E poi, se uno non vuol vedermi in tv, c’è sempre il telecomando».
Così concludeva Berlusconi, rispondendo in una trasmissione all’ennesima
accusa di presenzialismo televisivo. In questa battuta sta tutta la forza
del comunicatore, e insieme del liberale: convinto della capacità
di chi lo ascolta di decidere da sé, senza che sia necessario impedire
di ascoltarlo.
Migliaia di pagine sono già state scritte sulla capacità comunicativa
di Berlusconi, tutte più o meno concordi nel riconoscere al fondatore
di Forza Italia il fatto di essere intervenuto in maniera dirompente nel
linguaggio della politica, cambiandone per sempre le regole. Non di rado,
questo riconoscimento si è accompagnato al tentativo di rintracciare
la causa della forza espressiva di Berlusconi in un substrato da cui originerebbe,
e che basterebbe a spiegarla. L’intelligenza comunicativa dell’uomo
è stata così ricondotta alla situazione dell’imprenditore,
magnate di un imponente gruppo mediatico, in particolare di tre reti televisive.
Un’inferenza corretta solo in parte: è evidente che non tutti
i tycoon sanno comunicare con efficacia, così come non tutti i grandi
comunicatori lavorano nel settore editoriale, o possiedono tv e giornali.
Eppure, la coesistenza in Berlusconi del carisma mediatico e dell’esperienza
nell’industria dei media è stata spesso interpretata come una
relazione causale, soprattutto dai suoi detrattori. Nel migliore di casi,
la relazione suona: se il Cavaliere è riuscito a mettere in atto
una serie di innovative strategie di comunicazione politica, ciò
è stato anche e soprattutto grazie alla sua vicenda professionale.
Nel caso peggiore, il sillogismo dice: Berlusconi è riuscito a entrare
in politica, fondando un movimento divenuto in breve tempo il primo partito
italiano e restando in primo piano nell’agone politico per dodici
anni, per via del supporto assicuratogli dal sapiente utilizzo dei media
al suo servizio, soprattutto le sue televisioni.
Vale la pena di occuparsi solo molto brevemente della seconda opinione,
sempre più rara anche tra i più accaniti detrattori di Berlusconi.
I sostenitori di questa opinione sono sensibilmente diminuiti dopo la sconfitta
elettorale del centrodestra nel 1996, e dopo la vittoria del 2001, ottenuta
nonostante la legge approvata un anno prima dal governo di centrosinistra,
che assicurava pari condizioni di esposizione mediatica a tutte le forze
politiche. Dimostrare in maniera attendibile che le tv di Berlusconi veicolano
messaggi in grado di agire a suo favore sulle opinioni politiche del pubblico
pone una serie di problemi, ben noti ai ricercatori che si destreggiano
tra le teorie sugli effetti dei media. Risultati come quelli citati hanno
indotto, in questo e in precedenti casi, un profondo ripensamento a proposito
delle tesi di stampo horkheimeriano sull’onnipotenza dei media, sull’immediatezza
del loro influsso persuasorio, e sulla passività dell’opinione
pubblica. Lo stesso Umberto Eco, fresco di pubblicazione di un volume che
raccoglie i suoi articoli contro il populismo mediatico, dice in un’intervista
al Corriere della Sera che non scommetterebbe un decimo del suo stipendio
sull’efficacia elettorale delle forsennate comparse in video di Berlusconi
(viene da chiedersi in cosa consista dunque la temibile minaccia del Cavaliere
imprenditore televisivo).
Anche sulla prima opinione, quella che lega la bravura comunicativa di Berlusconi
al suo mestiere, ci sarebbe da obiettare; non prima tuttavia di averla ulteriormente
precisata. Chi sostiene che il Cavaliere abbia trasferito una maniera espressiva
dalle tv alla politica, può voler dire due cose: la prima, che Berlusconi
abbia fatto leva sul modello sociale e culturale diffuso nelle sue televisioni
e sui suoi giornali per prospettare al paese una condizione desiderabile,
raggiungibile sotto la sua guida. La seconda, che Berlusconi abbia sperimentato
in politica tecniche di comunicazione applicate con successo nelle sue aziende.
La prima interpretazione è stata suggerita quando i suoi avversari
hanno voluto sottolineare la banalità, l’inconsistenza, l’illusorietà
del modello televisivo – incarnato da Berlusconi, e da lui proposto
agli italiani – di fronte alla realtà “vera” del
paese, bisognoso di serietà, di gravità, di sacrificio. Gli
avversari del berlusconismo hanno insistito fino alla nausea sulla superficialità
di una proposta politica che enfatizzava, a loro dire, l’estetica
contro l’etica, la spettacolarità contro l’istituzionalità,
l’apparire contro l’essere. Fino a che, tra il sorriso di Silvio
e il broncio degli altri, è stato il primo a riuscire vincitore,
mostrando come fosse possibile guadagnare la fiducia degli elettori anche
senza essere controfigure di Nosferatu – di più, convincendo
gli italiani che la concretezza, la capacità di realizzazione, la
progettualità stavano dalla parte dell’allegria, e non dei
musi lunghi. Tanto da costringere gli sfidanti a cambiare rotta, senza peraltro
ottenere gli stessi risultati: pur presentando il candidato fisicamente
più prestante, o frequentando oltre alle tribune politiche anche
trasmissioni di intrattenimento, iniziando persino a tingersi i capelli.
E soprattutto, organizzando una campagna di comunicazione politica con tutti
i crismi, orchestrata da esperti internazionali, studiata a tavolino così
come fino al minuto prima era stata accusata di fare la compagine di centrodestra.
Qui veniamo alla seconda interpretazione, che è una fattispecie più
ampia della prima. Così come la politica-spettacolo, il partito-azienda,
e la gestione dell’Italia come della Fininvest sono state per anni
le bestie nere dell’opposizione. Senza dubbio Berlusconi è
stato il primo in Italia a trattare la sua proposta politica come un prodotto,
da ideare, confezionare, posizionare e promuovere; tuttavia, senza cessare
di biasimarlo, i suoi avversari lo avrebbero di lì a poco imitato.
Se è presumibile che proprietari di aziende abbiano dimestichezza
con gli strumenti del marketing, per ottenere con questi strumenti il successo
politico è necessario qualcosa in più. Maggiore esperienza?
Non necessariamente, dal momento che, dopo due anni dalla sua discesa in
campo, Berlusconi è stato battuto da una compagine ancora ben lungi
dal penetrare i segreti del marketing; e nel 2001 egli stesso ha sconfitto
Rutelli, supportato dal navigato gruppo statunitense Greenberg.
Forse l’asso nella manica del comunicatore Berlusconi non è
tanto, né solo, la sua carriera di imprenditore televisivo o di esperto
di marketing. Forse valgono di più le doti che hanno consentito straordinarie
invenzioni lessicali (prima che politiche o economiche) – facendo
parlare di “discesa in campo”, di “nuovo miracolo italiano”,
di “presidente operaio”, di “contratto con gli italiani”
dove poco tempo prima risuonavano le “convergenze parallele”.
Forse contano di più le virtù che hanno permesso, scattato
il bavaglio della par condicio, di escogitare nuovi canali per raggiungere
gli elettori; i cartelloni 6x3, il libretto Una storia italiana, la lettera
ai bambini nati nel 2005. Doti per nulla artificiali, ma tanto connaturate
al personaggio da esprimersi in maniera persino sorprendente (talvolta eccessiva),
in momenti di corto circuito tra pubblico e privato: le battute tanto frequenti
quanto equivocate, i gestacci prontamente ripresi dai fotografi, che hanno
sconvolto il protocollo a cui una certa maniera politica ci aveva abituati.
Eccole, queste doti: creatività, ironia, prontezza d’animo,
spirito di iniziativa, semplicità dell’espressione. Caratteristiche
che non si addicono alla specie di Grande Fratello che da dodici anni qualcuno
ci dipinge, ma a un uomo libero, che tanto più si sorprende quando
lo si accusa di voler conculcare agli altri proprio questa libertà.
Il segreto di Silvio Berlusconi è il telecomando: non l’emblema
del suo presunto strapotere, ma il simbolo della sua offerta di libertà
a tutti gli italiani. E se qualcuno non accettasse, basta cambiare canale.
Paola Liberace, giornalista.
(c)
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