La sfida delle due France vista dalla periferia
di Jean-Pierre Darnis
Ideazione di
marzo-aprile 2007

In questo inizio di 2007, mentre il frastuono delle opposizioni personali della campagna elettorale per le presidenziali francesi sta riempiendo tutto lo spazio mediatico, vale la pena di cercare di fotografare il paese che andrà a votare ad aprile, frugando anche nelle pieghe del territorio.

La prima cesura è quella tradizionale del divario fra Parigi e il resto del territorio, la cosiddetta “provincia”, come la chiamano i francesi. Megalopoli moderna da una parte, hic sunt leones dall’altra? La contrapposizione non funziona più in questi termini. La Francia da decenni ha collegato fra di loro le maggiori città con l’alta velocità e questo ha provocato una serie di evoluzioni colossali. Esiste ormai un respiro quotidiano fra Parigi e le regioni con migliaia di persone che vanno e vengono al ritmo dei tgv. Il simbolo di quest’integrazione è stata Lione, la prima città diventata periferia di Parigi, che ha guadagnato efficienza perdendo anche una sua identità. Ormai poche città rimangono fuori dal cono d’ombra di questa immediatezza del trasporto, come Nizza o Tolosa collegate essenzialmente via aereo. Per il resto si procede ormai con il treno veloce e quindi abbiamo l’estensione di un super-modello territoriale che ridefinisce la geografia francese, con l’insieme dei territori della metà settentrionale della Francia che sembrano svilupparsi di concerto, diventando di fatto un’unica periferia, un fattore al quale contribuisce anche lo sviluppo delle reti informatiche e della televisione digitale terrestre che stanno rafforzando la coerenza del territorio.

Tuttavia, sebbene la Francia sembri oggi molto omogenea, la capitale mantiene una differenza. Non si tratta più di una vera e propria sociologia parigina, ma piuttosto di un certo tipo di potere che viene esercitato quasi unicamente nella capitale: il potere nazionale, potere politico, amministrativo e quindi economico, ma anche potere culturale. Parigi è il luogo dove ha sede l’amministrazione centrale, la testa del settore pubblico francese, il che significa non soltanto un’incredibile concentrazione di potere ma anche l’esistenza di una casta di scribi, dedicati a fare funzionare la macchina amministrativa oppure a lavorare nelle aziende ad essa collegate, dopo aver seguito alcuni dei ristretti filoni che definiscono l’élite francese. Parigi quindi, capitale politica e culturale, ma anche città in profonda trasformazione, con un centro che tende sempre di più a diventare agiato anche se non “borghese” nel senso classico del termine, che assiste ad esempio alla crescita della presenza della comunità omosessuale, offre un volto meno omogeneo del resto del territorio. Queste dinamiche contraddittorie fanno la ricchezza e mantengono intatto il fascino di una metropoli universale, di una vera capitale, ma fanno anche sì che il microcosmo parigino, pur importante quantitativamente, rimanga confinato nei suoi dibattiti spesso slegati a quelli che si svolgono nel resto del paese. Ad esempio al referendum sul Trattato europeo Parigi ha votato “sì” senza accorgersi della crescita dei contrari e senza capirne le ragioni.

Nell’odierno contesto pre-elettorale, Parigi offre l’ulteriore particolarità di essere diventata un maelstrom mediatico. Come nell’insieme dei paesi occidentali, l’immediatezza dell’informazione proveniente dai media provoca una crescita esponenziale della comunicazione. Inoltre in Francia la recente creazione di ben 18 canali digitali gratuiti porta a un’ulteriore inflazione di commenti immediati a proposito di qualsiasi esternazione di uno o l’altro dei candidati. La Parigi mediatica assomiglia a una pentola a pressione nella quale ogni dichiarazione viene enfatizzata dal sistema e contribuisce a fare salire la tensione. Così si dà in pasto all’insieme degli osservatori un continuo di frasi e di sondaggi, contribuendo all’impressione di drammaticità, che però è artificiale.

Parigi, come detto, è il luogo del potere centrale, un concetto ben radicato nella storia dello Stato francese. Qui vi è una casta di potere politico che tende ad autoriprodursi imponendo una barriera nei meccanismi selettivi fin dall’entrata. A far parte di questa élite estremamente ridotta, basata sul merito ci si avvia già in età scolare, fra i 17 e i 21 anni (la possibilità di integrare le scuole di preparazione con i concorsi per l’amministrazione pubblica dipende dal voto della maturità; il risultato stesso di questi concorsi stabilisce il grado del giovane diplomato). Una selezione dura, che però oggi presenta un grave svantaggio: quello di non permettere alle classi meno agiate di accedere alle funzioni più alte, anche perché sono saltati i meccanismi che permettevano di pescare elementi veramente brillanti nelle classi modeste per trascinarli verso l’alto. Questo perché dopo il ’68 si è pensato a torto a un sistema di uguaglianza che partisse dal liceo, mentre il vero problema è di fare arrivare fino al liceo gli alunni di ambienti sociali disagiati.

Le reti del potere amministrativo, politico ed economico si costituiscono intorno all’ena, la scuola nazionale di amministrazione, oppure ad altre istituzioni elitarie come la scuola militare politecnica. Si comincia con l’appartenenza a un “corpo” dell’amministrazione, un ramo dell’amministrazione centrale che viene definito dalla graduatoria all’uscita di queste scuole e nel quale il funzionario viene collocato per tutta la vita. Poi si prosegue nella carriera, spesso con un investimento nella politica che avviene in modo indiretto, lavorando ad esempio nel gabinetto di un ministro che prende sotto la sua ala un brillante collaboratore per traghettarlo nella rete politica, a volte proponendone la discesa in campo con una candidatura ad elezioni locali. Questo modo di selezione ha certamente dei pregi, quelli ad esempio dell’altissima capacità tecnica dei politici usciti della fucina dell’ena, ma anche enormi difetti, non permettendo l’espressione di rappresentanze politiche cresciute sul territorio, più legate alle comunità locali. E questo punto diventa fondamentale in un contesto di forte tensione sociale nelle periferie.

L’immigrazione oltre le banlieues
Subito accanto alla capitale, appena si varca la soglia delle mura della città, cominciano le periferie, per la maggior parte hinterland di media borghesia un po’ noiose, ma anche luoghi attraversati da spinte violente. Si tratta di famiglie di origine straniera con difficoltà nel conciliare l’appartenenza comunitaria e la cittadinanza francese, con problemi intergenerazionali fra figli e padri, e di dinamiche di integrazione delle donne. Queste sono tradizionalmente più impegnate nello studio e aperte ai matrimoni misti, mentre gli uomini sembrano inchiodati alla loro infausta casella di partenza. Si tratta del classico spettacolo di schiere di palazzi, frutto delle necessità dell’urbanizzazione degli anni ’60 e ’70: un abitato molto concentrato dove la coesione sociale è fortemente intaccata dalla disoccupazione e dai disagi dell’integrazione. Esiste in questi quartieri, non un rifiuto della società francese, bensí un desiderio, a volte violento, di integrarsi nel modello della vita agiata e del consumo, un modello largamente diffuso dalla televisione. Dopo le violenze del 2005, l’attenzione mediatica è scemata. Però i problemi rimangono e se ci sono risposte locali efficienti, mancano le risposte nazionali come mancano leader politici figli dell’immigrazione che possano dare un senso alla rappresentanza politica su questi territori.

In Francia, il problema delle periferie viene spesso associato a quello dell’immigrazione, una specie di visione basata sul connubio della mancata integrazione. Ma si tratta di un’interpretazione fuorviante, in quanto l’immigrazione in Francia è quasi sparita da decenni. Sono più o meno 300.000 gli stranieri che arrivano in Francia ogni anno, 200.000 legalmente e circa 100.000 clandestini, una goccia nell’oceano per una popolazione totale di più di 60 milioni di abitanti. Ma il sillogismo “immigrati-violenza-periferia” si è imposto nell’immaginario collettivo, quotidiana traduzione di visioni razziste che fanno del colore della pelle una causa delle problematiche della società. Questa classica percezione di ripiego ha sempre costituito una valvola di sfogo per le società in cerca di capri espiatori. Così in Francia il dibattito politico ha abusato demagogicamente del vecchio ritornello della paura dello straniero, sviluppando la tematica dell’ “insicurezza” e quindi della “sicurezza”, un leit-motiv degli ultimi due decenni. La categorizzazione dello straniero avviene anche quando si sviluppa una riflessione comunitarista sugli immigrati. Il comunitarismo è certamente un dato di fatto importante per le prime generazioni di immigrati, ma tende a diminuire fortemente per le seconde e terze generazioni che non hanno mai conosciuto il modello di origine dei loro genitori: sviluppano un’identità propria, che può anche nutrirsi di tradizioni estere, ma comunque reinterpretate seguendo modelli locali. Anche per i figli dell’immigrazione esiste un importante movimento di secolarizzazione che può esprimersi in un’apparente difesa del modello di origine rielaborato. Ed è tra l’altro per questo che l’approccio “interreligioso” per cercare di aprire canali fra le comunità dà pochi risultati in Francia, anche perché vengono a mancare le sponde del dialogo, fra secolarizzazione cattolica e secolarizzazione musulmana.

Paradossalmente, l’esplosione di violenza avvenuta nelle banlieues indica un cambio di paradigma: il problema della sicurezza passa da una dimensione paventata all’esplicita violenza che va trattata alla radice. E le cause di questa violenza sono ovvie per tutti, anche se complesse, e non possono essere curate con una semplice politica repressiva, di cui anzi si evidenziano i forti limiti. Anche se l’estrema destra e la destra usano ancora le tematiche della sicurezza e del controllo dei flussi migratori, l’agenda politica delle prossime presidenziali vede altre tematiche, come il lavoro e l’educazione, diventare prioritarie. La Francia, nazione chiusa e meticcia, deve assicurare l’accesso al benessere delle classi meno agiate, senza poter nemmeno contare sul dinamismo provocato dall’immigrazione, quando gli ultimi arrivati spingono gli altri. 

Francia e Europa, un rapporto conflittuale
Le frontiere ormai chiuse da decenni permettono anche di descrivere il rapporto della Francia con il mondo. La Francia ha nel suo patrimonio politico e sociale un particolare ruolo mondiale, che si esprime con politiche di potenza (dominio territoriale, neocolonialismo), con politiche culturali (la francofonia) e anche con l’internazionalismo ereditato dalla rivoluzione francese e dei lumi. Il ruolo della Francia sulla scacchiera mondiale è sempre il frutto di un compromesso fra queste tendenze trasversali alla società francese, il retaggio desueto ma reale di una politica di potenza nazionale e la visione di un particolare ruolo mondiale culturale e politico. L’indipendenza nazionale francese, che si esprime nel possesso dell’arma nucleare, è anche frutto di una particolare visione politica nella quale la ragione democratica del popolo francese non è seconda a nessuno, e quindi non deve chinare il capo di fronte a nessuno. Il nazionalismo francese è anche un’interpretazione della tradizione internazionalista.

Oggi queste tendenze si vengono a scontrare con la dimensione europea. La Francia sembra ripiegata su di sé e non riesce a conciliare la visione che ha di se stessa con l’Europa. Da una parte critica l’Europa per l’incompiutezza della sua democrazia, nel nome di un ideale democratico nazionale e universale nel quale sono fondamentali i meccanismi di rappresentanza democratica. Dall’altra la Francia cerca spesso di applicare all’Europa i suoi antidiluviani concetti di “potenza”, ovvero di riprodurre con l’Europa una capacità di intervento politico e militare più forte, l’Europa-potenza appunto, un progetto molto francese, che ben si addice alle visioni delle élite parigine. La complessità e la democrazia a macchia di leopardo che si stanno sviluppando in Europa non sono capite a Parigi che vorrebbe fare dell’Europa una nazione coerente quanto la Francia e quindi, in nome dell’assolutezza di questo ideale, blocca gli sviluppi concordati passo passo con i partner europei.

Ma i blocchi del nazionalismo francese nel suo contesto internazionale sono anche l’espressione di un sistema che funziona piuttosto bene al suo interno. La democrazia è solida, l’amministrazione efficace e c’è un reale benessere diffuso nella società, con una forte politica sociale e sanitaria. La Francia può a volte stupire per l’importanza che ricopre la sfera pubblica: le realizzazioni dello Stato e delle collettività pubbliche creano una serie di servizi per il cittadino che non sono contabilizzati nel reddito individuale ma fondano la competitività del territorio francese. Scuole, ospedali, asili nido, autostrade, rete di trasporti, teatri, impianti sportivi, ecco alcuni esempi fra i più eclatanti delle strutture che vengono create dal sistema pubblico e che procurano un reale benessere.

La via francese alla mondializzazione
I francesi sono spesso descritti dagli osservatori come stanchi della politica, stufi dei giochi dei partiti e della mancanza di cooperazione fra le forze politiche nell’affrontare le priorità del paese. Ma d’altro canto i francesi si impegnano in numerose associazioni, un formicaio di reti sociali, sportive, culturali, economiche che innervano l’insieme del territorio e illustrano bene l’impegno altruista di molti francesi. Il dibattito sulla povertà e sull’alloggio delle fasce disagiate dimostra questo impegno dei privati. C’è quindi un’ulteriore dicotomia fra le élite francesi e il territorio, quella che vede un territorio socialmente attivo, concreto, generoso, che si oppone a una sfera politica e parigina incapace di prendere le decisioni opportune anche perché troppo lontana dalla gente e invischiata nella centralità degli strumenti amministrativi. Si può quindi dire che in Francia esiste un’enorme produzione di servizi sociali e culturali che non viene contabilizzata perché espressione di un impegno disinteressato da parte dei cittadini.

Servizi sociali quindi, ma anche industria di alta tecnologia. Anche lì, nei territori francesi, molte aziende lavorano nei mercati aerospaziali e di difesa. E quello che colpisce di più dei tecnici francesi, è sia la loro bravura che la loro force tranquille. La Francia, paese moderno con industrie di primo piano a livello europeo e mondiale, fa crescere generazioni di ingegneri che hanno il gusto della tecnica. A Tolosa, la Mecca dell’aerospaziale francese e sede di Airbus, si racconta una storia significativa. Alcuni anni fa la Boeing, conscia del successo tecnologico di Airbus, mandò dei consulenti per reclutare ingegneri francesi da portare negli usa, nella speranza di poter acquisire risorse competitive. I consulenti del gigante di Seattle affittarono un intero palazzo nel centro di Tolosa e fecero più di mille interviste di reclutamento ad ingegneri locali, con tante offerte di lavoro economicamente molto vantaggiose. Risultato: uno solo accettò di andare negli Stati Uniti, dimostrando l’attaccamento anche a una certa qualità della vita fra mare e montagna, e il radicamento sul territorio. E questo può essere il simbolo dell’attuale “via francese” alla mondializzazione. La maggior parte delle imprese francesi è competitiva a livello mondiale, con personale specializzato che lavora quotidianamente in inglese. Ma rimane un particolare attaccamento al territorio e al modo di vita che stabilizza il personale delle aziende e ne rende anche difficile l’esportazione.

Il legame dei francesi con il territorio viene tradizionalmente espresso dal radicamento alla terra, una moderna espressione delle radici contadine del paese. Il mito del paese agricolo è sopravvissuto fino a oggi, mentre i sindacati dei coltivatori sono sempre potentissime lobby e il sistema elettorale favorisce le zone di campagna, non tenendo conto delle modifiche demografiche che hanno portato la gente a vivere nelle città. Perché in Francia bisogna amare la campagna, il cibo, l’agricoltura, difendere le produzioni locali, insomma battersi per la verità dei valori espressi dalla terra. Soltanto in un paese misticamente rurale come la Francia è esistito per decenni il partito dei “possessori di alambicco” che rivendicavano il diritto di trasmettere il permesso di distillare alcool presentando un candidato a ogni presidenziale, una tendenza che è stata ripresa in tempi più recenti dal partito “Caccia, pesca e tradizione”.

Oggi, quel vecchio arcaismo rurale si è rinnovato nell’attenzione verso l’ambiente. Certo l’ambientalismo tradizionale era quello di una sinistra protestataria anti-nucleare. Ma oggi un José Bové impegnato a difendere i valori di un’agricoltura tradizionale lo fa nel contesto mondiale, sfoggiando un perfetto inglese imparato nel suo soggiorno a Berkeley con i genitori. L’ambientalismo è diventato un’espressione neo-rurale, in quanto la popolazione francese non è più agricola, è cittadina oppure abita nelle campagne ma lavora in piccole o grandi città. Però lì il territorio e l’ambiente diventano forti fattori di identità, un’identità che va preservata e anzi deve essere sempre più conservata, anche perché non sono più gli addetti ai lavori della terra a doverne trarre benefici. Si può quindi dedurre che l’impegno ambientalista della società francese crescerà sempre di più, in quanto sta diventando un elemento chiave di identificazione degli individui con il loro ambiente, tanto importante quanto immaginario.

La Francia è la nazione dell’ambiente, ma anche la nazione delle donne. Il tasso di fecondità, recentemente risalito a due bambini per donna, è un importante rivelatore di un modello francese. Le donne ormai da tre generazioni lavorano e, anche se possono essere discriminate, sono presenti ovunque e a tutti livelli di responsabilità. Le donne inoltre godono di una serie di facilitazioni per avere bambini mentre lavorano, come dimostra l’importanza data agli asili nido. Il modello della famiglia tradizionale invece sembra in gran parte attaccato dalla modernità, con famiglie spesso monoparentali o divise. La lezione della crescita del tasso di fecondità è che in un paese come la Francia le nascite non dipendono dalla struttura familiare ma dalle condizioni della maternità nel contesto lavorativo.

La campagna elettorale delle presidenziali corrisponde a questo paese: le donne candidate, l’attenzione all’ambiente, la riforma del mercato del lavoro, la ricerca, la crescita economica, il ruolo della Francia nel mondo, l’azione sociale ma anche il nazionalismo e la poca considerazione per l’Europa sono tutte tematiche centralissime oggi. Al di là delle differenze fra le personalità in campo, bisogna rilevare le similitudini, almeno fra i principali candidati. Tutti difendono un “modello francese”, un’economia mista pubblica e privata, con un ruolo forte del settore pubblico. Tutti si fanno interpreti di una “storia nazionale” cercando di rappresentarne la continuità. Ma tutti cercano anche di modernizzarsi per attirare il consenso dei giovani e dei figli dell’immigrazione. Si tratta quindi di un momento molto competitivo, nel quale vengono rinnovate una serie di idee collettive, un momento di approfondimento dell’identità nel quale una persona viene chiamata ad incarnare il volto nuovo del paese, un’operazione un po’ monarchica ma anche di sano rinnovamento delle squadre di potere.




Jean-Pierre Darnis, senior research fellow Iai, professore associato all’Università di Nizza.

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