gregge dei “colleghi”. Non era mai accaduto. I poeti che immolavano la fatica letteraria ad una ideologia, ritagliavano per sé il ruolo di pastori di un gregge da loro distinto, o almeno di cani pastore. Fischiavano o abbaiavano, ma alla fine non erano altro che tristi automi al seguito dell’ignominia della causa sposata.

Mi manca Montale. Mi manca la sua prudenza e il suo distacco. La sua decenza, la sua intelligenza. Ad una «umanità gaudente e disperata»[30], espressione perfetta e poeticissima, lui avrebbe saputo parlare: prendendola sul serio il poco che merita e sbeffeggiandola il molto che necessita. Nei tempi boriosi (e quanto noiosi) della contaminazione e della trasversalità, manca una sana diffidenza per il contesto e una satira sorniona della moda multiculturalista. Mi mancano i veri guitti: i regolari, che mordano il conformismo della grigia irregolarità imperante. Mi manca una misura di gradazione della lente che sappia distinguere, perché conoscere è distinguere. Mi manca il sorriso del pensiero critico.

Mi manca Montale.

 

Note
1.       Eugenio Montale, La storia, in Satura, Milano 1971, in Id., Tutte le poesie, a cura di Giorgio Zampa, Arnoldo Mondadori Editore, I Meridiani, Milano 1984, vv. 24-27, p. 323.  2.       Cfr. Giulio Nascimbeni, Montale. Biografia di un poeta, Longanesi Editore, Milano 1986, pp. 158-61. Alla splendida biografia di Montale di Giulio Nascimbeni questo breve saggio deve molto. Essendo poi l’unica biografia autorizzata del più grande poeta italiano del Novecento, il fatto che sia ormai fuori collana ed edito per l’ultima volta ventuno anni fa, più che sorprendere, stizzisce.
3.       Senato della Repubblica, VIII Legislatura, Atti Parlamentari, Resoconto delle Discussioni, vol. XVII, pp. 16643-4.
4.       Eugenio Montale, È ancora possibile la poesia?, in Id., Sulla poesia, a cura di Giorgio Zampa, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1976, pp. 5-14.
5.       Senato della Repubblica, VIII Legislatura, Atti Parlamentari, Resoconto delle Discussioni, vol. XVII, pp. 16644-5 .
6.       Giulio Nascimbeni, op. cit., p. 145 e anche Id., Ritratto di Eugenio Montale, in AA. VV., Eugenio Montale, a cura di Annalisa Cima e Cesare Segre, Rizzoli Editore, Milano 1996, p. 3. 
7.       Eugenio Montale, Il partito dei poeti, in Id., Prose e racconti, a cura di Marco Forti, Arnoldo Mondadori Editore, I Meridiani, Milano 1995, p. 535.
8.       Id., La solitudine dell’artista, in Id., Auto da fé, Aronoldo Mondadori Editore, Milano 1995, p. 46.
9.       Id., Confessioni di scrittori (Intervista con se stesso), in Id., Sulla poesia, cit., p. 570.
10.       Gottfried Benn, Gehirne, Lipsia 1916, trad. it.
Cervelli, a cura di Maria Fancelli, Adelphi Edizioni, Milano 1986, p. 89.
11.       Eugenio Montale, A un grande filosofo, in Diario del ’71 e del ’72, Milano 1973, in Id., Tutte le poesie, cit., vv. 1-2, p. 490. 
12.       Id., Fui l’ultimo che lo vide partire, ne Il Corriere della Sera del 19 giugno 1851, in Giuseppe Marcenaro, Eugenio Montale, Edizioni Bruno Mondadori, Milano 1999, pp. 129-30.
13.       L’ultima ottima ricostruzione del licenziamento di Montale è di Paolo Buchignani, Il caso «Montale Viesseux» e Marcello Gallian, in Nuova Storia Contemporanea, Anno VI, N. 2, Marzo-Aprile 2002, pp. 133-50. Il merito dello studio di Buchignani è nel mostrare come Montale, sin dalla metà degli anni Trenta, avvertendo che l’ostilità del regime metteva a rischio il suo posto al Viesseux, cerchi di stabilire contatti con le alte sfere del PNF. La fortuna non gli arride: il suo pedigree di antifascista è, d’altronde, troppo datato. Alla fine del ’38 il Consiglio di Amministrazione del Viesseux delibera la sua estromissione dalla carica di direttore.
14.       Cfr. l’intervista rilasciata in Enzo Biagi, Testimone del tempo, Rizzoli Editore, Milano 1980, p. 10.
15.       Cfr. Leone Piccioni, Profili, Rizzoli Editore, Milano 1995, p. 91.
16.       Senato della Repubblica, IV Legislatura, Atti Parlamentari, Resoconto delle Discussioni, vol. XXXVI, p. 34373.
17.       Montale racconta a Biagi (op. cit, p. 10): «Mi iscrissi al Partito d’Azione, ma vidi faccende abbastanza strane, personaggi di vastissima cultura e di forte onestà, come Calamandrei, abbindolati da individui che gli erano molto inferiori. Allora mi dimisi, e sono rimasto privo di tessera. Oggi sono finito in una curiosa posizione, perché, visto che i liberali non riuscivano a formare un gruppo, dato che sono otto, e invece ne occorrono dieci, io, come Merzagora, vi sono entrato, ma senza aderirvi, e non lo farò mai. Forse, il PLI potrà addirittura sciogliersi, in due ancora meno consistenti, credo ci sia anche una sinistra...». 18.       Cfr. Marcello Pera, Presentazione, p. 12 e Cosimo Ceccuti, Introduzione, p. 33, entrambi in Giovanni Spadolini, Discorsi parlamentari, il Mulino, Roma 2002.
19.       Senato della Repubblica, V Legislatura, Atti Parlamentari, Resoconto delle Discussioni, vol. IV, p. 3363.
20.       Senato della Repubblica, V Legislatura, Atti Parlamentari, Resoconto delle Discussioni, vol. XXIV, p. 22659.
21.       Senato della Repubblica, VIII Legislatura, Atti Parlamentari, Resoconto delle Discussioni, vol. II, p. 1379.
22.       Ibid.
23.       Ibid.
24.       Senato della Repubblica, VIII Legislatura, Atti Parlamentari, Resoconto delle Discussioni, vol. IX, p. 8467.
25.       Senato della Repubblica, VI Legislatura, Atti Parlamentari, Resoconto delle Discussioni, vol. II, pp. 1730-1.
26.       Senato della Repubblica, VIII Legislatura, Atti Parlamentari, Resoconto delle Discussioni, vol. II, p. 1150.
27.       Eugenio Montale, Piccolo testamento, in La bufera e altro, Milano 1956, in Id., Tutte le poesie, cit., vv. 1-18, p. 275.
28.       Id., Rabberciando alla meglio..., in Poesie disperse, in Id., Tutte le poesie, cit., p. 849.
29.       Alfonso Berardinelli, Il Poeta e la Tv, ne Il Foglio del 9 settembre 2006.
30.       Dal Messaggio Urbi et Orbi di Papa Benedetto XVI dello scorso Natale.




Antonio Funiciello, direttore dell’associazione di cultura politica Libertà Eguale.

(c) Ideazione.com (2006)
Home Page
Rivista | In edicola | Arretrati | Editoriali | Feuileton | La biblioteca di Babele | Ideazione Daily
Emporion | Ultimo numero | Arretrati
Fondazione | Home Page | Osservatorio sul Mezzogiorno | Osservatorio sull'Energia | Convegni | Libri
Network | Italiano | Internazionale
Redazione | Chi siamo | Contatti | Abbonamenti| L'archivio di Ideazione.com 2001-2006