Europa, linee di politica comune
di Gloria Martini
Ideazione di marzo-aprile 2006

 

Verso la fine del 2004 l’Unione Europea è subentrata alla nato nel commando dell’operazione di peacekeeping in Bosnia. L’operazione, realizzata grazie all’impiego di nato assets e capabilities in base agli accordi detti “Berlin Daily”, rappresenta tanto una sfida quanto un motivo di fierezza per un’ue che sembra mostrare di aver imparato la lezione dalle precedenti esperienze.
Negli anni Novanta la guerra dei Balcani aveva mostrato tutta la debolezza dei governi europei ad agire individualmente e in modo non coordinato. Era apparsa quindi necessaria la realizzazione di una Politica Estera di Sicurezza Comune (pesc) e di una Politica Europea di Sicurezza e Difesa (pesd). L’ue ha pertanto successivamente proceduto a dichiarare la sua volontà ad intervenire nell’ampio spettro delle operazioni per il mantenimento della pace (i cosiddetti compiti di Petersberg)1, enunciate nel trattato di Amsterdam del 1999, e ha iniziato un processo per lo sviluppo di capacità militari nell’ambito della pesd, attraverso l’individuazione dell’Obiettivo primario di Helsinki. Lo scopo dichiarato era quello di sviluppare entro il 2003 una Forza di Reazione Rapida dell’ue (frr) composta da 50-60.000 uomini e donne, mobilitabile nel giro di 60 giorni e sostenibile sul campo fino ad un anno. Purtroppo la realizzazione di una tale Forza è rimasta incompiuta. È infatti accaduto che i necessari equipaggiamenti individuati per la realizzazione dell’obiettivo primario di Helsinki risultavano solo parzialmente nella lista degli inventari, e quindi nelle priorità di spesa per delle forze armate degli Stati membri dell’ue.
La capacità operativa completa della frr è stata, comunque, formalmente dichiarata nel 2003. In realtà, come è ben comprensibile, questo obiettivo non è stato raggiunto2. Il Consiglio europeo di Salonicco ha di fatto riconosciuto che l’ue disponeva della capacità operativa relativamente a tutto lo spettro dei compiti di Petersberg, «anche se con limitazioni e restrizioni dovute alle carenze riconosciute che possono essere attenuate dall’ulteriore sviluppo delle capacità militari dell’Unione Europea»3.
La frr ha quindi rappresentato un risultato solo quantitativo da rivedere e aggiornare in funzione di un contesto geostrategico differente e più attuale. In quest’ottica, il Consiglio europeo di Bruxelles del 14 giugno 2004 ha approvato l’Obiettivo Primario per il 2010 con cui «gli Stati membri hanno deciso di impegnarsi per riuscire, entro il 2010, a rispondere con azioni rapide e decisive e con un approccio coeso all’intero spettro di operazioni4 di gestione della crisi previste dal Trattato dell’Unione Europea»5.
Attraverso l’Obiettivo primario 2010 gli Stati membri stanno cercando di realizzare un obiettivo qualitativo che permetta loro di colmare le carenze a livello di interoperabilità, dispiegamento e sostenibilità che sono al cuore dello sforzo degli Stati membri e fattore trainante dello stesso Obiettivo primario 2010.
La domanda sorge spontanea. È ragionevole credere che il raggiungimento di questi obiettivi permetterà agli Stati membri di completare la trasformazione delle loro forze armate e produrre le capacità militari di cui l’ue ha bisogno?
L’individuazione delle carenze europee in termini di capacità è un esercizio che è stato fatto sia a livello nato6 che nell’ambito dell’ue7. È tuttavia necessario, come si metterà in evidenza, che date le limitate disponibilità di bilancio, gli Stati europei fissino priorità e obiettivi strategici di lungo periodo ai fini della realizzazione di una più compiuta pesd che rafforzi al tempo stesso l’Identità Europea di Sicurezza e Difesa8 (isde), e che assicuri la complementarietà con gli Stati Uniti in seno all’Alleanza Atlantica9.
L’esperienza dei Balcani ha fatto ben comprendere agli Stati dell’Unione l’incompletezza del modello europeo di soft power basato solo sugli strumenti del dialogo e del negoziato e li ha spinti a prendere coscienza della necessità di supportare la diplomazia europea con una effettiva e autonoma forza militare capace di difendere la società europea dai conflitti periferici10 e dalle nuove minacce del terrorismo. Perché, allora, gli Stati europei non riescono a procedere alla realizzazione di una compiuta pesd? Quali sono le cause e i deficit strutturali che stanno alla base di questa incoerenza tra gli ambiziosi obiettivi dichiarati e i risultati effettivamente raggiunti? Perché i governi sono reticenti a spendere di più per la sicurezza?

I bilanci della difesa e loro fondamentali capitoli di spesa

Un rapido sguardo ai livelli di spesa per la difesa nei bilanci europei ed americano mette subito in evidenza l’enorme divario esistente tra le due sponde dell’Atlantico. Gli usa spendono più del doppio della somma dei bilanci che i venticinque Stati europei destinano alle spese per la difesa. Il divario nel livello di spesa tra le due sponde dell’Atlantico sta poi aumentando sempre più qualora si osservi che gli usa hanno previsto un incremento degli stanziamenti destinati al settore della difesa da 401,3 miliardi di dollari nel 2004 a 469,8 miliardi di dollari nel 2007, mentre lo stanziamento globale degli Stati membri dell’Unione Europea nel settore raggiunge all’incirca la cifra di 185 miliardi di dollari all’anno.
Sarebbe certamente irrealistico per gli europei puntare a raggiungere i livelli di spesa americani. La cosa potrebbe non inquietare più di tanto qualora si tenesse conto del fatto che la superpotenza statunitense ha interessi geostrategici globali e una percezione della sicurezza diversi da quelli europei. Dobbiamo quindi, piuttosto, prestare attenzione ad altri indicatori che possono meglio mostrarci le differenze esistenti tra i paesi europei relativamente alla destinazione delle risorse per poter riuscire ad individuare le carenze che affliggono la realizzazione degli obiettivi della pesd.
In termini percentuali gli usa spendono per la difesa il 3,4 per cento del loro pil. In Europa, solo la Grecia spende il 4,4 per cento del pil, seguita da un gruppo di sei paesi che superano la soglia del 2 per cento (Francia 2,5, Regno Unito e Cipro 2,4, Portogallo 2,3, Repubblica Ceca 2,1 e Slovacchia 2,0). Seguono l’Italia e la Polonia con l’1,9 per cento, l’Ungheria, la Lettonia e la Lituania con l’1,8 mentre il record negativo è rappresentato dall’Irlanda con un livello di spesa pari al 0,6 per cento del pil11.
Se si ragiona poi in termini assoluti, i sei più importanti paesi produttori di armi, i cosiddetti Letter of Intent (loi) countries12 coprono più dell’80 per cento del totale della spesa europea per la difesa e rappresentano circa il 98 per cento della spesa militare per la ricerca e lo sviluppo (r&d). La sommatoria dei bilanci della difesa dei dieci nuovi Stati membri dell’Unione Europea rappresenta solo il 5,7 per cento del budget della difesa dell’Europa a quindici. Infine, differenze significative esistono anche tra i loi Countries che vedono il Regno Unito, la Francia, la Germania e l’Italia in una posizione di preminenza rispetto agli altri13.
Per riassumere, quindi, esistono grandi differenze tra i paesi europei sia in termini percentuali che assoluti relativamente alla spesa per la difesa. Si distinguono essenzialmente tre gruppi: i dieci nuovi paesi membri sono di gran lunga lontani dai “vecchi quindici” ed anche all’interno di questi ultimi, vi è il gruppo dei loi countries che si distacca dagli altri.
Altre differenze strutturali esistono, inoltre, tra gli Stati membri relativamente alla destinazione della loro risorse.
Per quanto riguarda la spesa per l’equipaggiamento, la Francia e la Gran Bretagna, che hanno eserciti di professionisti, spendono porzioni relativamente grandi degli stanziamenti destinati alla difesa allo scopo di mantenere le loro forze ben equipaggiate e continuamente modernizzate. Ma altri Stati (Svezia, Grecia, Finlandia e Portogallo), che hanno ancora forze armate di leva e desiderano per lo più mantenerle ad un alto grado di operatività a livello interno e interoperative a livello ue/nato, devono spendere una elevata percentuale dei loro bilanci di difesa per l’acquisizione di equipaggiamenti, affievolendo in tal modo la quota di risorse destinabile alla r&d.
Gli Stati europei hanno quantomeno intrapreso processi di ammodernamento delle loro forze armate. I nuovi paesi membri dell’Unione Europea, che sono anche membri della nato, hanno avviato uno sforzo importante in tal senso con il supporto dell’Alleanza.
Anche i “Quindici” hanno adattato le loro forze alla nuova situazione del post guerra fredda. La progressiva eliminazione del servizio di leva e la creazione di eserciti di professionisti stanno favorendo la nascita di forze più preparate e meglio equipaggiate con un abbattimento dei costi necessari al mantenimento di truppe altrimenti troppo numerose e la conseguente liberazione di risorse da investire in approvvigionamenti e, soprattutto, per la ricerca e lo sviluppo nel settore della difesa.
È dunque la percentuale del bilancio per la difesa dedicata alla ricerca e sviluppo militare un significativo indicatore di cui tener conto, poiché dà informazioni sulla capacità di un paese di sviluppare futuri sistemi di arma. È da sottolineare, inoltre, che gli Stati europei spendono appena un quarto di quanto spendono gli usa per r&d. La conseguenza è che il ritorno in termini di efficacia sugli investimenti effettuati e non è proporzionato rispetto a quanto investito. L’Unione europea, considerata globalmente, ottiene, in termini percentuali, un ritorno inferiore rispetto a quello degli usa14. In questo caso, il divario deve essere considerato fonte di preoccupazione perché l’investimento nel settore della r&d significa sostegno alla base tecnologica dell’industria della difesa in Europa.
Se poi passiamo in rassegna le differenze interne all’ue vediamo che il Regno Unito e la Francia destinano il 13 per cento degli stanziamenti dei bilanci militari alla r&d, il che rappresenta una percentuale di gran lunga superiore a quella di altri paesi nel settore.
Questo tipo di impegno non è purtroppo seguito dagli altri Stati membri. La potenza successiva, la Germania, destina la metà della percentuale impegnata dalla Gran Bretagna e dalla Francia, e il paese seguente, la Spagna, dedica solo la metà di quest’ultimo. Ci sono poi paesi come il Portogallo, la Danimarca e il Belgio che impegnano per la r&d meno dello 0,05 per cento dei loro bilanci di difesa, il che significa che le loro forze armate sono condannate all’attuale status quo o comunque ad acquistare equipaggiamenti e tecnologia all’estero.
I paesi che effettuano bassi investimenti nella r&d sono tendenzialmente orientati verso la nato e contano sulle importazioni di tecnologia militare e di equipaggiamenti dagli usa. Viceversa, Francia e Regno Unito, che effettuano più alti investimenti, impiegano molto poco l’equipaggiamento americano, pur essendo, le forze armate più moderne e tecnologicamente avanzate d’Europa.
Da osservare, che i governi europei nell’effettuare l’approvvigionamento sono naturalmente portati a scegliere l’opzione meno costosa piuttosto che quella europea, che, molto spesso, è quella americana: quasi il 40 per cento dell’equipaggiamento nelle forze armate europee è di origine americana.
Poiché la situazione odierna è quella per cui i venticinque Stati sovrani hanno ciascuno propri contingenti nazionali, ministeri della difesa, staff militari, organizzazioni di supporto e sistemi di approvvigionamento, la naturale conseguenza è che il livello di duplicazione nelle forze armate europee è altissimo.
L’Europa non solo destina molto meno degli usa alla difesa ma, una grande parte di ciò che gli Stati spendono va a duplicare strutture già esistenti in altri paesi con una conseguente moltiplicazione delle spese. I costi unitari, inoltre, sono in aumento poiché la debole domanda dei governi nazionali impedisce la loro ripartizione su quantità sufficientemente elevate da permettere fruttuose economie di scala.
I paesi europei, dunque, mostrano ampi divari in termini di capacità militari, differenti politiche di investimento, diverse priorità di spesa, scarsi ritorni sugli investimenti. Queste differenze strutturali rappresentano complessi elementi per la realizzazione di una più compiuta difesa europea che non potrà non essere realizzata senza che si tenga conto di tali disparità e differenze.

Specializzazione, cooperazione e creazione di capacità comuni

Gli Stati membri sono ben consci della necessità di continuare a perseguire la trasformazione delle loro forze armate al fine di formare eserciti di professionisti e di provvedere alla realizzazione di un sistema difensivo che tenga conto delle nuove sfide del contesto internazionale, facilitando il passaggio da un tipo di difesa statica, tipica del periodo della guerra fredda e concepita per la protezione del territorio, alla creazione di forze più flessibili, più mobili e in grado di essere dispiegate in lontani teatri di guerra, così come sottolineato nel documento dell’ue relativo alla “Strategia per la sicurezza europea”. Gli Stati stanno, di fatto, compiendo importanti passi in questa direzione.
Purtroppo, tra le difficoltà che i paesi membri si trovano a far fronte vi è soprattutto quella della necessità di reperire mezzi finanziari necessari per questa trasformazione. Accade, pertanto, che per ragioni di bilancio e per l’alto livello di spesa richiesto, molti Stati membri non sono in grado di continuare a fornire l’intero spettro delle capacità all’interno delle loro forze armate siano esse aeree, marittime o terrestri.
La conseguenza è che certe capacità militari possono essere mantenute soltanto nell’ambito di una cooperazione con altri Stati. Appare sempre più evidente che, se si vorranno perseguire trasformazioni sostanziali delle capacità militari nazionali, esse dovranno necessariamente implicare un certo grado di specializzazione e cooperazione internazionale nonché la possibilità di mettere in comune alcune di queste capacità. Tali “capacità collettive”, pertanto, non saranno più in possesso dei paesi membri partecipanti ma apparterranno all’ue in quanto tale sull’esempio degli awacs della nato. È questa una sfida di alto livello se si considera che per ogni singolo Stato la difesa è un settore estremamente sensibile, anche se, a ben guardare, un certo grado di specializzazione è sempre esistito dal momento che non tutti gli Stati membri possiedono l’intero spettro delle capacità militari. Tuttavia, è solo negli ultimi anni che il dibattito attorno ai temi della specializzazione e della cooperazione sta crescendo d’importanza.
Sebbene esistano già alcuni esempi di cooperazione militare a livello multilaterale tra gli Stati europei, quali l’Eurocorpo, è solo con l’Obiettivo Primario di Helsinki per il 2003 e, ancor più, con quello stabilito per il 2010, che l’intero processo di rafforzamento delle capacità militari ha subito un’accelerazione e una connotazione squisitamente europea. Il processo intrapreso ha come scopo quello di assicurare il raggiungimento di un duplice obiettivo. Da un lato riguarda la possibilità di utilizzare forze armate che siano rese disponibili da parte degli Stati membri per realizzare operazioni dell’ue, dall’altro, concerne un impegno mirante a colmare le lacune più significative in termini di assets e capabilities dei paesi europei soprattutto nei settori di comando e controllo, intelligence e trasporto strategico.
A parte l’obiettivo primario 2003 e 2010, la specializzazione che si è sperimentata fino ad oggi, ossia la possibilità che certe capacità non siano più gestite a livello di alcuni Stati membri bensì all’interno di un quadro di cooperazione multinazionale, è avvenuta solo su base bilaterale o multilaterale, non a livello della globalità degli Stati membri dell’ue. La differenza tra i due tipi di approccio è evidente soprattutto da un punto di vista qualitativo. Nel primo caso, infatti, le decisioni sono prese o sulla base di priorità nazionali che tengono in considerazione le necessità militari di ogni singolo paese, o addirittura semplicemente spinte da esigenze di risparmio. Questo tipo di programmazione è fatta senza che si presti attenzione alle conseguenze che gli eventuali tagli o incrementi di certi tipi di spesa possano avere per l’Europa come insieme.
La pianificazione e il coordinamento a livello di ue, cioè attraverso un meccanismo di top-down, terrebbe invece conto non tanto e non solo degli attuali limiti espressi dall’obiettivo primario o dal divario con gli usa, quanto, e soprattutto, delle priorità che l’ue ha espresso nel suo documento sulla strategia per la sicurezza e quindi delle necessità specifiche e reali dell’Europa in quanto tale.
Una riflessione aggiuntiva deve essere fatta riguardo alla necessità di una programmazione di lungo periodo che vada al di là di quelli che sono gli obiettivi previsti per la data del 2010 poiché è solo in tal modo che gli Stati possono procedere a ristrutturazioni importanti delle loro forze armate ripartendo su un arco temporale più esteso lo sforzo finanziario necessario a tal fine.
Solo all’interno di uno stabile e definito quadro europeo sarebbe possibile decidere come gli Stati membri possono contribuire alla sicurezza europea e attraverso quali capacità, applicando appieno sia il concetto di specializzazione che la messa in comune delle loro forze armate e rendendo possibile l’armonizzazione e la massima coordinazione nella politica degli approvvigionamenti.
Una programmazione di lungo periodo farebbe sì che le ristrutturazioni a livello nazionale tenessero conto fino dall’inizio delle necessità dell’Unione invece di includerle alla fine del processo quando le decisioni sono già state prese sulla base di considerazioni nazionali.
Allo stato attuale, nell’assenza di una pianificazione globale di lungo periodo a livello continentale, la cooperazione strutturata permanente15 potrebbe fornire un primo quadro europeo di riferimento all’interno del quale sviluppare la cooperazione e la specializzazione tra tutti quegli Stati che desiderano farlo.
Parlare di integrazione militare implica anche porsi alcune domande che riguardano l’equilibrio strategico tra gli Stati membri e tra questi e l’Unione. Come può, infatti, essere realizzata la specializzazione preservando le esigenze degli Stati membri e realizzando, al tempo stesso, un’integrazione a livello europeo? Quali Stati dovranno specializzarsi e in che cosa? Come trovare una soluzione che possa tener conto sia delle esigenze di difesa e sicurezza del continente che degli stretti vincoli economici degli Stati membri dell’ue?
La soluzione che è stata avanzata16 propone, da un lato, una completa specializzazione dei piccoli paesi che saranno spinti a fare ancora meglio quello che già realizzano in modo eccellente a livello nazionale, concentrando il loro contributo su capacità specifiche che sarebbero rese disponibili al pari di tutti gli altri Stati. Dall’altro, si propone una parziale specializzazione dei grandi paesi che pur mantenendo un ampio spettro di capacità nazionali saranno, comunque, spinti a porre una certa enfasi sul settore in cui tradizionalmente hanno svolto un ruolo predominante.
Dall’analisi dei bilanci di difesa e dalla situazione che ne è emersa è prevedibile che, parallelamente a tali sviluppi, si assista all’emergenza del direttorio della Gran Bretagna, della Francia e della Germania nella costruzione di una “difesa europea”, il che potrebbe condurre ad una serie di frizioni motivate da timori di sopraffazione da parte di quegli Stati che ritengono che le posizioni dei tre grandi potrebbero non essere conformi alle loro esigenze nazionali.
Anche in questo caso la cooperazione strutturata permanente potrebbe rivelarsi un utile strumento per uscire da questa empasse, poiché permetterebbe, per un verso, ai tre paesi in questione di progredire sulla base di quella visione strategica che soltanto grandi potenze possono avere, supportati dal consenso di quei paesi che si dichiarano desiderosi di raggiungerli. Dall’altro lato, la cooperazione strutturata permanente assicura che le attività svolte dai tre paesi rimangano fermamente incardinate all’interno di un quadro europeo evitando con ciò che l’ue stessa venga relegata ad una posizione di secondo livello e di semplice ratifica di decisioni prese in altri consessi.
Queste ultime considerazioni ci fanno ben comprendere come il fatto di collegare strettamente tra di loro le capacità militari dei paesi europei ha un senso solo se tale processo è coronato da un consenso politico che riconosca il ruolo dell’ue come attore internazionale. Trattasi infatti di uno spinoso ed eterno problema della costruzione comunitaria che è, in definitiva, quello relativo all’istituzione di un vero “governo europeo” e dell’esercizio efficace della leadership politica.

Una Golden Rule per la difesa e sicurezza nell’Unione Europea

I bilanci europei, imbrigliati negli stretti vincoli di Maastricht non consentono ai paesi di procedere ad un aumento delle spese destinate al sostegno della politica di sicurezza e difesa con inevitabili conseguenze dal punto di vista di una piena realizzazione degli obiettivi di capacità militari necessari alla piena realizzazione di una difesa europea. Una finestra di opportunità è lasciata aperta qualora si adottasse una regola che introduca una innovazione qualitativa.
Se l’intenzione dell’Unione Europea e dei governi è quella di promuovere la r&d per risolvere il deficit tecnologico del settore della difesa e della sicurezza in un contesto continentale, c’è da chiedersi se non sia preferibile applicare anche a tale settore un approccio diverso da quello stabilito dai rigidi criteri di Maastricht e dal Patto di Stabilità e Crescita, che permetterebbe di rafforzare la stabilità economica e la crescita dei paesi europei abbinandola ad obiettivi di sicurezza.
La soluzione sarebbe quella di una piena accettazione di una golden rule.
Il Patto di stabilità e di crescita disciplina il comportamento fiscale dei paesi dell’Unione Europea, obbligandoli a rispettare il vincolo del bilancio in pareggio nel medio periodo e consentendo un deficit transitorio non superiore al 3 per cento del prodotto interno lordo. Nel conto del disavanzo non si fa distinzione tra spese correnti, cioè spese per consumi, e spese in conto capitale, volte cioè a finanziare investimenti. In tal modo, i governi di Eurolandia incontrano un serio ostacolo a realizzare programmi di investimenti pubblici, anche quando questi sarebbero necessari per la crescita e per la sicurezza.
La golden rule nella sua formulazione classica concerne la possibilità di escludere le spese per investimenti dal calcolo del rapporto deficit/pil. Considerato il contesto europeo in cui gli Stati membri operano si deve, tuttavia, procedere ad aggiungere tre importanti principi17. Il primo è un principio di flessibilità pluriennale che consente ai singoli paesi di governare le congiunture sfavorevoli, riconoscendo loro la possibilità di ricorrere alla spesa in deficit nei momenti difficili e recuperare nei momenti di crescita. Questo è possibile se il periodo su cui si calcola lo sfondamento del 3 per cento è un triennio e non più solo un anno. Il secondo principio concerne la qualità della spesa che deve essere volta a finanziare spese in conto capitale e non spese correnti.
Il terzo ed ultimo principio suggerisce che questa regola debba essere applicata solo a progetti che hanno una portata europea e una gestione sopranazionale. Lo scopo deliberato è quello di far sì che il loro finanziamento, anche in deficit, si differenzi dagli investimenti pubblici interni che costituirebbero un sostegno alla domanda interna con il risultato di generare tensioni inflazionistiche. Inoltre, nel finanziare solo progetti con portata continentale, si eviterebbero comportamenti opportunistici da parte dei singoli Stati che camufferebbero le spese correnti in spese in conto capitale.
È questa una svolta non solo quantitativa ma soprattutto qualitativa che permetterebbe alle spese per la sicurezza di entrare di diritto nell’agenda europea contribuendo in tal modo alla realizzazione di un meccanismo di top-down che farebbe sì che certe politiche vengano gestite non più a livello dei singoli Stati, bensì europeo e tenendo conto delle esigenze collettive dell’ue.
Questi temi richiedono una governance del sistema che concerne una pluralità di interventi coordinati a livello di Unione con la partecipazione attiva degli Stati membri che mantengono competenze essenziali in materia. Si dovrà favorire l’interpenetrazione delle differenti politiche dell’Unione e con un approccio che superi i limiti di una semplice cooperazione intergovernativa. Per questo di dovrà fare in modo che l’Unione Europea e gli Stati membri collaborino senza riserve per raggiungere gli obiettivi comuni nel rispetto delle competenze e degli interessi, dei valori e delle priorità di ciascuno dei protagonisti.
I risultati dei negoziati tenutisi in sede di Consiglio ecofin nel marzo 2005 per la revisione del Patto di stabilità e di crescita hanno riconosciuto una certa flessibilità relativamente allo sfondamento del 3 per cento del rapporto deficit/pil nel caso di riforme strutturali che a lungo andare hanno un impatto positivo sull’economia. Tutte le procedure automatiche sono state diluite ed è sparita la definizione automatica delle circostanze eccezionali che permetterebbero un deficit eccessivo temporaneo. Una maggiore discrezionalità è stata riconosciuta al Consiglio e lo strumento dello early warning è stato in parte depotenziato.
La riforma appare, tuttavia, incompleta. Gli Stati non hanno individuato ex-ante quali investimenti debbano essere considerati virtuosi ed hanno con ciò lasciato da parte la possibilità di decidere quali settori fossero meritevoli di essere coordinati a livello europeo. Tra questi avrebbe potuto rientrare quello della difesa. Non vi è alcun dubbio che la scelta nella direzione dell’accettazione completa dei principi della golden rule avrebbe rappresentato un passo strategico importante per il sostegno alla r&d nel settore e, infine, un avanzamento sostanziale sulla via della realizzazione di una maggior coordinazione in materia di difesa europea che sarebbe stata finalmente riconosciuta come una delle competenze specifiche dell’Unione.
Se l’Europa non si incammina sulla strada di un maggiore investimento nella r&d in materia di difesa rischia di mancare l’obiettivo della realizzazione di una più compiuta pesd e di mettere in pericolo l’interoperabilità, la complementarietà e la compatibilità delle forze sia a livello intraeuropeo che transatlantico. Un maggiore investimento in questo settore permetterebbe agli eserciti europei di ridurre il divario tecnologico con gli usa con effetti positivi per la realizzazione della difesa europea e un rinvigorimento del legame transatlantico, soprattutto attraverso la nato.

La Pesd e le relazioni Ue-Nato

Appare sempre più evidente come la ristrutturazione delle forze armate nei paesi europei debba avvenire non solo nel rispetto di quelli che sono i tradizionali obiettivi di sicurezza nazionale ma anche in ottica di convergenza europea e transatlantica. Il vero e principale divario tecnologico e militare è prima di tutto la scarsa capacità dell’Europa a provvedere alla propria sicurezza rispetto ai pericoli che la minacciano. È da questo punto di vista che l’Alleanza strategica con gli Stati Uniti risulta fondamentale e ci mostra come sia importante anche il divario in termini di assets e capabilities tra l’ue e l’alleato d’oltre oceano nella misura in cui questo ostacola l’interoperabilità delle rispettive forze armate e quindi l’efficacia delle loro azioni congiunte.
Di una cosa dobbiamo, comunque, essere consapevoli e cioè che l’attuale pesd non è un punto di arrivo, bensì una delle tappe attraverso cui gli Stati membri stanno progressivamente procedendo alla costruzione di un’Europa della difesa. Un giorno l’integrazione sarà un dato di fatto, frutto di tutti quegli avanzamenti, oggi chiamati in vario modo – cooperazione, specializzazione, forze multinazionali – ma che progressivamente stanno conducendo ad una maggiore integrazione.
Tenuto conto di questo processo in fieri, bisogna chiedersi fino a che punto dovrà spingersi l’integrazione a livello europeo, cioè se essa dovrà comprendere solo una porzione delle forze armate dei paesi membri oppure la loro integrità. Se non è possibile, ad oggi, fornire una risposta a questa domanda non si può, tuttavia non sottolineare come sia oramai un dato inconfutabile che l’Unione consumi sempre più l’energia politica degli Stati membri e come lo sviluppo delle istituzioni segua questa tendenza generale. La conclusione pertanto non può che essere quella per cui il potere militare e le connesse strutture saranno sempre più concentrate a livello di Unione e che la realizzazione di una difesa europea è solo una questione di tempo.
L’attuale pesd altro non è che una struttura intergovernativa, un po’ sullo stile della vecchia moda delle alleanze militari ma all’interno della struttura a pilastri dell’ue. È proprio sotto questo cappello europeo che si sta preparando a poco a poco il passo successivo che dovrebbe condurre ad una vera politica europea per la sicurezza e la difesa che sia genuinamente “comune”. La pesd, per come è strutturata, non potrà “comunitarizzare” il settore della difesa ma probabilmente potrà farlo il suo successore (cioè la Costituzione europea con il previsto meccanismo della cooperazione rafforzata permanente e l’istituzione di un’Agenzia europea per la difesa). Da questo punto di vista, pertanto, anche la specializzazione e la creazione di capacità comuni altro non sono che sintomi di una crescente integrazione supportata dalle necessità derivanti dalle limitazioni di bilancio e dai processi di approvvigionamento militare delle industrie della difesa in Europa.
Ma una più compiuta realizzazione della pesd dipende anche da un contesto internazionale più vasto che esce dalla portata e dal controllo degli Stati europei e riguarda la posizione di altri attori internazionali quali gli Stati Uniti, la Russia e la Turchia.
L’opinione dell’amministrazione Bush, relativamente allo sviluppo della pesd, appare, in linea di principio, favorevole a un tale sviluppo. In realtà gli usa sono preoccupati dell’impatto che essa può avere sulle relazioni transatlantiche e in seno alla nato. Da un punto di vista europeo, il nodo della questione è che, sebbene gli Stati Uniti vogliono che l’ue faccia di più in termini di condivisione degli oneri, non sembrano altrettanto desiderosi che essa acquisisca maggiori responsabilità e poteri decisionali. Gli usa sostengono che la nato deve avere un diritto di primo rifiuto relativamente a tutte le missioni che l’Unione Europea desidera intraprendere. Sono disposti a sostenere solo le missioni dall’ue realizzate nel quadro delle missioni di Petersberg e stimano che tutte le misure adottate debbano essere decise in seno alla nato18.
La Russia sembra non opporsi allo sviluppo della pesd. Dopo aver espresso reticenze riguardo allo sviluppo di una Forza di Reazione Rapida europea, il cui raggio di azione (4000 chilometri da Bruxelles) poteva coinvolgere anche il territorio russo, sembra cominciare ad accettare uno sviluppo della pesd, sebbene all’interno di un quadro transatlantico e non potenzialmente soltanto europeo. È altresì vero che il comportamento della Russia deve essere valutato prudentemente, poiché essa sta cercando di giocare un ruolo crescente in tutte le nuove strutture di sicurezza europee con il chiaro obiettivo di poter intervenire sullo sviluppo degli avvenimenti, assecondandoli, piuttosto che subendone conseguenze che non sarebbe altrimenti in grado di ostacolare qualora si trovasse in una posizione di isolamento19.
La Turchia, infine, membro della nato, non è disposta a permettere che l’Unione Europea acceda alla pianificazione nato, alla sua intelligence e alle sue capacità logistiche se la nato stessa non ha la sua parola da dire sulle operazioni che l’ue intende effettuare20. È quindi possibile che questo paese cerchi di bloccare attraverso vie indirette, lo sviluppo della pesd che è, inoltre, intrinsecamente e strategicamente collegata alle attività dell’Alleanza Atlantica poiché un’Europa più forte contribuirebbe in modo accresciuto alla definizione degli obiettivi della nato.
L’Alleanza Atlantica, che ha fondato il suo successo sul fatto di essere una organizzazione capace di tradurre in pratica in un breve lasso di tempo le decisioni prese a livello politico, sarebbe rinsaldata nella sua posizione poiché incarnerebbe una partnership più equilibrata ed efficace. Perché non è né militarmente sostenibile né politicamente auspicabile continuare a lasciare tutto il peso della sicurezza sulle spalle degli usa. L’obiettivo dell’Europa dovrà essere quello di portarsi in una posizione in cui la ripartizione degli oneri non sia più suddivisa in due strati sovrapposti, uno più importante dell’altro ma basata su due pilastri paralleli. L’Europa dovrà cercare di essere in grado di assumere l’onere delle operazioni previste dai “compiti di Petersberg aggiornati” (tenuto conto cioè del nuovo testo del Trattato Costituzionale) scegliendo, di conseguenza, di non dover sempre ricorrere a forze non sue per operazioni decise a supporto della propria politica estera e nella propria area di responsabilità. Le forze militari europee, per natura, obiettivi e dimensioni non rappresenterebbero certo un’alternativa alla nato quanto piuttosto un complemento. La nato resta, infatti, l’organizzazione capace di garantire la sicurezza e la difesa nell’area euro-altantica.
Con una scelta di tal genere l’ue confermerebbe il suo approccio olistico alla sicurezza, basato sull’utilizzo di strumenti civili, economici, diplomatici, finanziari e anche militari, mentre gli usa sarebbero orientati ad un genere di intervento definito di hard security. Se l’ue e gli Stati Uniti si renderanno conto della necessità strategica che hanno l’uno dell’altro, e se questi ultimi riusciranno a capire che il mantenimento della pace è parte intrinseca del processo di guerra, allora la nato potrà fungere da connessione per un futuro rapporto transatlantico costruttivo. Con questo genere di cooperazione l’ue, gli usa e la nato potranno occuparsi di tutti gli aspetti del ciclo della sicurezza offrendo una risposta flessibile a minacce imprevedibili e asimmetriche.
In questo risiede la chiave per il futuro delle relazioni ue-nato.
Ma la vera e ultima questione della difesa europea risiede nelle capacità di spesa dei governi che avranno un bel da fare per convincere i loro elettori ad investire di più nella loro sicurezza. Spetta agli europei fare il primo passo.


Note

1. Trattasi di operazioni umanitarie e di soccorso, operazioni di peace-keeping, operazioni di gestione delle crisi comprendenti anche le operazioni di peace-making.
2. Gerard Quille, “Implementing the defence aspect of the European Security Strategy: the Headline Goal 2010”, European Security Review, isis Europe, n. 23, luglio 2004.
3. Consiglio europeo di Salonicco, “Conclusioni della Presidenza”, 19-20 giugno 2003, par. 56.
4. Tali operazioni includono sia i compiti di Petersberg (nota 1) che, come indicato nel documento sulla Strategia di Sicurezza Europea, tutte le missioni concernenti le operazioni congiunte di disarmo, il sostegno a paesi terzi nella lotta al terrorismo e il sostegno per le riforme nel settore della sicurezza.
5. Consiglio dell’Unione Europea, “espd Presidency Report” Bruxelles 15 giugno 2004, Annesso 1.
6. Per dare un’idea delle carenze degli Stati europei in termini capacità, l’Iniziativa sulle capacità di difesa lanciata dalla nato nell’aprile 1999, aveva individuato 58 lacune nelle capacità militari europee, tra cui servizi di supporto militare e sanitario; trasporto aereo tattico; trasporto navale tattico; risorse per la gestione di comando, controllo, comunicazioni, computer, informazione e sorveglianza e riconoscimento (C4ISR), soppressione della difesa aerea nemica (sead), comando aviotrasportato sul campo, interoperabilità e ricerca e salvataggio in combattimento (csar). Per parte sua, nel 1999, l’inventario ueo sulle capacità militari europee aveva individuato gravi carenze nei servizi di informazione e nella programmazione tattica, ponendo l’accento sulla necessità di migliorare profondamente la sostenibilità, la capacità di sopravvivenza e l’interoperabilità.
7. “Declaration on UE Military Capabilities” 19th and 20th May 2003, “Capability Improvement Chart” II/2004 on 17tn November 2004 and “Military Capability Commitment Conference” on 22nd November 2004.
8. L’Identità di Sicurezza e Difesa Europea rappresenta il pilastro europeo in seno all’Alleanza Atlantica.
9. Lord Roberson ha dichiarato in occasione della conferenza - Defence and Security in an Uncertain World– «we need to focus more on improving those capabilities which are most critical for the success of a transatlantic military coalition. The European Allies cannot hope to match the US system-for-system. But even the US is not militarily self-sufficient. It has its own shortcomings. The European and Canadian Allies should thus have a closer look at which capabilities they can offer to a common operation», Bruxelles, 17 maggio 2002.
10. Per ben spiegare la necessità di una forza armata europea autonoma e autosufficiente si pensi, a titolo di esempio, all’ipotesi di un riaccendersi del conflitto nei Balcani mentre gli americani sono impegnati in altri teatri.
11. Fonte: The IISS Military Balance, 2003-2004, IISS, London in Burkard Schmitt, “Defence Expenditure (last update July 2004)”, Institute for Security Studies. Per completare in ordine decrescente la lista abbiamo: Svezia 1,7 per cento, Estonia, Danimarca e Paesi Bassi con l’1,6, Slovenia e Germania con l’1,5, Finlandia 1,4, Belgio 1,3, Spagna, 1,2, Lussemburgo 0,9, Austria 0,8 e Malta 0,7 per cento del pil.
12. Regno Unito, Francia, Germania, Italia, Spagna, e Svezia.
13. Burkard Schmitt, “Defence Expenditure (last update July 2004)”, Institute for Security Studies.
14. Alistair J. K. Shepherd, «The European Union’s Security and Defence Policy: A Policy without Substance?», European Security, Vol. 12, n. 1 (Spring 2003), pp. 39-63.
15. La cooperazione strutturata permanente consiste in una procedura che apre la possibilità ad un gruppo di Stati di cooperare più strettamente tra di loro all’interno del quadro istituzionale unico dell’Unione Europea, seguendo regole e procedure prestabilite e accettate da tutti.
16. Sven Biscop, “European military integration: beyond the headline goal”, and Julian Lindley-French, “A long-term perspective on Military integration”, E Pluribus Unum? Military Integration in the European Union, Bruxelles,12 maggio 2005.
16. A proposito della “Golden Rule “ si veda: Renato Brunetta, “Gruppo di lavoro PPE-DE Costituzione economica” 2 febbraio 2002; Renato Brunetta, “Questo patto di instabilità”, Panorama, 21 gennaio 2005; R. Brunetta, A. Preto, G. Tria, “Immigrazione, alla ue serve una golden rule”, Il Sole 24 Ore 20 agosto 2004.
17. “La politique européenne de sécurité et de défense (pesd)”, Security & Defence, mercoledì 26 gennaio 2005.
19. Dov Lynch, “Russia faces Europe”, Challot Paper n. 60, Institute for Security Studies, maggio 2003.
20. “La politique européenne de sécurité et de défense (pesd)”, Security & Defence, mercoledì 26 gennaio 2005.

Gloria Martini, è manager per la gestione di progetti internazionali presso Aerospace and Defence Industries Association Europe (Asd) di Bruxelles.

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