La verità sull'economia italiana
di Giuseppe Pennisi
Ideazione di marzo-aprile 2006


Dove ci collochiamo in questo anno di grazia 2006, a poco più di dieci anni dalla nascita di quella che è stata chiamata, un po’ avventatamente, seconda repubblica? E a un lustro e mezzo dall’istituzione dell’unione monetaria europea, che avrebbe dovuto favorire la crescita economica nella stabilità dei prezzi?
Se utilizziamo alcuni indicatori, possiamo dire che ci siamo comportati da primi della classe e tali siamo diventati. Se ne guardiamo altri, invece, siamo agli ultimi posti, nei banchi dei somari, ormai ridotti a livello di un paese da Terzo Mondo, o quasi. Andiamo con ordine, cominciando dai dati che ci dipingono come il discolo Franti del libro Cuore.
A gennaio di quest’anno ha avuto una notevole eco sulla stampa (non solo nostrana) l’arretramento dell’Italia nell’ultima classifica mondiale delle libertà economiche quale computata nella nuova edizione dell’Index of Economic Freedom, annualmente compilato dalla Heritage Foundation, dall’Institute for Market Economy, dalla Friedrich A. Hayek Foundation e dal Wall Street Journal, in collaborazione con numerosi think tank fra cui, in Italia, il prezioso Istituto Bruno Leoni. Nella classifica, l’Italia è scivolata dalla ventiseiesima alla quarantaduesima posizione (la stessa occupata da Trinidad e Tobago) nell’arco di appena un anno. Molti commentatori hanno letto l’indice come il fallimento della Casa delle Libertà e dei suoi anni al governo del paese. Pochi hanno notato che l’arretramento è dovuto a due determinanti: il miglioramento della posizione in classifica di numerosi paesi in via di sviluppo (soprattutto sotto il profilo delle libertà economiche) e il time lag (divario temporale), ovvero il tempo che intercorre tra le riforme e la loro registrazione da parte delle statistiche. È il caso delle misure sul riassetto del mercato del lavoro e delle pensioni varate dal governo italiano.

Occorre sottolineare che la pubblicazione dell’Index of Economic Freedom è corredata da un ricco volume di grande formato ed a stampa fitta in cui si illustra la metodologia e si spiega come è stata applicata ai 157 paesi della graduatoria. È proprio la metodologia statistica a suscitare, a mio avviso, perplessità sul significato da dare all’indice. Si basa su cinquanta differenti variabili (molte delle quali economiche ma alcune delle quali a carattere sociologico o politologico), a loro volta aggregate in dieci categorie. Né le singole variabili né le categorie vengono ponderate (in termini di rilievo relativo) in quanto – afferma la nota metodologica – «tutte giudicate parimenti importanti» ai fini della libertà economica. I dati sono tratti da quelli messi a disposizione dagli uffici statistici nazionali (e quindi interpretati in termini di libertà economiche dal gruppo di ricerca che computa l’indice). Chi ha dimestichezza con i metodi di rilevazione statistica sa che il primo stadio è cruciale e che ci sono differenze profonde di definizioni statistiche e metodi e tecniche di rilevazione anche all’interno del ristretto numero di paesi sviluppati ad alto reddito intermedio (quelli, per intenderci, che fanno parte dell’ocse), nonché in gruppi più ristretti (come l’Unione Europea, o la stessa unione monetaria), per non parlare delle differenze, davvero abissali, tra i paesi industriali e quelli in via di sviluppo oppure quelli in transizione da un’economia di piano ad un’economia di mercato (che solo recentemente hanno adottato una contabilità economica nazionale simile alla nostra). Si pensi, ad esempio, che soltanto nel 1992 l’Italia, pur membro dell’oece prima e dell’ocse poi, ha adottato una definizione di “persona in cerca di lavoro” (e conseguenti metodi di rilevazione statistica) in linea con quelli in vigore nel resto dell’ocse. Oppure che il Bollettino di gennaio 2006 della Banca centrale europea (bce) contiene un’analisi tecnica dell’affidabilità delle stime Eurostat degli andamenti dei prezzi al consumo nei paesi dell’area dell’euro – nonostante tali stime siano uno degli strumenti principali per la determinazione della politica monetaria. Oppure ancora che nel dicembre 2005, due alti funzionari della Federal Reserve Bank di New York, Robert Rich e Charles Steindel, hanno pubblicato un saggio in cui si mettono in questione i metodi adottati negli usa per la stima dell’inflazione di base. Sotto il profilo statistico, l’Index of Economic Freedom è costruito sulla sabbia, tanto fragile da crollare al primo colpo di vento. È utile come strumento di comunicazione per indicare in quale direzione stanno viaggiando le libertà economiche nel mondo, oppure in gruppi di paesi con alcune caratteristiche comuni. È meno utile per costruire graduatorie e classifiche. Anzi, può in certi casi essere controproducente; se gli si vuole dare un significato troppo pregnante è fin troppo facile smontarlo. La critica può essere addirittura controproducente perché può prestare il fianco per accusare liberali e liberisti di aggrapparsi sugli specchi per perorare la causa (invece giustissima) delle libertà economiche.
Da ultimi della classe diventiamo quasi virtuosi se leggiamo l’Italia, nel contesto relativamente omogeneo degli altri paesi sviluppati e ad alto reddito, alla luce di quello che i macro-economisti chiamano l’indice di Okun, dall’economista che, negli anni Settanta, lo ha elaborato. Arthur Okun è morto in giovane età, proprio quando si pensava che la sua carriera fosse indirizzata verso il Premio Nobel. Era un economista liberal, ossia apparteneva a quello che oggi si può chiamare centrosinistra. Era favorevole all’intervento pubblico – non allo Stato produttore ma allo Stato fortemente regolatore – anche in quanto la sua preoccupazione scientifica principale era quella di coniugare efficienza con eguaglianza. A questo fine, mise a punto un indicatore eloquente del disagio relativo di un paese: il misery index, ossia la semplice sommatoria del tasso di disoccupazione con il tasso d’inflazione. Dopo la sua prematura morte nel 1980, la Brookings Institutions – il “pensatoio” della sinistra democratica americana – ha continuato per un certo numero di anni a compilare l’indice.

Successivamente, il testimone è passato al servizio studi di Merill Lynch che lo ha arricchito: alla sommatoria dei tassi di inflazione e di disoccupazione viene aggiunta la somma di tre altri indicatori (il livello dei tassi d’interesse a breve, i saldi di finanza pubblica e di conti con l’estero in percentuale del pil) e detratto il tasso di incremento del reddito nazionale. In tal modo, l’indice non afferra solo come un paese “si sente” in un momento specifico (inflazione e disoccupazione) ma anche dove sta andando (doppio saldo – finanza pubblica e conti con l’estero – e mercato monetario). Con puntualità i dati vengono pubblicati all’inizio di ogni anno da Merrill Lynch per i maggiori paesi industrializzati. Inoltre, il Comitato dei consiglieri economici del presidente degli Stati Uniti dirama mensilmente, nel suo sito web, il misery index nella versione originale concepita da Arthur Okun (sommatoria di inflazione e disoccupazione).
Nel 1994, tra i maggiori paesi sviluppati l’Italia era quello con il più alto misery index, ossia con il maggior disagio. Ci seguivano da presso la Gran Bretagna ed il Canada, mentre gli usa, la Francia ed il Giappone erano paesi dove, per dirla colloquialmente, “si stava bene”. Nel 2005, non solo il misery index dell’Italia è quasi dimezzato, ma in termini, per così dire, di disagio siamo stati sorpassati da usa e Francia. Anche il Canada ha rimesso la propria casa in ordine ed è ora, con il Giappone, uno dei paesi in fondo alla classifica. Aspetto ancora più interessante: il miglioramento della posizione relativa dell’Italia è avvenuto in gran misura negli ultimi cinque anni, proprio quelli del governo Berlusconi.
Attenzione ai trionfalismi ed alle pacche sulle spalle. Il peggioramento del misery index degli usa è da attribuirsi in gran misura al disavanzo crescente con l’estero; quello della Francia, invece, alla situazione occupazionale. Il miglioramento dell’Italia si giustappone alla Francia proprio perché l’elemento determinante è stata la riduzione del tasso di disoccupazione, da attribuirsi, in gran parte, all’insieme di norme che vanno sotto il nome di “Legge Biagi” ed alla regolarizzazione di molti lavoratori immigrati.

In fondo al cuore sappiamo di non essere i primi della classe (come direbbe l’indice di Okun) ma anche di non essere scesi ai livelli di Trinidad e Tobago (come direbbe l’Index of Economic Freedom).
Una spiegazione eloquente di dove si colloca l’Italia e soprattutto delle ragioni per cui sta dove sta è stata offerta a fine gennaio in un lavoro (ancora preliminare) di Daniel Gros del Centre for European Policy Studies. Gros non costruisce classifiche ma esamina le storie parallele di Italia e Germania sulla base di alcuni indicatori di apertura dell’economia (export-import in rapporto al pil, investimenti diretti dall’estero in rapporto al pil). In breve, la Germania è stata tradizionalmente molto più aperta al commercio internazionale dell’Italia ma è stata costretta, dall’unificazione, a concentrarsi sui suoi problemi interni con il risultato che nel 1995 era, in termini di apertura al resto del mondo, allo stesso stadio dell’Italia (ad esempio, l’export-import di ambedue i paesi era pari ad un quarto del pil). Da allora, mentre il grado di apertura dell’Italia è rimasto al 25 per cento del pil, quello della Germania ha raggiunto il 44 per cento del reddito nazionale. In rapporto al pil, l’investimento diretto dall’estero in Germania è doppio di quello in Italia.


Giuseppe Pennisi, docente stabile alla Scuola superiore della pubblica amministrazione.

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