A poco più di un quindicennio dalla
Dichiarazione d’Indipendenza, nel 1801, il presidente americano Thomas
Jefferson dichiarava guerra ai Barbary States, quegli Stati arabi del Nord
Africa, nominalmente sotto la sovranità dell’Impero Ottomano, ma di fatto
indipendenti, che foraggiavano le scorrerie dei pirati arabi nel
Mediterraneo a danno dei commerci delle potenze occidentali e degli stessi
Stati Uniti. Così, già agli inizi dell’Ottocento, gli Stati Uniti si
trovarono in opposizione al mondo arabo, per il semplice motivo che i loro
interessi commerciali e politici si andavano incrementando nel bacino del
Mediterraneo e in Medio Oriente; e la reazione militare americana di quel
momento può essere considerata paradigmatica di come gli Stati Uniti
avrebbero reagito nel futuro di fronte alla minaccia ai propri interessi e
sicurezza da parte del mondo arabo. Questo è uno dei punti fermi del recente
libro di Michael B. Oren dedicato alla storia della politica mediorientale
degli Stati Uniti.[1]
Che Washington avesse in progetto di allargare il proprio raggio d’azione in
quell’area non deve stupire. Tutti gli scritti dei Founding Fathers
americani immaginavano il futuro del proprio paese come un futuro da grande
potenza, in grado di soppiantare il potere globale delle grandi potenze
europee. I princìpi-cardine della politica commerciale americana nel
Mediterraneo e nel Medio Oriente possono essere così definiti:
non-coinvolgimento negli affari politici delle potenze europee nell’area,
Open Door, libertà di navigazione, tutela dell’interesse nazionale. Ma,
nello stesso tempo, Washington riconosceva il diritto di auto-determinazione
dei popoli soggetti al dominio ottomano. Quest’ultimo si rivelerà un
principio politico di enorme importanza per la futura politica americana
verso il Medio Oriente islamico. In particolare, nella sua autobiografia,
Jefferson alludeva, per la prima volta nella storia della politica americana
verso il mondo arabo, alla possibilità che la nuova nazione, nata al di là
dell’Atlantico, potesse “esportare” alcuni valori di civiltà presso gli
arabi, «per modificare le loro abitudini da popolazione predona a
popolazione dedita all’agricoltura [...]». Questa guerra a bassa intensità
contro i Barbary States si protrasse fino al 1815 e si concluse
positivamente per Washington, permettendo nuovamente agli uomini d’affari ed
ai missionari americani di riprendere le loro attività che consistevano
indirettamente anche «[...] nel diffondere le idee del repubblicanesimo sino
alle più lontane lande del Mediterraneo».[2]
Si può dire che la conclusione di quel confronto con il mondo arabo
dimostrò, già nei primi anni di vita della Repubblica americana, che gli
Stati Uniti erano pronti, per quanto talvolta in modo riluttante, a far uso
della potenza militare come prova della forza del proprio nazionalismo in
espansione. Il quale, precisa Oren, aveva, agli occhi degli americani, una
funzione universale: quella di liberare i popoli dalla tirannia, dalla
povertà, dalla degradazione. Il Medio Oriente arabo fu, perciò, un ottimo
banco di prova per la missione liberale della Repubblica americana fin dagli
inizi della sua presenza nella regione. Questa missione, nel caso del Medio
Oriente arabo, era rafforzata, sin dal momento dell’indipendenza, dal
sospetto e dall’ostilità degli americani verso l’Islam che John Quincy Adams
definì senza mezzi termini una religione «fanatica e fraudolenta», perché
fondata «sull’odio naturale dei musulmani verso gli infedeli».
In realtà, come si è detto, la profonda diffidenza degli americani era
dovuta all’attività violenta dei pirati arabi foraggiati dai Barbary States.
Oren racconta che John Adams e Thomas Jefferson chiesero al Pasha di Tripoli
di metter fine a tali soprusi, ma l’emissario del Pasha rispose che il
Corano conferiva agli islamici «il diritto ed il dovere di portare guerra» a
qualsiasi infedele «che essi dovessero incontrare e di trarre in schiavitù
tutti coloro che fossero fatti prigionieri». George Washington, incollerito,
affermò: «Voglia il Cielo che noi si possa avere una Marina in grado di
rendere umani questi nemici o di annichilirli». Così, il Congresso varò una
legge apposita per la creazione della Marina americana; e, nel 1801,
Jefferson, tradizionalmente ritenuto idealista, pacifista ed isolazionista,
mosse guerra ai Barbary States, «una versione ottocentesca degli “Stati
canaglia”».[3]
Le lande più lontane del Mediterraneo erano quelle occupate dagli ottomani
islamici e, in particolare, quelle delle popolazioni non islamiche soggette
all’Impero Ottomano. In sostanza, considerata alla luce degli eventi
successivi, l’affermazione di Jefferson, per quanto stringata, ribadiva il
ruolo messianico della nuova nazione d’Oltreatlantico nel favorire la
diffusione delle idee di libertà sulle sponde del mare che aveva visto
sorgere la civiltà umana: il libero commercio, la libera circolazione delle
persone e delle loro idee – e il ruolo che in questa azione erano
“destinati” ad avere gli americani (Oren utilizza l’espressione “Manifest
Middle Eastern Destiny”) – avrebbero potuto consentire un processo di
adeguamento dei popoli islamici ai benefici della civiltà liberale di marca
americana e la liberazione di quei popoli cristiani che erano soggetti alla
Sublime Porta turca. In questo consisteva, per riprendere un concetto
fondamentale del libro di Robert Kagan, l’eccezionalismo americano, eredità
dell’eccezionalismo della madrepatria inglese (il liberalismo) ed
avanguardia di quest’ultimo nel Nuovo Mondo: essere portatore di una
superiorità razziale e culturale, derivata in parte dalla superiorità del
Protestantesimo, in parte dalla “perfezione” delle istituzioni politiche
inglesi. In definitiva, la missione espansionistica americana poggiava non
solo sulla ricerca della sicurezza per la nuova nazione, ma sulla
convinzione di servire un fine più alto, rappresentato dal destino
anglosassone di condurre l’umanità verso lidi più felici, cioè verso la
libertà. Ecco perché, secondo l’interpretazione di Kagan, gli Stati Uniti
furono, fin dagli inizi, una nazione “pericolosa”.
Fu per questo motivo che l’opinione pubblica americana e lo stesso governo
del quinto presidente degli Stati Uniti, James Monroe, insieme con il suo
celebre segretario di Stato, John Quincy Adams, salutarono con entusiasmo la
rivoluzione della Grecia cristiana contro il giogo ottomano. In questa
circostanza, come in precedenza nella lotta contro i Barbary States, la
Santa Sede affermò che gli Stati Uniti facevano per la cristianità più di
quanto avessero fatto nei secoli passati le più potenti nazioni del mondo
cristiano: un’esagerazione che conteneva, però, un importante riconoscimento
del ruolo essenziale degli Stati Uniti nel bacino del Mediterraneo. In
effetti, già negli anni precedenti, Jefferson aveva proposto alle potenze
europee di costituire una lega internazionale per il controllo del
Mediterraneo, «con gli Stati Uniti a svolgere un ruolo preminente», afferma
Kagan in un significativo passaggio del suo libro a proposito della volontà
americana di acquisire una posizione centrale nel sistema politico
internazionale di quel tempo.
La rivolta greca del 1821 riaccese negli americani la mai sopita
consapevolezza di essere i veri eredi dei lumi dell’antica democrazia greca.
Il filo-ellenismo americano di quegli anni si nutrì non solo del disprezzo
verso l’odiosa tirannia ottomana – bollata da Alexander Hamilton, nel
Federalist n. 30 del 28 dicembre 1787, come «[...] padrona assoluta delle
vite e delle fortune del suoi sudditi» – e dell’entusiasmo per quella che
gli americani consideravano una sorta di replica storica della propria lotta
per l’indipendenza, ma soprattutto della consapevolezza che i greci
cristiani stessero combattendo una feroce lotta per la sopravvivenza contro
i turchi islamici, un aspetto cruciale dell’eterna lotta tra il Bene ed il
Male. Nella famosa dottrina, proclamata da Monroe il 2 dicembre 1823, il
presidente americano ribadiva la continuità della politica di Washington di
non-coinvolgimento negli affari europei, ma esprimeva anche la certezza che
la Grecia sarebbe «[...] divenuta nuovamente una nazione indipendente».
Strenua difesa dell’interesse nazionale, cautela nei rapporti con le potenze
europee ed idealismo si compendiavano nella politica americana verso il
Mediterraneo e il Medio Oriente.
Nonostante la cautela messa in atto dai politici, sostiene Oren, ed al di là
delle visioni esotiche del Medio Oriente largamente diffuse nell’immaginario
americano, l’opinione pubblica del paese si atteggiò in tre modi verso il
Medio Oriente arabo: in primo luogo, l’America sentiva il compito di
trasformare il mondo arabo ed islamico sul piano politico, spirituale ed
economico, al fine di renderlo conforme ai principi liberali e cristiani; in
secondo luogo, sin dai tempi dei puritani, molti americani erano
ossessionati dall’idea di restaurare in Palestina l’antica patria ebraica;
infine, sin dall’epoca coloniale, la maggior parte degli americani vedevano
nel Medio Oriente arabo il regno della violenza e della barbarie. Secondo
Oren, questi tre atteggiamenti hanno caratterizzato la politica americana
verso la regione sino ad oggi.
La diffusione del vangelo dell’americanismo
Per tutto il diciannovesimo secolo la conoscenza del Medio Oriente islamico
fu affidata all’opera dei missionari protestanti: un capitolo importante
nella storia dell’approccio americano al mondo arabo ed islamico. Il
concetto prevalente sull’Islam era che si trattasse di una religione «nata
dalla spada», «nemica della ragione» e votata a distruggere «ogni
indipendenza di pensiero e di azione», come riferì un ufficiale americano in
visita in Egitto. In particolare, racconta Oren, gli americani trovavano
sconcertante la condizione della donna nel mondo islamico; di qui l’impegno
dei missionari per portare gli islamici al cristianesimo, un impegno di tipo
religioso in massima parte fallito, ma che presto prese una strada ben più
efficace, la diffusione del “Vangelo dell’americanismo”: liberalismo,
tecnologia, democrazia. In definitiva, da quel momento in poi, accanto
all’azione politica, furono questi gli strumenti principali della
penetrazione americana nel Medio Oriente islamico. I missionari protestanti
americani aprirono scuole e ospedali, facendosi interpreti di
quell’idealismo che ha sempre caratterizzato il ruolo degli Stati Uniti
nella politica internazionale. Proprio sulla scorta di questa
considerazione, Michael Oren, in una recente intervista, ha affermato che, a
partire dalla nascita della Repubblica, gli americani vedono «il Medio
Oriente come una sorta di specchio. Guardano il Medio Oriente, ma non vedono
il Medio Oriente, non vedono una civiltà diversa, vedono l’America. Questa
gente è come gli americani, questo posto è come il New Jersey, tutto quello
che dobbiamo fare è darle un pizzicotto e tutto sarà ok». Ma l’esempio del
Medio Oriente ci serve per interpretare il ruolo degli Stati Uniti nel mondo
ed il significato della loro civiltà, del loro idealismo.
Nonostante l’intensa attività dei missionari protestanti americani –
attività religiosa ma implicitamente anche di diffusione del modello
americano, in senso lato, in alcune aree del Medio Oriente – la politica di
Washington si attenne, per tutto l’Ottocento e sino allo scoppio della prima
guerra mondiale, al principio di non-ingerenza negli affari dell’Impero
Ottomano, ma in particolare negli interessi delle potenze europee nel
Mediterraneo, secondo la formulazione della dottrina di Monroe del 1823. Con
tale cauta politica gli Stati Uniti pretendevano la non-ingerenza europea
nell’emisfero americano. Come ben mette in rilievo Oren, la presenza
americana nel Mediterraneo rispondeva ai canoni di una geopolitica accorta,
per quanto l’opinione pubblica spesso prendesse posizione su determinati
avvenimenti della regione, sulla spinta di motivazioni umanitarie che
potevano mettere in difficoltà la cauta politica dei policymakers di
Washington. Per esempio, la questione armena, dopo quella greca, suscitò
un’ondata di indignazione a causa degli orrendi massacri perpetrati dai
turchi nei confronti di un popolo cristiano. Questo sarà, sul piano
culturale, un nodo cruciale che verrà al pettine alla fine del secolo,
quando il movimento sionista, nato in Europa e poi radicatosi negli Stati
Uniti, farà emergere presso l’opinione pubblica, e questa volta anche nel
mondo politico americano, il problema del ritorno del popolo ebraico nella
sua antica patria, come compimento della profezia di Ezechiele e di
conseguenza come riscatto, ad opera della nuova nazione cristiana, della
cultura giudaico-cristiana nei confronti dell’Islam.[4]
Le ragioni della cautela geopolitica saranno affiancate e talora messe in
ombra da un potente sentimento di appartenenza che darà il titolo ad un noto
libro apparso negli Stati Uniti nel 1983.[5]
In un’altra delle numerose interviste che Oren ha rilasciato a proposito del
suo nuovo libro, l’autore ha affermato che «l’idea di America e l’idea di
uno Stato ebraico sono molto strettamente connesse. Ci riportano al tempo
dei puritani che concepivano se stessi come i nuovi ebrei ed il Nuovo Mondo
come la Nuova Canaan. [...] Da quel momento, molti protestanti hanno
considerato come loro dovere religioso e nazionale aiutare a realizzare la
promessa divina di salvare gli ebrei dall’esilio e di riportarli nella
patria ancestrale». Oren fa un riferimento assai significativo: nel 1844 fu
pubblicato negli Stati Uniti un libro che divenne famoso, dal titolo The
Valley of Visions, in cui l’autore esortava gli Stati Uniti a porsi
all’avanguardia del progetto di ricostruzione di uno Stato ebraico in
Palestina. L’autore del libro era il direttore del dipartimento di Studi
Biblici della New York University: il suo nome era George Bush, antenato dei
due successivi presidenti degli Stati Uniti. Si potrebbe aggiungere che
questo legame storico, religioso, culturale condizionò in modo decisivo
l’approccio americano alle questioni mediorientali fin dalla nascita della
Repubblica americana, che spesso si autodefinì la “nuova Sion”, la “nuova
Gerusalemme”. L’impatto del mondo evangelico – con il suo esclusivo
riferimento alla Bibbia ebraica – sulla vita sociale coloniale e
successivamente statale costituì quel potente background culturale che porrà
sempre Israele in the mind of America.
Quando il movimento sionista si consolidò, non senza contrasti interni,
nella società americana, la questione della ricostruzione di una patria
ebraica in Palestina divenne una questione permanente nella politica
americana, intrecciandosi, però, con i crescenti interessi americani verso
il petrolio arabo (ma questo solo agli inizi degli anni Venti) ed entrando
in conflitto con le pretese imperialistiche britanniche nei confronti del
Medio Oriente. In sostanza, Wilson era favorevole alla ricostruzione di una
national home ebraica in Palestina, ma la famosa Dichiarazione Balfour del 2
novembre 1917 non lo convinceva del tutto: come giustamente afferma Oren, la
stretta alleanza che, in virtù della dichiarazione, si era stabilita tra la
Gran Bretagna ed il movimento sionista poneva agli americani un
interrogativo cruciale: «[...] Come opporsi al colonialismo e
contemporaneamente sostenere il national home ebraico?». Perché la
tradizione politica americana e la stessa politica di Wilson erano in
antitesi con il colonialismo europeo e perciò la Dichiarazione Balfour, al
di là del sincero sentimento pro-sionista di Lord Balfour e di Lloyd George,
“puzzava” di progetto coloniale britannico nel Medio Oriente. Una
contraddizione che si ripeterà, con esiti negativi per l’alleanza
occidentale, a proposito della crisi di Suez del 1956. Tuttavia, la
formazione culturale e religiosa di Wilson ebbero, alla fine, la meglio,
perché il Presidente americano si riteneva «[...] destinato a facilitare
quella riunificazione [del popolo ebraico in Eretz Israel]».
Gli Usa dalla parte di Israele
Gli anni tra le due guerre e le presidenze Roosevelt negli anni della
seconda guerra mondiale videro un sempre più intenso interesse americano
verso il Medio Oriente su almeno tre problematiche: il sionismo, il
petrolio, il nazionalismo arabo. Se ufficialmente Washington mantenne un
atteggiamento di non coinvolgimento verso la questione mediorientale,
delegandola all’alleato britannico, nei fatti non poteva chiudere gli occhi
di fronte ad una realtà geopolitica che avrebbe rivestito un’enorme
importanza per tutto il secondo dopoguerra. Per di più, dopo la fine della
guerra, la pressione sovietica sul Medio Oriente, unita al ritiro della Gran
Bretagna dal mandato sulla Palestina ed al complessivo indebolimento
britannico nel Medio Oriente, impose agli Stati Uniti un impegno crescente.
Tale impegno – per sviluppare il ragionamento di Oren – rappresentò un misto
di idealismo e di realismo, tipico della tradizione della politica estera
americana e, in particolare, della visione che del mondo mediorientale
avevano gli americani. Innanzitutto, un settore significativo del mondo
politico americano vedeva nella nascita di uno Stato ebraico in Palestina
un’occasione irripetibile per lo sviluppo dell’intera regione; lo Stato
ebraico, figlio della nuova nazione cristiana d’Oltreatlantico come
riconoscimento del lascito di spiritualità che l’ebraismo aveva donato alla
cristianità, avrebbe avuto il compito di incivilire il mondo arabo e
renderlo compatibile con i valori dell’Occidente. Un secondo settore,
facente capo prevalentemente al dipartimento di Stato, era contrario alla
nascita di uno Stato ebraico nel Medio Oriente arabo, perché l’interesse di
Washington avrebbe dovuto tendere, da una parte, al controllo delle risorse
energetiche della regione e, dall’altra, a sviluppare il nazionalismo arabo
in funzione anti-sovietica. Comunque, gli Stati Uniti sperarono sino
all’ultimo che Londra fosse in grado di gestire la situazione in Palestina,
per quanto la Gran Bretagna si fosse da tempo resa conto che l’immigrazione
ebraica, garantita dalla Dichiarazione Balfour, fosse inconciliabile con
l’antagonismo arabo, o meglio con le posizioni di quella parte del mondo
arabo oltranzista, che per motivi religiosi o di potere non gradivano la
presenza di una comunità ebraica portatrice di una modernità inconciliabile
con gli assetti tradizionali del mondo arabo. Così, ritiratasi la Gran
Bretagna dal ginepraio palestinese, afferma Oren, «[...] gli Stati Uniti
cominciarono a trovarsi automaticamente incastrati, contro la loro volontà e
contro la politica che essi avevano stabilito, nel pantano arabo-ebraico».
In realtà, se molti a Washington avevano sperato che Londra continuasse a
tenere le proprie posizioni nel Medio Oriente, non si può negare che la
tradizione politica americana e la stessa cultura religiosa prevalente negli
Stati Uniti avessero un fortissimo legame con l’eredità ebraica. Questo è un
dato di fatto che è impossibile nascondere. In fondo Truman, nel dare il via
libera al piano di spartizione delle Nazioni Unite del 29 novembre 1947 e
nel riconoscere lo Stato di Israele nel 1948, non fece altro che dare voce
al sentimento prevalente nell’opinione pubblica americana, oltre che puntare
ad un assetto politico del Medio Oriente in cui lo Stato ebraico avrebbe
dovuto svolgere un ruolo importante nel contrasto alla penetrazione
sovietica nella regione. Quindi, la conclusione di Oren coglie il vero,
quando afferma che il coinvolgimento degli Stati Uniti nel Medio Oriente,
dopo la fine della seconda guerra mondiale, fu certamente «permanente e
profondo», ma non fu soltanto l’esito del loro impegno durante il conflitto,
ma di una lunga tradizione culturale che si sentiva indissolubilmente legata
alla sua matrice giudaica, oltre che di considerazioni geopolitiche emerse
nei primi anni della presidenza Truman.
Giustamente Oren sottolinea come gli Stati Uniti siano emersi dalla seconda
guerra mondiale come la più grande potenza presente nel Medio Oriente,
«[...] non un impero nel significato formale del termine, ma comunque
egemone, un colosso militare ed economico in grado di difendere i confini
della regione [...]. Gli Stati Uniti hanno acquisito questo dominio in un
tempo incredibilmente breve, durante il quale gli americani si sono
trasformati da osservatori passivi degli affari del Medio Oriente nei
principali architetti ed arbitri della regione». Certo, il contributo che
gli Stati Uniti hanno dato alla nascita di Israele ha complicato non poco la
loro politica mediorientale. Tuttavia, il bilancio complessivo che si può
trarre a tutt’oggi non può prescindere da alcuni dati di fatto. In primo
luogo, la diplomazia americana, per tutti gli anni della guerra fredda, ha
elaborato e messo in pratica una strategia che ha impedito che l’Unione
Sovietica esercitasse la propria egemonia nella regione. In secondo luogo,
per quanto la creazione di Israele abbia prodotto molte guerre con gli
arabi, essa ha rappresentato un punto fermo della politica americana nel
Medio Oriente: gli Stati Uniti, anche se non sempre con coerenza, sono stati
dalla parte di Israele, riconoscendo nello Stato ebraico uno strategic asset
della loro politica mediorientale. Ciò ha provocato l’ostilità dei paesi
arabi, ma nello stesso tempo la presenza di Israele ed il sostegno americano
hanno rappresentato un limite invalicabile per le aspirazioni delle
dittature arabe e per le mire egemoniche dell’Unione Sovietica.
La storia delle relazioni degli Stati Uniti con il Medio Oriente, in
definitiva, può essere sintetizzata nell’aspirazione di una grande nazione
dell’Occidente cristiano di modellare il Medio Oriente arabo secondo i
principi della democrazia, giudicata un valore universale cui tutti gli
esseri umani tendono. Gli Stati Uniti si sono posti come i portatori di
questo messaggio, come gli alfieri della libertà là dove la libertà è
negata, di una pax americana – per usare l’espressione di Oren –
interpretata come una pax di valore universale. Un progetto irto di enormi
difficoltà, cui tuttavia ancor oggi non rinunciano, nonostante errori ed
incertezze: «Usando responsabilmente la propria forza e tenendo ben fermi i
propri principi, gli Stati Uniti possono ancora trasformare la loro visione
di relazioni pacifiche e fruttuose con il Medio Oriente da fantasia in
realtà».
Note
1. Michael B. Oren, Power, Faith, and Fantasy: America in the Middle
East, 1776 to the Present, Norton, New York, 2007.
2. Thomas A. Bryson, American Diplomatic Relations with the Middle
East, 1784-1975: A Survey, Metuchen, The Scarecrow Press, N.J., 1977, p. 8.
3. Robert Kagan, Dangerous Nation, New York, Alfred A. Knopf, 2006, p.
97.
4. Giuliana Iurlano, Sion
in America. Idee, progetti, movimenti per uno Stato ebraico, 1654-1917, Le
Lettere, Firenze, 2004.
5. Peter Grose, Israel in the Mind of America, Alfred A. Knopf, New
York, 1983.
Antonio Donno, docente di Storia dell'America del Nord all'Università di
Lecce.
(c)
Ideazione.com (2006)
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