Con la valanga rossa nelle ultime elezioni amministrative, sono ben diciassette
le Regioni governate da giunte di centrosinistra. Questo strapotere regionale
si somma a quello di province e comuni disegnando una mappa unicolore del
governo territoriale del nostro paese. Vi si contrappone il fronte ridotto
di tre Regioni (Lombardia, Veneto e Sicilia) rafforzato – si fa per
dire – da sparute isole comunali e provinciali.
Nel nostro paese esiste una macroscopica sproporzione nella struttura del
potere che – nella dimensione localistica – premia quasi esclusivamente
una parte politica. Questa sproporzione è indice di una capacità
indiscussa della sinistra: la conquista del potere. Il quale poi, in molte
parti del paese, è stato mantenuto per decenni, indice del fatto
che la sinistra non solo sa conquistare ma ancor di più sa godere
della rendita di posizione che all’esercizio del potere è da
sempre connessa. Ma in che modo si conquista e si mantiene a lungo il potere?
È proprio vero che esiste un buongoverno delle amministrazioni rosse
che premia elezione dopo elezione quella parte politica? Ed è altrettanto
vero che una gran parte di quanto è accaduto, e tuttora accade, può
essere imputabile ad un avversario che non c’è, ad un’opposizione
che, se esiste, si piega ai meccanismi di un sistema corporativo, indugia
in un atteggiamento attendista se non del tutto rinunciatario? Basta trascorrere
anche un breve periodo della propria vita in città come Roma o Napoli
– vere e proprie roccaforti del potere rosso in Italia – per
cominciare a porsi qualche dubbio sulla vivibilità delle città,
delle Regioni amministrate dal centrosinistra. E non occorre far appello
alle degenerazioni patologiche di alcune realtà locali, come la Campania,
o alle connivenze “improprie” tra poteri politici e poteri economici,
come è avvenuto di recente tra ds e cooperative rosse con il caso
Unipol, per capire che il buongoverno è ormai solo un mito, costruito
su una serie di fattori congiunti – storici, ambientali, territoriali
– ma ormai privo di fondamento. Per capire che è finito il
tempo delle grandi progettualità riformatrici e che oggi in quelle
città, in quelle regioni quando pure si riesca a far fronte ai problemi
contingenti, sembra non si riescano più a risolvere i problemi endemici.
Come
si crea il controllo sociale
Storicamente
il buongoverno ha avuto un suo fondamento: il pci, il psi e le organizzazioni
legate alla sinistra e al movimento operaio, hanno creato nelle zone rosse
una fitta rete associativa, attiva nei principali settori della vita sociale
e individuale: dall’assistenza al volontariato, al tempo libero, all’educazione,
che ha prodotto gli effetti del buongoverno, accentuando il radicamento
territoriale di queste culture politiche sui territori amministrati. Come
conseguenza, da un punto di vista strettamente politico-sociale, si è
avuta una sostanziale stabilità del sistema. Questa stabilità
ha ottenuto l’apprezzamento dei cittadini, i quali a loro volta non
hanno fatto mancare il loro consenso elettorale a quei partiti. In altri
termini, la presenza di subculture politiche di sinistra in alcune specifiche
zone del paese ha innescato una sorta di circolo virtuoso, contribuendo
a rinsaldare la dimensione localistica e il suo sistema politico, che in
questo modo è riuscito a conquistare notevolissimi margini di autonomia
rispetto al centro. Tutto ciò è stato possibile anche grazie
alla possibilità, di cui per decenni il pci ha potuto beneficiare,
di dirottare risorse sulle regioni amministrate seguendo una logica politica
che allo stesso tempo coniugava una buona dose di clientelismo con i processi
di modernizzazione e con le politiche di assistenza sociale. Il controllo
di quelle risorse ha fatto sì che anche i ceti borghesi e imprenditoriali
fossero obbligati a mettersi sulla scia della maggioranza politica regionale,
stringendo una sorta di patto di ferro localistico che ha saputo reggere
ma non rinnovarsi. A ciò si aggiunge poi che le strutture di partito
e quelle istituzionali hanno rappresentato un’opportunità in
termini di possibilità lavorative e di accessi al sistema politico
per un gran numero di cittadini, che proprio per questo vi si riconoscono
ed identificano.
Ma a quale prezzo? Uno dei prezzi pagati è certamente stata la subalternità
diffusa della società civile nei confronti della politica e delle
istituzioni, le quali in questo modo hanno per anni assicurato l’esercizio
di quel fortissimo controllo sociale che di fatto ha impedito la possibilità
di ricambio e di alternativa. Tutto ciò ha risposto, ed ancora risponde,
ad un modo superato di fare politica, ormai asfittico e senza prospettive:
rivive in pieno quella prassi politica che aveva come unico scopo la perpetuazione
del consenso attraverso una distribuzione mirata delle risorse, attraverso
la moltiplicazione di incarichi e ruoli, attraverso la creazione e la continua
elargizione ad enti e istituti, consigli e comitati, associazioni e fondazioni,
osservatori e agenzie. Questo tipo di prassi, che di fatto ha finito per
identificarsi con la gestione amministrativa del potere, ha prodotto il
venir meno di quel rapporto dialettico tra politica e amministrazione che
invece è la sostanza di un sistema politico che funziona. Laddove
cioè la politica, sia essa di movimento o di partito, stimola e critica
l’amministrazione nell’esercizio quotidiano del potere. Si potrebbe
ben gridare al regime, un regime dolce, democratico che però porta
con sé tutti i connotati di un regime: l’assenza di ricambio
politico, la forte compenetrazione tra amministrazione e struttura di partito,
la mancanza di un pluralismo reale, la connivenza di tutte le parti sociali
ed economiche. In sostanza a comandare rimangono le stesse persone alternandosi
da una carica all’altra. Questa gestione oligarchica del potere privilegia
esclusivamente gli interessi di gruppi ristretti e ceti sociali piuttosto
che quelli generali. Quando non gli interessi particolari di coloro che,
non avendo una vera attività professionale alternativa, devono necessariamente
tenersi saldi sul carro della politica. Ciò produce una pratica consociativa
perenne. Solo così il regime si autoalimenta e si consolida, rafforzato
anche da una forte dose di conformismo culturale e delle idee. Pratica consociativa,
distribuzione di incarichi e risorse, controllo delle rappresentanze della
società civile, monopolio della cultura e dei luoghi dove si fa cultura,
che spesso va di pari passo con un sotteso potere di influenza sugli organi
di informazione, a cui si aggiunge la capacità della sinistra di
mettere in pratica, solo a livello locale, un fortissimo potere di coalizione
che gli permette di tenere insieme una maggioranza di elettori, conquistando
i voti determinanti dei moderati, degli indecisi, di coloro che non trovano
in un’alternanza possibile un’alternativa reale; tutto questo
ha contribuito a rendere inamovibile il sistema. Cosa accadrebbe se queste
condizioni si riproducessero su larga scala, a livello nazionale?
Umbria,
un caso emblematico
Il
caso dell’Umbria è insospettabile quanto sintomatico del funzionamento
del “regime rosso”. In Umbria vivono attualmente circa 859.000
abitanti. E nonostante vi sia stato un aumento della popolazione, esso è
imputabile secondo le valutazioni istat alla regolarizzazione degli immigrati.
Oltre il 50 per cento della popolazione è costituita da pensionati,
l’importo medio annuo delle pensioni è di 7.273 euro (contro
la media nazionale di 8.251,3). La famiglia umbra ha in media 17.551 euro
in banca, poco sotto le percentuali nazionali. Il 51 per cento delle famiglie
umbre usa il computer e appena il 25 per cento Internet. La sedentarietà
è tra le più alte d’Italia. Il pasto principale è
il pranzo, nella stragrande maggioranza dei casi consumato in casa. Solo
questi sono dati che danno l’idea di una regione lentamente destinata
a morire, in cui i giovani trovano con sempre maggior difficoltà
possibilità di impiego e sono costretti ad andarsene e le persone
anziane riscoprono, grazie ai continui incrementi di spesa pubblica, il
posto ideale per finire i propri anni. Ma continuiamo.
Secondo un rapporto del ministero degli Interni l’Umbria è
considerata un «crocevia pericolosissimo di bande criminali multietniche
della droga e della prostituzione». Negli ultimi cinque anni di governo
regionale non c’è un solo indicatore che non abbia registrato
un arretramento della Regione sia a livello economico, sia politico, sia
sociale. «L’Umbria ha uno degli indebitamenti più alti
tra tutte le regioni italiane – sostiene Carlo Ripa di Meana, nella
precedente legislatura consigliere regionale – ha, con la Liguria,
il numero più alto di pensionati, registra una crisi acutissima dell’acciaio
a Terni, la chiusura di molte aziende medio-piccole nella provincia di Perugia,
una vistosa flessione del turismo con l’eccezione degli agriturismi,
una crisi delle colture agricole nell’intera Valle del Tevere. Un
consumo crescente del territorio con una proliferazione di zone industriali
improvvisate e mostruose». «I problemi del Trasimeno –
continua Ripa di Meana – sono irrisolti. Come quelli del Tevere. I
problemi di viabilità urbana si sono acuititutto quello che le fu
affidato nel 2000, Maria Rita Lorenzetti (ndr: attuale presidente della
Regione) lo ha riportato nel 2005 tutto peggiorato. La stessa politica di
relazioni internazionali dell’Umbria nel corso dell’ultima legislatura
si è segnalata in particolare per l’incontro ad Assisi con
Tarek Aziz, l’ultima riunione lontana da Baghdad della carriera del
ministro degli Esteri di Saddam Hussein. Seguito, il conciliabolo assisano
di Tarek Aziz, da incontri frequenti di esponenti della Giunta e del Consiglio
dell’Umbria con il presidente Arafat».
L’Umbria possiede il record italiano di dipendenti pubblici sul numero
di abitanti: 61 ogni mille. In pratica, 50.735 persone a carico, in vario
modo, delle amministrazioni pubbliche. La sola Perugia conta, con 144.732
abitanti, 13 circoscrizioni – contro le 20 di Roma. In Umbria ci sono
298 enti istituiti e finanziati dalla sola Regione a cui corrispondono migliaia
di nomine politiche, 1308, per la precisione.
«Quando nell’estate del 2000 ho iniziato il mio compito di consigliere
regionale – ci dice ancora Ripa di Meana – sono stato chiamato
a designare e nominare negli enti, nelle aziende dipendenti, nelle società
e negli organismi più diversi decine e decine di revisori dei conti
iscritti agli albi professionali, presidenti, consiglieri di amministrazione
ed altri, tutti espressione di appartenenze e fedeltà partitiche».
Secondo la normativa vigente dal 1995 il consigliere regionale può
di diritto scegliere con voto segreto e secondo la propria preferenza chiunque
possieda i requisiti adatti a quel dato incarico del tutto arbitrariamente,
non essendo prevista la formazione preventiva di alcun albo dei candidati.
«Nel corso di questi anni, nel tempo della mia appartenenza alla maggioranza,
posso dire di aver ricevuto dal gruppo politico dei Democratici della sinistra
all’ultimo momento, in aula, i nomi da votare scritti su un biglietto.
Persone che, naturalmente, nella più parte dei casi non conoscevo
e per le quali non ero stato in grado di esprimermi con conoscenza di causa,
per l’assenza di un albo dei candidati e della pubblicazione dei relativi
curricula. In questa condizione di voto alla cieca ho, con la sola eccezione
di due persone invece a me note, votato scheda bianca».
Un
sottopotere invisibile
L’abbandono
della normativa che prevedeva la costituzione di un albo di candidati eleggibili
e titolati induce a pensare che, come afferma Ripa di Meana, «l’opacità
del sistema di nomina è intenzionale» e strumentale alla salvaguardia
di un sottopotere delegato e retribuito di cui volontariamente non esiste
traccia visibile ma che incide in misura determinante sulla costruzione
del consenso. Si tratta, secondo Ripa di Meana, di una «rete capillare
che il presidente della Regione, la Giunta regionale e il Consiglio regionale
con la lunga prassi di nomine a scatola chiusa hanno costruito nel corso
della storia della Regione Umbria. Dal 1995 in poi si è estesa la
galassia di enti e altri organismi di nomina politica che perpetua un’influenza
e un controllo molecolare elettorale nella società regionale».
Tale situazione di immobilità, naturalmente, rappresenta un pesante
carico sui conti dell’intera Regione. Vediamo come.
Dai risultati di un censimento effettuato in Umbria sul sottopotere politico
– da cui sono stati tratti due dossier “Sprecopoli. I costi
della politica in Umbria” e “Il sottogoverno in Umbria”
– di 298 enti schedati solo la metà ha fornito informazioni
sulle spese e gli emolumenti corrisposti. Soltanto 144 enti comportano un
costo complessivo annuo pari a 2.240.000 euro. Si potrebbe allora sostenere,
senza alcuna pretesa di attinenza alla realtà, che sia altrettanto
il costo degli organismi che non hanno fornito alcuna informazione, per
un totale di 4.300.000 euro annui.
Dei 298 tra enti, comitati, commissioni, aziende, centri, cooperative, consulte,
consorzi, consigli, osservatori, fondazioni, istituti, camere di commercio,
oltre 150 sono classificati come indispensabili. Effettivamente è
sufficiente scorrere appena l’elenco delle strutture censite e trovare
la “Commissione tecnica centro per l’imballaggio delle uova
di Terni” nonché la “Commissione provinciale centro imballaggio
uova di Perugia”, la “Commissione tecnica centrale del libro
genealogico del cavallo agricolo da tiro pesante”, la “Associazione
amici delle miniere” per capire l’indispensabilità di
molti degli enti istituiti.
In Umbria esistono 8 comunità montane; la Lega delle cooperative
conta 200 imprese di soci lavoratori; la cgil 115.000 iscritti. E poi ancora,
se non a militare, anche solo a gravitare negli ambienti di sinistra la
cna (Confederazione nazionale dell’artigianato), la Confesercenti,
la cia (Confederazione italiana agricoltori). L’arci con i 195 circoli
sparsi su tutto il territorio regionale; i gal (Gruppi di azione locale)
che gestiscono i finanziamenti europei; la sta (Servizi turistici associati),
la stl (Servizi turistici locali). E così via. Ma fino a dove? E
fino a quando?
Il caso umbro è dunque solo un archetipo di come l’apparato
amministrativo della sinistra realizzi il suo controllo sociale ed estenda
un potere tentacolare che si dirama in tutti i gangli della società
civile. Il pericolo è che questa rete, che oggi si estende diffusamente
su quasi tutto il territorio grazie anche all’incapacità amministrativa
del centrodestra di creare un modello alternativo e più libero, possa
saldarsi con un’analoga rete a livello nazionale. La vittoria totale
di una parte sola priva il paese dei necessari contrappesi. E la sinistra
ha i mezzi per sbaraccare le diversità e imporre il pensiero unico.
Senza più neppure la scusa del buongoverno.
Cristiana Vivenzio, redattore di Ideazione.
(c)
Ideazione.com (2006)
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