Non sono più i tempi in cui Indro Montanelli invitava a votare la
Dc «turandosi il naso». Quella stagione è finita da un
pezzo e non ne sentiamo la mancanza. E non sono neppure i giorni in cui
Silvio Berlusconi decise di “scendere in campo”, anche se di
quel periodo storico abbiamo un po’ di nostalgia perché rappresentò
una rivoluzione copernicana nella politica del Belpaese.
Sono trascorsi dodici anni, il mondo del 1994 è in archivio, ma gli
italiani il 9 aprile sono chiamati ancora una volta a scegliere tra destra
e sinistra. Qualcuno dice che si tratta di categorie che fanno parte dell’archeologia
politica. Non siamo d’accordo, destra e sinistra restano lo spartiacque
ideale per chi deve depositare la scheda nell’urna.
Quando nel 2001 la Casa delle Libertà vinse le elezioni, la maggioranza
del paese espresse la sua preferenza per il programma del conservatorismo
liberale. Le ragioni di quella scelta sono valide ancora oggi, quelle idee
sono l’essenza stessa della libertà, del metodo democratico
e del capitalismo. Il blocco sociale moderato nel 2001 aveva colto il messaggio
di Berlusconi per cui la politica italiana era vittima di un paradosso storico:
i conservatori in realtà sono il progresso e i cosiddetti progressisti
sono invece la restaurazione. Un cortocircuito che Berlusconi aveva facilmente
disinnescato con una campagna elettorale che metteva in luce le contraddizioni
e i fallimenti di un centrosinistra tanto incapace di governare quanto abile
nell’occupare il potere e offrire al paese e alla scena internazionale
il triste spettacolo di quattro governi in cinque anni.
Berlusconi ha governato per l’intera legislatura e la stabilità
è stata un bene prezioso che ha salvato l’Italia dalla tempesta
della globalizzazione. Erano trascorsi pochi mesi dall’insediamento
del governo e le Twin Towers crollarono lasciando New York nella polvere
e nello smarrimento. Per molti l’attacco alle Due Torri è un
ricordo sbiadito, per i lettori di Ideazione no. È un fatto ancora
presente, è un dolore ancora lancinante. Da quell’11 settembre
2001 il mondo non è più lo stesso e sono inaccettabili le
tesi minimaliste per cui quell’evento tragico è poco più
di un incidente di percorso della Storia. Da quel momento le relazioni internazionali
hanno subito una rivoluzione strategica, l’economia ha marciato al
ritmo di uno stop and go che l’Unione Europea non è riuscita
a fronteggiare a causa di ortodossia monetaria (l’euro) e eresia da
patti in faccia (Maastricht), un nemico locale e tribale – il terrorismo
di al Qaeda e il fondamentalismo islamico – è diventato globale
e transnazionale, economie emergenti come la Cina e l’India hanno
lanciato la sfida alle grandi potenze sul mercato dei prodotti, del lavoro
e dell’energia. È in questo scenario che il governo Berlusconi
ha fatto la scelta più coraggiosa in politica estera. Ha rafforzato
la scelta atlantica fatta da De Gasperi e deciso che la stagione del paese
perennemente alla finestra era chiusa: il centrodestra ha deciso che non
era più il tempo di aspettare Godot e avrebbe fatto la sua parte
nell’operazione di difesa dei valori dell’Occidente. Italia
e Gran Bretagna al fianco degli Stati Uniti. Non la Francia dei Lumi né
la Germania socialdemocratica, ma il nostro paese guidato da una grande
forza liberale ha tenuto alta la bandiera dell’Occidente posto sotto
attacco. Sui due avamposti della democrazia in Medio Oriente – Afghanistan
e Iraq – dove prima imperavano le satrapie e trovava riparo e alimento
il terrorismo, ora sventolano bandiere di paesi sovrani.
Esportare la democrazia. Sappiamo che la sinistra legge in questa frase
il cesarismo napoleonico e non i milioni di afgani e iracheni che hanno
votato. Proprio per questo Berlusconi e il centrodestra rappresentano ancora
oggi l’antidoto migliore contro la sinistra tentazione dell’appeasement
con il terrorismo. Winston Churchill diceva che l’appeaser si comporta
come quel signore che pretende di «stare al fianco del coccodrillo
sperando che questo se lo mangi per ultimo». È l’immagine
della sinistra italiana, l’espressione di un pensiero debole pronto
alla resa di fronte allo scontro di civiltà. Mentre scriviamo il
Medio Oriente è in fiamme per le vignette satiriche sul Profeta.
I fondamentalisti soffiano sul fuoco e la risposta dell’Europa è
fiacca. Si è ridotto il dibattito alla libertà di stampa.
Ma in gioco c’è la libertà tutta. Dell’Occidente
e degli stessi paesi arabi minacciati al loro interno dal fanatismo religioso.
La sinistra è pavida e non offre risposte perché non ne ha.
Sono gli alfieri di un relativismo che minaccia la famiglia naturale. Immaginate
lo stato d’animo di milioni di italiani che sudano sette camicie per
allevare i figli, comprare una casa, lavorare sodo per un futuro migliore,
di fronte alle pretese che questa famiglia sia messa in subordine rispetto
ad altri tipi di unione. Le discriminazioni non fanno parte della nostra
cultura liberale. Ma qui si sta rovesciando la frittata e anche la logica:
il rispetto della minoranza sta diventando prevaricazione e dittatura della
stessa minoranza. Le società così vanno in frantumi. Tentazioni
laiciste sono presenti anche nella Casa delle Libertà, ma proprio
il più laico di tutti, Silvio Berlusconi, ha messo in chiaro dove
cominciano e finiscono i diritti e i doveri di ciascuno anche in questo
campo. Un principio di armonia e gioco democratico che l’opposizione
non conosce e sostituisce con la feroce lotta per il potere. Fin dalle prime
battute della campagna elettorale, si è capito che Berlusconi continua
ad essere l’unico leader capace di affrontare le sfide del mondo contemporaneo.
Non possono esserlo i suoi alleati – Fini e Casini non sono usciti
ancora dal bozzolo – e non può esserlo Romano Prodi.
Sul candidato dell’Unione c’è ben poco da dire: ha un’imbarazzante
storia politica alle spalle, è logorato e non ha futuro. È
una comparsa in una commedia che propone una storia che si svolge su confini
improbabili (dagli ultracattolici ai trozkisti) e con attori surreali (da
Rosi Bindi a Vladimir Luxuria). Quella dell’Unione è un’armata
Brancaleone fondata sull’antiberlusconismo. Può esser sufficiente
per fare gli illusionisti con una parte degli elettori, ma con tali premesse
non sarà mai capace di governare un paese che vuol essere protagonista
sulla scena internazionale. La prima stagione dell’Ulivo di lotta
e di governo si svolse in un contesto di crescita economica mondiale e di
relativa pace sullo scacchiere mondiale. I quattro governi ulivisti –
nonostante questo scenario ampiamente favorevole – non hanno riformato
né la previdenza né il mercato del lavoro, due fattori fondamentali
per la stabilità finanziaria e la crescita. La politica di privatizzazioni
della quale in passato si è favoleggiato è stata condotta
con le famigerate linee guida della merchant bank di Palazzo Chigi. E il
caso Unipol è solo la punta dell’iceberg. L’unico provvedimento
economico della sinistra di cui hanno ricordo gli italiani – un incubo
– è il prelievo forzoso del 6 per mille sui conti correnti
operato dal governo di Giuliano Amato nel 1992. Serviva a tappare un buco,
salvo poi aprirne un altro altrettanto grande da lasciare in eredità
al governo Berlusconi nel 2001. È lo spettacolo della sinistra roditrice
che non sa resistere alla tentazione di mangiare il formaggio altrui. Quello
di tutti gli italiani. Per questo la riforma delle pensioni e la flessibilità
del mercato del lavoro sono stati assicurati proprio da quel governo Berlusconi
che in un periodo di vacche magre ha avuto la forza di non mettere le mani
nelle tasche degli italiani. Il premier non si stanca di ripetere che con
l’Unione aumenterà la pressione fiscale e fa bene perché
l’unica ricetta nota alla sinistra è quella di spremere il
contribuente, aumentare il peso dello Stato nella vita pubblica e irreggimentare
l’economia. Berlusconi ha tempra e tenacia. Ha resistito agli attacchi
dell’opposizione e alla strategia di logoramento degli alleati. Ha
dimostrato di sapersi battere e ha un programma di governo. Poi ci sono
gli avversari e, dopo averli visti all’opera, ci sono almeno 281 buone
ragioni per votare ancora il centrodestra. Sono tutte nelle 281 pagine del
programma di un’Unione che non sarà mai la forza, ma la debolezza
dell’Italia.
Mario Sechi, vicedirettore de Il Giornale.
(c)
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