Alla ricerca della Pax Americana
di Antonio Donno
Ideazione di
marzo-aprile 2007

A poco più di un quindicennio dalla Dichiarazione d’Indipendenza, nel 1801, il presidente americano Thomas Jefferson dichiarava guerra ai Barbary States, quegli Stati arabi del Nord Africa, nominalmente sotto la sovranità dell’Impero Ottomano, ma di fatto indipendenti, che foraggiavano le scorrerie dei pirati arabi nel Mediterraneo a danno dei commerci delle potenze occidentali e degli stessi Stati Uniti. Così, già agli inizi dell’Ottocento, gli Stati Uniti si trovarono in opposizione al mondo arabo, per il semplice motivo che i loro interessi commerciali e politici si andavano incrementando nel bacino del Mediterraneo e in Medio Oriente; e la reazione militare americana di quel momento può essere considerata paradigmatica di come gli Stati Uniti avrebbero reagito nel futuro di fronte alla minaccia ai propri interessi e sicurezza da parte del mondo arabo. Questo è uno dei punti fermi del recente libro di Michael B. Oren dedicato alla storia della politica mediorientale degli Stati Uniti.[1]

Che Washington avesse in progetto di allargare il proprio raggio d’azione in quell’area non deve stupire. Tutti gli scritti dei Founding Fathers americani immaginavano il futuro del proprio paese come un futuro da grande potenza, in grado di soppiantare il potere globale delle grandi potenze europee. I princìpi-cardine della politica commerciale americana nel Mediterraneo e nel Medio Oriente possono essere così definiti: non-coinvolgimento negli affari politici delle potenze europee nell’area, Open Door, libertà di navigazione, tutela dell’interesse nazionale. Ma, nello stesso tempo, Washington riconosceva il diritto di auto-determinazione dei popoli soggetti al dominio ottomano. Quest’ultimo si rivelerà un principio politico di enorme importanza per la futura politica americana verso il Medio Oriente islamico. In particolare, nella sua autobiografia, Jefferson alludeva, per la prima volta nella storia della politica americana verso il mondo arabo, alla possibilità che la nuova nazione, nata al di là dell’Atlantico, potesse “esportare” alcuni valori di civiltà presso gli arabi, «per modificare le loro abitudini da popolazione predona a popolazione dedita all’agricoltura [...]». Questa guerra a bassa intensità contro i Barbary States si protrasse fino al 1815 e si concluse positivamente per Washington, permettendo nuovamente agli uomini d’affari ed ai missionari americani di riprendere le loro attività che consistevano indirettamente anche «[...] nel diffondere le idee del repubblicanesimo sino alle più lontane lande del Mediterraneo».[2] Si può dire che la conclusione di quel confronto con il mondo arabo dimostrò, già nei primi anni di vita della Repubblica americana, che gli Stati Uniti erano pronti, per quanto talvolta in modo riluttante, a far uso della potenza militare come prova della forza del proprio nazionalismo in espansione. Il quale, precisa Oren, aveva, agli occhi degli americani, una funzione universale: quella di liberare i popoli dalla tirannia, dalla povertà, dalla degradazione. Il Medio Oriente arabo fu, perciò, un ottimo banco di prova per la missione liberale della Repubblica americana fin dagli inizi della sua presenza nella regione. Questa missione, nel caso del Medio Oriente arabo, era rafforzata, sin dal momento dell’indipendenza, dal sospetto e dall’ostilità degli americani verso l’Islam che John Quincy Adams definì senza mezzi termini una religione «fanatica e fraudolenta», perché fondata «sull’odio naturale dei musulmani verso gli infedeli».

In realtà, come si è detto, la profonda diffidenza degli americani era dovuta all’attività violenta dei pirati arabi foraggiati dai Barbary States. Oren racconta che John Adams e Thomas Jefferson chiesero al Pasha di Tripoli di metter fine a tali soprusi, ma l’emissario del Pasha rispose che il Corano conferiva agli islamici «il diritto ed il dovere di portare guerra» a qualsiasi infedele «che essi dovessero incontrare e di trarre in schiavitù tutti coloro che fossero fatti prigionieri». George Washington, incollerito, affermò: «Voglia il Cielo che noi si possa avere una Marina in grado di rendere umani questi nemici o di annichilirli». Così, il Congresso varò una legge apposita per la creazione della Marina americana; e, nel 1801, Jefferson, tradizionalmente ritenuto idealista, pacifista ed isolazionista, mosse guerra ai Barbary States, «una versione ottocentesca degli “Stati canaglia”».[3]

Le lande più lontane del Mediterraneo erano quelle occupate dagli ottomani islamici e, in particolare, quelle delle popolazioni non islamiche soggette all’Impero Ottomano. In sostanza, considerata alla luce degli eventi successivi, l’affermazione di Jefferson, per quanto stringata, ribadiva il ruolo messianico della nuova nazione d’Oltreatlantico nel favorire la diffusione delle idee di libertà sulle sponde del mare che aveva visto sorgere la civiltà umana: il libero commercio, la libera circolazione delle persone e delle loro idee – e il ruolo che in questa azione erano “destinati” ad avere gli americani (Oren utilizza l’espressione “Manifest Middle Eastern Destiny”) – avrebbero potuto consentire un processo di adeguamento dei popoli islamici ai benefici della civiltà liberale di marca americana e la liberazione di quei popoli cristiani che erano soggetti alla Sublime Porta turca. In questo consisteva, per riprendere un concetto fondamentale del libro di Robert Kagan, l’eccezionalismo americano, eredità dell’eccezionalismo della madrepatria inglese (il liberalismo) ed avanguardia di quest’ultimo nel Nuovo Mondo: essere portatore di una superiorità razziale e culturale, derivata in parte dalla superiorità del Protestantesimo, in parte dalla “perfezione” delle istituzioni politiche inglesi. In definitiva, la missione espansionistica americana poggiava non solo sulla ricerca della sicurezza per la nuova nazione, ma sulla convinzione di servire un fine più alto, rappresentato dal destino anglosassone di condurre l’umanità verso lidi più felici, cioè verso la libertà. Ecco perché, secondo l’interpretazione di Kagan, gli Stati Uniti furono, fin dagli inizi, una nazione “pericolosa”.

Fu per questo motivo che l’opinione pubblica americana e lo stesso governo del quinto presidente degli Stati Uniti, James Monroe, insieme con il suo celebre segretario di Stato, John Quincy Adams, salutarono con entusiasmo la rivoluzione della Grecia cristiana contro il giogo ottomano. In questa circostanza, come in precedenza nella lotta contro i Barbary States, la Santa Sede affermò che gli Stati Uniti facevano per la cristianità più di quanto avessero fatto nei secoli passati le più potenti nazioni del mondo cristiano: un’esagerazione che conteneva, però, un importante riconoscimento del ruolo essenziale degli Stati Uniti nel bacino del Mediterraneo. In effetti, già negli anni precedenti, Jefferson aveva proposto alle potenze europee di costituire una lega internazionale per il controllo del Mediterraneo, «con gli Stati Uniti a svolgere un ruolo preminente», afferma Kagan in un significativo passaggio del suo libro a proposito della volontà americana di acquisire una posizione centrale nel sistema politico internazionale di quel tempo.

La rivolta greca del 1821 riaccese negli americani la mai sopita consapevolezza di essere i veri eredi dei lumi dell’antica democrazia greca. Il filo-ellenismo americano di quegli anni si nutrì non solo del disprezzo verso l’odiosa tirannia ottomana – bollata da Alexander Hamilton, nel Federalist n. 30 del 28 dicembre 1787, come «[...] padrona assoluta delle vite e delle fortune del suoi sudditi» – e dell’entusiasmo per quella che gli americani consideravano una sorta di replica storica della propria lotta per l’indipendenza, ma soprattutto della consapevolezza che i greci cristiani stessero combattendo una feroce lotta per la sopravvivenza contro i turchi islamici, un aspetto cruciale dell’eterna lotta tra il Bene ed il Male. Nella famosa dottrina, proclamata da Monroe il 2 dicembre 1823, il presidente americano ribadiva la continuità della politica di Washington di non-coinvolgimento negli affari europei, ma esprimeva anche la certezza che la Grecia sarebbe «[...] divenuta nuovamente una nazione indipendente». Strenua difesa dell’interesse nazionale, cautela nei rapporti con le potenze europee ed idealismo si compendiavano nella politica americana verso il Mediterraneo e il Medio Oriente.

Nonostante la cautela messa in atto dai politici, sostiene Oren, ed al di là delle visioni esotiche del Medio Oriente largamente diffuse nell’immaginario americano, l’opinione pubblica del paese si atteggiò in tre modi verso il Medio Oriente arabo: in primo luogo, l’America sentiva il compito di trasformare il mondo arabo ed islamico sul piano politico, spirituale ed economico, al fine di renderlo conforme ai principi liberali e cristiani; in secondo luogo, sin dai tempi dei puritani, molti americani erano ossessionati dall’idea di restaurare in Palestina l’antica patria ebraica; infine, sin dall’epoca coloniale, la maggior parte degli americani vedevano nel Medio Oriente arabo il regno della violenza e della barbarie. Secondo Oren, questi tre atteggiamenti hanno caratterizzato la politica americana verso la regione sino ad oggi.

La diffusione del vangelo dell’americanismo
Per tutto il diciannovesimo secolo la conoscenza del Medio Oriente islamico fu affidata all’opera dei missionari protestanti: un capitolo importante nella storia dell’approccio americano al mondo arabo ed islamico. Il concetto prevalente sull’Islam era che si trattasse di una religione «nata dalla spada», «nemica della ragione» e votata a distruggere «ogni indipendenza di pensiero e di azione», come riferì un ufficiale americano in visita in Egitto. In particolare, racconta Oren, gli americani trovavano sconcertante la condizione della donna nel mondo islamico; di qui l’impegno dei missionari per portare gli islamici al cristianesimo, un impegno di tipo religioso in massima parte fallito, ma che presto prese una strada ben più efficace, la diffusione del “Vangelo dell’americanismo”: liberalismo, tecnologia, democrazia. In definitiva, da quel momento in poi, accanto all’azione politica, furono questi gli strumenti principali della penetrazione americana nel Medio Oriente islamico. I missionari protestanti americani aprirono scuole e ospedali, facendosi interpreti di quell’idealismo che ha sempre caratterizzato il ruolo degli Stati Uniti nella politica internazionale. Proprio sulla scorta di questa considerazione, Michael Oren, in una recente intervista, ha affermato che, a partire dalla nascita della Repubblica, gli americani vedono «il Medio Oriente come una sorta di specchio. Guardano il Medio Oriente, ma non vedono il Medio Oriente, non vedono una civiltà diversa, vedono l’America. Questa gente è come gli americani, questo posto è come il New Jersey, tutto quello che dobbiamo fare è darle un pizzicotto e tutto sarà ok». Ma l’esempio del Medio Oriente ci serve per interpretare il ruolo degli Stati Uniti nel mondo ed il significato della loro civiltà, del loro idealismo.

Nonostante l’intensa attività dei missionari protestanti americani – attività religiosa ma implicitamente anche di diffusione del modello americano, in senso lato, in alcune aree del Medio Oriente – la politica di Washington si attenne, per tutto l’Ottocento e sino allo scoppio della prima guerra mondiale, al principio di non-ingerenza negli affari dell’Impero Ottomano, ma in particolare negli interessi delle potenze europee nel Mediterraneo, secondo la formulazione della dottrina di Monroe del 1823. Con tale cauta politica gli Stati Uniti pretendevano la non-ingerenza europea nell’emisfero americano. Come ben mette in rilievo Oren, la presenza americana nel Mediterraneo rispondeva ai canoni di una geopolitica accorta, per quanto l’opinione pubblica spesso prendesse posizione su determinati avvenimenti della regione, sulla spinta di motivazioni umanitarie che potevano mettere in difficoltà la cauta politica dei policymakers di Washington. Per esempio, la questione armena, dopo quella greca, suscitò un’ondata di indignazione a causa degli orrendi massacri perpetrati dai turchi nei confronti di un popolo cristiano. Questo sarà, sul piano culturale, un nodo cruciale che verrà al pettine alla fine del secolo, quando il movimento sionista, nato in Europa e poi radicatosi negli Stati Uniti, farà emergere presso l’opinione pubblica, e questa volta anche nel mondo politico americano, il problema del ritorno del popolo ebraico nella sua antica patria, come compimento della profezia di Ezechiele e di conseguenza come riscatto, ad opera della nuova nazione cristiana, della cultura giudaico-cristiana nei confronti dell’Islam.[4] Le ragioni della cautela geopolitica saranno affiancate e talora messe in ombra da un potente sentimento di appartenenza che darà il titolo ad un noto libro apparso negli Stati Uniti nel 1983.[5]

In un’altra delle numerose interviste che Oren ha rilasciato a proposito del suo nuovo libro, l’autore ha affermato che «l’idea di America e l’idea di uno Stato ebraico sono molto strettamente connesse. Ci riportano al tempo dei puritani che concepivano se stessi come i nuovi ebrei ed il Nuovo Mondo come la Nuova Canaan. [...] Da quel momento, molti protestanti hanno considerato come loro dovere religioso e nazionale aiutare a realizzare la promessa divina di salvare gli ebrei dall’esilio e di riportarli nella patria ancestrale». Oren fa un riferimento assai significativo: nel 1844 fu pubblicato negli Stati Uniti un libro che divenne famoso, dal titolo The Valley of Visions, in cui l’autore esortava gli Stati Uniti a porsi all’avanguardia del progetto di ricostruzione di uno Stato ebraico in Palestina. L’autore del libro era il direttore del dipartimento di Studi Biblici della New York University: il suo nome era George Bush, antenato dei due successivi presidenti degli Stati Uniti. Si potrebbe aggiungere che questo legame storico, religioso, culturale condizionò in modo decisivo l’approccio americano alle questioni mediorientali fin dalla nascita della Repubblica americana, che spesso si autodefinì la “nuova Sion”, la “nuova Gerusalemme”. L’impatto del mondo evangelico – con il suo esclusivo riferimento alla Bibbia ebraica – sulla vita sociale coloniale e successivamente statale costituì quel potente background culturale che porrà sempre Israele in the mind of America.

Quando il movimento sionista si consolidò, non senza contrasti interni, nella società americana, la questione della ricostruzione di una patria ebraica in Palestina divenne una questione permanente nella politica americana, intrecciandosi, però, con i crescenti interessi americani verso il petrolio arabo (ma questo solo agli inizi degli anni Venti) ed entrando in conflitto con le pretese imperialistiche britanniche nei confronti del Medio Oriente. In sostanza, Wilson era favorevole alla ricostruzione di una national home ebraica in Palestina, ma la famosa Dichiarazione Balfour del 2 novembre 1917 non lo convinceva del tutto: come giustamente afferma Oren, la stretta alleanza che, in virtù della dichiarazione, si era stabilita tra la Gran Bretagna ed il movimento sionista poneva agli americani un interrogativo cruciale: «[...] Come opporsi al colonialismo e contemporaneamente sostenere il national home ebraico?». Perché la tradizione politica americana e la stessa politica di Wilson erano in antitesi con il colonialismo europeo e perciò la Dichiarazione Balfour, al di là del sincero sentimento pro-sionista di Lord Balfour e di Lloyd George, “puzzava” di progetto coloniale britannico nel Medio Oriente. Una contraddizione che si ripeterà, con esiti negativi per l’alleanza occidentale, a proposito della crisi di Suez del 1956. Tuttavia, la formazione culturale e religiosa di Wilson ebbero, alla fine, la meglio, perché il Presidente americano si riteneva «[...] destinato a facilitare quella riunificazione [del popolo ebraico in Eretz Israel]».

Gli Usa dalla parte di Israele
Gli anni tra le due guerre e le presidenze Roosevelt negli anni della seconda guerra mondiale videro un sempre più intenso interesse americano verso il Medio Oriente su almeno tre problematiche: il sionismo, il petrolio, il nazionalismo arabo. Se ufficialmente Washington mantenne un atteggiamento di non coinvolgimento verso la questione mediorientale, delegandola all’alleato britannico, nei fatti non poteva chiudere gli occhi di fronte ad una realtà geopolitica che avrebbe rivestito un’enorme importanza per tutto il secondo dopoguerra. Per di più, dopo la fine della guerra, la pressione sovietica sul Medio Oriente, unita al ritiro della Gran Bretagna dal mandato sulla Palestina ed al complessivo indebolimento britannico nel Medio Oriente, impose agli Stati Uniti un impegno crescente.

Tale impegno – per sviluppare il ragionamento di Oren – rappresentò un misto di idealismo e di realismo, tipico della tradizione della politica estera americana e, in particolare, della visione che del mondo mediorientale avevano gli americani. Innanzitutto, un settore significativo del mondo politico americano vedeva nella nascita di uno Stato ebraico in Palestina un’occasione irripetibile per lo sviluppo dell’intera regione; lo Stato ebraico, figlio della nuova nazione cristiana d’Oltreatlantico come riconoscimento del lascito di spiritualità che l’ebraismo aveva donato alla cristianità, avrebbe avuto il compito di incivilire il mondo arabo e renderlo compatibile con i valori dell’Occidente. Un secondo settore, facente capo prevalentemente al dipartimento di Stato, era contrario alla nascita di uno Stato ebraico nel Medio Oriente arabo, perché l’interesse di Washington avrebbe dovuto tendere, da una parte, al controllo delle risorse energetiche della regione e, dall’altra, a sviluppare il nazionalismo arabo in funzione anti-sovietica. Comunque, gli Stati Uniti sperarono sino all’ultimo che Londra fosse in grado di gestire la situazione in Palestina, per quanto la Gran Bretagna si fosse da tempo resa conto che l’immigrazione ebraica, garantita dalla Dichiarazione Balfour, fosse inconciliabile con l’antagonismo arabo, o meglio con le posizioni di quella parte del mondo arabo oltranzista, che per motivi religiosi o di potere non gradivano la presenza di una comunità ebraica portatrice di una modernità inconciliabile con gli assetti tradizionali del mondo arabo. Così, ritiratasi la Gran Bretagna dal ginepraio palestinese, afferma Oren, «[...] gli Stati Uniti cominciarono a trovarsi automaticamente incastrati, contro la loro volontà e contro la politica che essi avevano stabilito, nel pantano arabo-ebraico».

In realtà, se molti a Washington avevano sperato che Londra continuasse a tenere le proprie posizioni nel Medio Oriente, non si può negare che la tradizione politica americana e la stessa cultura religiosa prevalente negli Stati Uniti avessero un fortissimo legame con l’eredità ebraica. Questo è un dato di fatto che è impossibile nascondere. In fondo Truman, nel dare il via libera al piano di spartizione delle Nazioni Unite del 29 novembre 1947 e nel riconoscere lo Stato di Israele nel 1948, non fece altro che dare voce al sentimento prevalente nell’opinione pubblica americana, oltre che puntare ad un assetto politico del Medio Oriente in cui lo Stato ebraico avrebbe dovuto svolgere un ruolo importante nel contrasto alla penetrazione sovietica nella regione. Quindi, la conclusione di Oren coglie il vero, quando afferma che il coinvolgimento degli Stati Uniti nel Medio Oriente, dopo la fine della seconda guerra mondiale, fu certamente «permanente e profondo», ma non fu soltanto l’esito del loro impegno durante il conflitto, ma di una lunga tradizione culturale che si sentiva indissolubilmente legata alla sua matrice giudaica, oltre che di considerazioni geopolitiche emerse nei primi anni della presidenza Truman.

Giustamente Oren sottolinea come gli Stati Uniti siano emersi dalla seconda guerra mondiale come la più grande potenza presente nel Medio Oriente, «[...] non un impero nel significato formale del termine, ma comunque egemone, un colosso militare ed economico in grado di difendere i confini della regione [...]. Gli Stati Uniti hanno acquisito questo dominio in un tempo incredibilmente breve, durante il quale gli americani si sono trasformati da osservatori passivi degli affari del Medio Oriente nei principali architetti ed arbitri della regione». Certo, il contributo che gli Stati Uniti hanno dato alla nascita di Israele ha complicato non poco la loro politica mediorientale. Tuttavia, il bilancio complessivo che si può trarre a tutt’oggi non può prescindere da alcuni dati di fatto. In primo luogo, la diplomazia americana, per tutti gli anni della guerra fredda, ha elaborato e messo in pratica una strategia che ha impedito che l’Unione Sovietica esercitasse la propria egemonia nella regione. In secondo luogo, per quanto la creazione di Israele abbia prodotto molte guerre con gli arabi, essa ha rappresentato un punto fermo della politica americana nel Medio Oriente: gli Stati Uniti, anche se non sempre con coerenza, sono stati dalla parte di Israele, riconoscendo nello Stato ebraico uno strategic asset della loro politica mediorientale. Ciò ha provocato l’ostilità dei paesi arabi, ma nello stesso tempo la presenza di Israele ed il sostegno americano hanno rappresentato un limite invalicabile per le aspirazioni delle dittature arabe e per le mire egemoniche dell’Unione Sovietica.

La storia delle relazioni degli Stati Uniti con il Medio Oriente, in definitiva, può essere sintetizzata nell’aspirazione di una grande nazione dell’Occidente cristiano di modellare il Medio Oriente arabo secondo i principi della democrazia, giudicata un valore universale cui tutti gli esseri umani tendono. Gli Stati Uniti si sono posti come i portatori di questo messaggio, come gli alfieri della libertà là dove la libertà è negata, di una pax americana – per usare l’espressione di Oren – interpretata come una pax di valore universale. Un progetto irto di enormi difficoltà, cui tuttavia ancor oggi non rinunciano, nonostante errori ed incertezze: «Usando responsabilmente la propria forza e tenendo ben fermi i propri principi, gli Stati Uniti possono ancora trasformare la loro visione di relazioni pacifiche e fruttuose con il Medio Oriente da fantasia in realtà».

 

Note
1.       Michael B. Oren, Power, Faith, and Fantasy: America in the Middle East, 1776 to the Present, Norton, New York, 2007.
2.       Thomas A. Bryson, American Diplomatic Relations with the Middle East, 1784-1975: A Survey, Metuchen, The Scarecrow Press, N.J., 1977, p. 8.
3.       Robert Kagan, Dangerous Nation, New York, Alfred A. Knopf, 2006, p. 97.
4.       Giuliana Iurlano, Sion in America. Idee, progetti, movimenti per uno Stato ebraico, 1654-1917, Le Lettere, Firenze, 2004.
5.       Peter Grose, Israel in the Mind of America, Alfred A. Knopf, New York, 1983.

 

 



Antonio Donno, docente di Storia dell'America del Nord all'Università di Lecce.

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