Alle radici dell'economia informale
intervista a Hernando de Soto di Maurizio Stefanini
Ideazione di marzo-aprile 2006

Quando Sergio Leone si trovò improvvisamente proiettato dal rango di “regista di serie B” a quello di “maestro del cinema di genere”, divenne un suo vezzo ripetere una battuta che sembrava presa di peso dal repertorio dei protagonisti dei suoi spaghetti-western: «Da un po’ di tempo io e la critica siamo diventati come culo e camicia, ma non ho ancora capito bene chi è il culo e chi la camicia». Mutatis mutandis, è lo stesso che potrebbe ora dire Hernando de Soto nei confronti dell’intellettualità progressista e terzomondista. Quando nel 1987 il suo libro El otro sendero lanciò la parola d’ordine della “rivoluzione informale”, infatti, a sinistra ebbe l’effetto di una bomba. E non solo in senso figurato, visto che Sendero Luminoso ne mise una all’Istituto per la Libertà e la Democrazia (ild) che questo lontano discendente di genovesi trapiantati in Perù tre secoli fa aveva fondato per dedicarsi allo studio sociologico dell’imprenditoria dei ceti marginali, dopo una brillante carriera di imprenditore, economista del gatt e direttore del Banco Central de Reserva di Lima. De Soto osava infatti dire che il sottosviluppo latino-americano non nasceva dal capitalismo, ma proprio dalla sua assenza. Le società latino-americane, argomentava, non erano in realtà né capitaliste e neanche feudali, ma un fossile di quello statalismo mercantilista che in Europa e Nord America era stato spazzato via con le grandi rivoluzioni “borghesi”, mentre lì era sopravvissuto in una nicchia ecologica di arretratezza, a soffocare e buttare nell’illegalità quella capacità imprenditoriale di base che per sopravvivere i poveracci tiravano fuori con la forza della disperazione. «Lo stesso Ronald Reagan disse all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che era quello il libro da leggere», ricorda de Soto. E El otro sendero fu esaltato e demonizzato, ma più demonizzato che esaltato, proprio come una specie di “manuale per reaganiani-tatcheriani latino-americani”. Ma molta acqua è da allora passata sotto i ponti. E specie dopo che nel 2000 de Soto ha consegnato alle stampe un altro best-seller intitolato Il mistero del capitale, i consensi sono ormai diventati maggioritari anche tra chi prima lo contestava. Non solo l’Economist ha indicato il suo ild tra i think tank più influenti del pianeta, Time lo ha messo tra i cinque maggiori innovatori dell’America Latina nel XX secolo, George Bush padre ha detto che «la ricetta di de Soto offre una chiara e promettente alternativa alla stagnazione dell’economia», Bill Clinton lo ha definito «il più grande economista vivente al mondo», presidenti e primi ministri se lo contendono come consulente. Il fatto che sia stato tradotto in italiano Il mistero del capitale dopo che era stato ignorato El otro sendero è un segnale inequivocabile di come de Soto abbia ormai sfondato anche nel mondo progressista, se si tiene presente quali direzioni ideologiche prevalgono nell’editoria italiana. Le stesse ong impegnate nella cooperazione allo sviluppo italiano, tradizionalmente o di sinistra o ispirate al solidarismo cattolico, adesso lo vanno ad applaudire ogni volta che parla in pubblico. Ed è stato il presidente del Brasile Luiz Inácio da Silva Lula, in passato idolo della sinistra, a fare delle proposte del Mistero del capitale un programma di governo, nel momento in cui ha parlato di consegnare agli abitanti delle favelas i titoli di proprietà dei terreni da loro occupati. Lula però non è riuscito poi a farne niente. Perché il diritto di proprietà in Brasile non dipende solo dalla legislazione federale, ma anche e soprattutto da quella dei singoli Stati. Rivolgiamo queste stesse osservazioni allo stesso de Soto.

Si ritrova in questo quadro che abbiamo rappresentato?
È vero, da un po’ di tempo mi coccolano in molti. Negli Stati Uniti sono ormai popolare tra i democratici almeno quanto lo ero prima tra i repubblicani, e pure da sinistra trovo apprezzamenti. Ma, malgrado tutto quello che si dice sulla mia influenza, il grande problema del Terzo Mondo resta sempre quello. Da una parte, coloro che sono interessati all’economia di mercato non sono interessati ai poveri. Dall’altra, quelli che sono interessati ai poveri non credono al mercato. Molti dei liberali che hanno esercitato il potere negli anni ’90 in America Latina hanno perduto un’opportunità d’oro per accompagnare ai pur necessari aggiustamenti macroeconomici il grande cambio dell’inserimento delle masse nel sistema a livello microeconomico. Qualche gesto verso i poveri l’hanno fatto, ma alla fine non hanno dedicato loro neanche il 5 per cento del loro tempo. Poiché io però non credo che il mercato debba essere monopolio solo della destra o dei liberali, ho sperato che l’America Latina avesse i suoi Blair, invece della sinistra primitiva che spesso si ritrova. Ma anche di lì sono venute delusioni. Ho avuto grande fiducia nel presidente peruviano Alejandro Toledo, che pure viene dalla sinistra, ma ha dimostrato di non essere all’altezza. Ho sperato poi che fosse Lula a darci una bella sorpresa, continuando con politiche ortodosse in campo macroeconomico, e comprendendo che l’aiuto ai poveri non passa solo per la redistribuzione, ma anzi soprattutto per la creazione di ricchezza. Ma dalla Caracas di Chávez a quelle montagne afgane e pakistane in cui si nasconde bin Laden, tra i guerriglieri di Falluja e Baghdad, tra i cocaleros che in Bolivia votano per Evo Morales, nello stesso Messico dove secondo i sondaggi sarebbe in testa per le prossime presidenziali un candidato che non ha passaporto e non è mai uscito dal Messico, si delinea un movimento mondiale di esclusi che dimostra come la caduta del Muro di Berlino ha rappresentato la sconfitta del comunismo, ma non la vittoria del capitalismo.

Questo perché? La globalizzazione capitalista non ha portato al Terzo Mondo i risultati sperati?
Non è vero che il Terzo Mondo non sta andando avanti. Le persone che vivevano con meno di un dollaro al giorno sono passate dal 55 per cento dell’umanità alla fine della seconda guerra mondiale al 20 per cento di oggi; nello stesso periodo l’aspettativa di vita in India è passata dai 27 ai 67 anni; e la mortalità infantile nel Terzo Mondo è oggi la stessa che c’era in Europa nel 1950. Ma dei sei miliardi di abitanti che ha il mondo oggi, appena un miliardo appartiene ai paesi sviluppati, un altro miliardo a quell’élite dei paesi sottosviluppati di cui faccio parte anch’io, e che partecipa anch’essa dei benefici della globalizzazione. Gli altri quattro miliardi continuano a starne fuori, e ciò spiega perché quella stessa globalizzazione, pur con tutto quel che di positivo rappresenta, viene sempre più contestata. Dagli studi che ho fatto in Egitto per conto del presidente Mubarak, ad esempio, ho scoperto che il 92 per cento della proprietà della terra non corrisponde al registro legale, e neanche sta nei registri ufficiali l’86 per cento delle imprese. E il valore di tutta questa economia extralegale corrisponde a 248 miliardi di dollari: 55 volte tutto l’investimento privato che c’è stato in Egitto dai tempi di Napoleone, 40 volte i prestiti della Banca Mondiale e 90 volte l’aiuto bilaterale all’Egitto. Per il presidente Fox abbiamo fatto un lavoro analogo, ed abbiamo visto che sono fuori dalla legge il 47 per cento di tutti i salariati messicani in modo totale, e addirittura l’80 per cento se consideriamo anche il tempo parziale: 78 milioni di persone! Gli attivi extralegali rappresentano 11 milioni di edifici, 134 milioni di ettari e 6 milioni di imprese, per un valore di 315 milioni di dollari: 7 volte l’intera riserva petrolifera messicana. Ora, per importare o esportare bisogna avere un passaporto di importazione. Se l’attività che si fa è informale, non riconosciuta, non si possono avere questi documenti. Chi ha dunque la possibilità pratica di profittare della globalizzazione mettendo materialmente le proprie mercanzie sui container di un aereo o di una nave? Il 20-30 per cento dei latinoamericani, il 2 per cento degli africani.

C’è in compenso il boom cinese…
C’è il boom cinese. Ma in realtà, su 1,3 miliardi di cinesi, solo 250 milioni hanno profittato dell’apertura capitalista iniziata con le riforme di Deng Xiaoping a partire dal 1978. Gli altri stanno fuori, e se guardiamo bene la proporzione percentuale è più o meno analoga a quella dell’America Latina. Anche lì, non stanno nel mercato più del 20-30 per cento dei cittadini. E anche lì, chi sta fuori è sempre più scontento. In Cina l’anno scorso ci sono state oltre 74.000 ribellioni, in cui sono stati feriti almeno 10.000 agenti di polizia. In fondo la Cina non sta oggi in una posizione tanto differente da quella di noi latinoamericani. Noi latinoamericani, secondo uno storico colombiano, dal 1820 abbiamo approssimativamente tentato ben cinque volte di convertirci in economie di mercato, ed abbiamo fallito tutte e cinque. Abbiamo fallito e siamo tornati al populismo o a regimi di centralizzazione economica, di patrimonialismo accentuato. E sappiamo che ci sono problemi del genere anche in Africa. Di recente stavo parlando col presidente nigeriano Obasanjo, che ci aveva chiamato per esaminare i suoi problemi di economia sommersa. Prima del colloquio mi ero un po’ studiato l’Almanacco mondiale per imparare le cose essenziali, e quindi a un certo punto gli dissi: «Il vostro è un paese molto grande, con 120 milioni di abitanti». Sa che mi ha risposto? «Be’, 120, 180, chi lo sa?». Si rende conto? Ci sono paesi che non sanno neanche se hanno 60 milioni di abitanti in più o in meno!

E quali sono le ragioni di questa dicotomia tra paesi sviluppati e Terzo Mondo? È comune prendersela con le differenze culturali…
Lo diceva ieri Max Weber; lo dicono oggi, su versanti opposti, Samuel Huntington e Hugo Chávez. Io però constato che non si può andare in una città del Terzo Mondo senza essere assaliti ogni dieci metri da una folla di venditori ambulanti. Né andare per un’area rurale africana suppostamente a regime di proprietà tribale comunitaria senza constatare che ogni cento metri abbaia un cane diverso. Insomma, l’imprenditorialità e l’aspirazione alla proprietà sono inerenti a ogni essere umano. D’altra parte, dalla storia impariamo che otto secoli fa gli arabi avevano una società capitalista sviluppata, tant’è che furono loro a inventare lo cheque. Mentre le lettere di George Washington ci rivelano che metà delle terre del primo presidente degli Stati Uniti erano state occupate da quelli che lui definiva all’italiana banditi, e che oggi verrebbero definiti sem terra in Brasile, piqueteros in Argentina, invasores in Perù. «Quand’è che se ne andranno questi banditi dalle mie terre?», chiedeva al suo avvocato. «Mai. Gli dia i titoli di proprietà, e ringrazi che non le bruciano la casa», fu la risposta.

Nei suoi libri e nelle sue conferenze lei dà molto spazio alla storia di come il capitalismo del mondo sviluppato sia nato dalla rivolta dei lavoratori informali. Tuttavia ci sono alcune differenze di fondo tra El otro sendero e il Mistero del capitale. El otro sendero sembra essere impregnato di ideologia libertarian, o anarco-capitalista che dir si voglia. Lo Stato è male, sembra essere la sua conclusione, perché non fa altro che frapporre ostacoli a chi vuole intraprendere. Se al limite sparisse del tutto, non sarebbe che un bene. Viceversa, Il mistero del capitale sembra più vicino all’impostazione del liberalismo classico: lo Stato deve fare poche cose bene e non può permettersi il lusso di farne tante male...
Effettivamente c’è stata un’evoluzione che merita di essere analizzata. I motivi dell’evoluzione geografica sono semplici da spiegare: poiché il successo di El otro sendero ci aveva messo in contatto con paesi di tutto il mondo, a un certo punto è divenuto indispensabile riaffrontare quell’analisi tenendo conto dei punti di vista offerti da altre culture. Ma per quanto riguarda l’evoluzione ideologica, non bisogna dimenticare il contesto storico in cui il mio primo libro è nato. Non solo stavamo scoprendo in quel momento che razza di imbroglio fosse l’eccesso di Stato in Perù, ma in quel momento era in pieno corso l’offensiva di Sendero Luminoso, che proponeva un modello di Stato ancora più onnipotente. Fin dal titolo, quel libro di guerra voleva indicare che per risolvere i nostri problemi dovevamo trovare una nuova uscita. Un altro sentiero. Ma devo anche confessare che in quel momento non avevo ancora intravisto quella nozione del diritto come strumento per rimuovere ostacoli alla crescita della produttività che è alla base del Mistero del capitale. È stato solo negli anni ’90 che l’ho scoperto. Volendo trovare una parola per catturare questa energia vitale, mi concentrai sul concetto di energia, per il suo fondo metafisico. Nessuno di noi ha mai visto o toccato una cosa chiamata energia, eppure riusciamo lo stesso a comprendere l’energia: cinetica, meccanica, solare, nucleare… L’energia non è altro che un concetto, ma un concetto potente. E a un certo punto ho capito che anche quello di capitale era un concetto potente. Una nozione vitale di cui gli Smith e i Marx avevano compreso tutta la potenza, ma che noi abbiamo in seguito perso, perdendo così anche il senso che ci deve essere un diritto in grado di permettere la creazione della Dailyvalenza. Ho chiesto al mio amico Francis Fukuyama perché secondo lui mentre il mondo occidentale è caratterizzato dall’inclusione delle persone, nel Terzo Mondo regna invece quella terribile esclusione di masse cui poi cerchiamo di porre rimedio con trovate ingegnose, come ad esempio il microcredito. Fukuyama mi ha risposto che si tratta di un problema di fiducia: c’è un fattore X che predispone gli occidentali alla cooperazione reciproca. Inchieste empiriche hanno dimostrato che è vero: mentre il 66 per cento degli svedesi e il 55 per cento degli americani dicono di avere fiducia nei propri compatrioti, solo il 7 per cento dei boliviani e il 5 per cento dei peruviani rispondono allo stesso modo. Ma cos’è che crea questa fiducia reciproca se non un sistema di diritti di proprietà affidabile? Quando è iniziata in Inghilterra la Rivoluzione Industriale il diritto anglo-sassone è stato smantellato, perché era stato concepito per una società feudale. Si è cercato allora di sostituirlo col diritto romano, che era adatto a tutelare le transazioni commerciali, ma meno efficace per le registrazioni o la microimpresa. Tutto il mondo occidentale ha dunque dovuto adattarlo. La Svizzera è stata uno dei paesi più poveri d’Europa fino a quando la riforma del codice del 1908 non ha ridotto i modi per concludere un contratto da 179 a uno solo. E allora è decollata. La Germania la stessa rivoluzione l’aveva già fatta con la Commissione che nel 1806 diede il diritto di proprietà ai contadini prussiani, in cambio del loro consenso a farsi arruolare come soldati contro Napoleone. Negli Stati Uniti ci sono stati i 32 Acts con cui si è introdotto l’homesteadt, per dare anche al più povero cow-boy l’accesso alla proprietà della terra. Il mio istituto ha fatto un’importante ricerca con i sette ottantenni superstiti della commissione cui MacArthur aveva dato l’incarico di riformare il diritto giapponese. Gli americani avevano compreso come le radici dell’imperialismo giapponese risiedessero in un sistema feudale che provocava continue rivolte contadine, costringendo i cittadini ad andare all’estero, come invasori o come emigranti. Se i genitori di Fujimori negli anni ’30 emigrarono in Perù, è perché allora il Perù era più ricco del Giappone. Ancora oggi il 90 per cento di tutte le guerre e le violenze di cui si legge sui giornali e che accadono nel mondo sono legate a problemi per la definizione del territorio e della proprietà. Dal Ruanda al Sudan, a Cipro, a Israele, alla Palestina, alla Georgia, ai Senza Terra del Brasile, alla filippina isola di Mindanao.
Ma è corretto identificare nell’informalità il solo indice del sottosviluppo? Dopotutto l’Italia è un’economia avanzata dove il sommerso è addirittura galoppante.
Se è solo per questo, l’ild è stato invitato da importanti istituzioni finanziarie usa a calcolare quanto capitale morto vi sia negli Stati Uniti. Le prime stime ci dicono che tra città alla frontiera col Messico, riserve indiane e ghetti delle grandi città potrebbero esserci almeno 20 milioni di americani che sono fuori del sistema. Ma 20 milioni di americani fanno il 7 per cento dell’economia. Non l’80 per cento come nel Perù. Certi fenomeni ci sono in tutti i paesi, ma con proporzioni ben distinte.

Si può ricordare che la Norvegia è il paese col più alto tasso di sviluppo umano del pianeta, eppure nelle sue isole artiche le autorità hanno chiesto al “banchiere dei poveri” Muhammad Yunus di esportare i sistemi di microcredito nati per il Bangladesh e poi adottati in tutto il Terzo Mondo. Ebbene, non solo de Soto e Yunus sono stati i due profeti del capitalismo informale nel Terzo Mondo, ma addirittura Il mistero del capitale affronta lo stesso problema del finanziamento dell’imprenditoria informale cui ha cercato di rispondere il microcredito, ma con un’altra soluzione: la formalizzazione dei titoli di proprietà informali, in modo da poterli ipotecare per accedere ai canali di credito normali. Sono approcci complementari o antitetici? E come mai de Soto e Yunus pur combattendo la stessa battaglia non si citano mai nei rispettivi libri?
In realtà io e Muhammad siamo amici, anche se non particolarmente stretti. Io ammiro molto il suo lavoro, che considero complementare al mio. Lui ha portato il credito a quei poveri tra i poveri dove non era mai arrivato, ha dimostrato che anche i poveri sono imprenditori se gli si dà l’opportunità, ha fatto vedere che sono addirittura affidabili come debitori. Non ci citiamo nei nostri libri, ma io parlo bene di lui nelle interviste, lui fa altrettanto di me ed ha anche mandato alcuni dei suoi a lavorare col mio Istituto. Detto questo, però, io credo che il microcredito non possa essere una soluzione globale. In Perù non arriva allo 0,5 per cento del credito totale. Il microcredito è utile, ma per emancipare veramente i poveri bisogna dare loro quell’identità imprenditoriale che permetta loro di accedere al credito normale. E ciò si può fare solo con la riforma istituzionale. Credito, d’altronde, deriva da credibilità. Io credo in te. E qui un altro colloquio istruttivo che ho avuto occasione di fare è stato col presidente della Riserva Federale usa, Alan Greenspan. Chiedevo a Greenspan, come fa lei a porre liquidità nell’economia degli Stati Uniti? La sua risposta: «Tento di vedere i movimenti nei mercati, vedo quanto denaro è necessario per avere transazioni e quanto denaro è necessario per creare credito, e poi agisco». Gli ho ancora chiesto: «E che lei ha un servizio di intelligence che sorveglia tutte le fabbriche?». «Ma no – dice lui – in economia non va così. Io mi rendo conto della fisicità del movimento attraverso quanto mi dà il mercato di carta». «E che tipo di mercato di carta?». «Quello dei titoli di proprietà. Guardo le Borse, vedo i movimenti, capisco di quanto si sta muovendo l’economia, e in base a questo so che quantità di credito devo porre». «Qui la volevo» gli faccio. «Immagini di essere responsabile della Banca Centrale di un paese in cui l’80 per cento della proprietà non è registrata. Come farebbe a immettere denaro?». «Ah, davvero non lo so!». «Bene, questa è la situazione in cui nel mondo vivono cinque miliardi di persone. E come in Perù, ogni volta che si immette denaro sul mercato, l’unica cosa che si ottiene è inflazione. Questo perché il credito non viene dal denaro, ma dal denaro che corrisponde a una ricchezza reale. Seconda domanda: lei come introduce materialmente i soldi nel sistema, li mette in due sacchi come Zio Paperone e poi li pone sulla tavola?». «Certo che no. La forma in cui si fa è che le banche negli Stati Uniti prestano denaro in cambio di garanzie, noi poi andiamo discontando queste garanzie, e in questa maniera poniamo denaro nel mercato». «Bene. Immagini allora lei che il 92 per cento della terra non stia sul mercato. E che non vi sia quindi un’informazione precisa dell’economia, come in Messico, dove sono fuori dal mercato 142 milioni di ettari. Le azioni di una compagnia non sono altro che un titolo legale rotto in migliaia di pezzettini. Che succede se come succede in Perù o in Tanzania il 98 per cento di tutte le attività produttive sta fuori dalla legge? Lei può trarvi capitale? Semplicemente, no».


Hernando de Soto, fondatore e presidente dell’ild (Institute of Liberty and Democracy) di Lima, in Perù. È stato il principale consigliere economico del presidente peruviano Alberto Fujimori.

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