
 
      Nella storia della nostra intellighenzia di sinistra vi sono, non dirò 
      delle pietre miliari, ma almeno dei paracarri, che segnano la strada della 
      sua evoluzione. Ovviamente, il primo cippo sarà rappresentato dal 
      congresso di Livorno del 1921, che sancì la scissione del socialismo 
      con la nascita del Partito comunista d’Italia, sezione dell’Internazionale. 
      È nota l’attenzione che dedicò ad esso, ed al gruppo 
      torinese che ne fu tra i promotori, riunito attorno a Gramsci e a Terracini, 
      Piero Gobetti. Ma l’Italia viveva il “biennio rosso” e, 
      come reazione ad esso, furono in molti a credere nel “listone”, 
      salvo risvegliarsi col delitto Matteotti. Alcuni studenti torinesi, riuniti 
      attorno al loro professore, Umberto Cosmo, ebbero il coraggio di rispondere 
      alle offese di Mussolini nei confronti di Benedetto Croce («un imboscato 
      della storia»), con una lettera aperta che fu all’origine del 
      manifesto, promosso da Giovanni Amendola, in risposta all’appello 
      di alcuni intellettuali fascisti riuniti a congresso a Bologna nell’aprile 
      del ’25. Ma quando si capì che la svolta dittatoriale del colpo 
      di Stato del 3 gennaio (le leggi eccezionali), non avrebbe trovato un argine 
      costituzionale nella figura del re, e che ci si avviava anzi verso una stabile 
      diarchia, tra fascismo e monarchia, furono in molti, tra i firmatari di 
      quel manifesto che, anziché impegnarsi nella battaglia politica, 
      si rinchiusero in una sorta di torre d’avorio. 
      «Sono sicuro – scrisse Giovanni Gentile quando si trattò 
      per gli insegnanti di giurare fedeltà, oltre al re, anche al regime 
      – che, tranne quattro o cinque [...] giureranno in buona coscienza, 
      lealmente, e proveranno che dal 1925 al 1929 anche l’Italia intellettuale 
      ha fatto cammino, e l’antimanifesto va buttato, finalmente, in soffitta». 
      In effetti, solo undici furono i professori universitari che rifiutarono 
      il giuramento loro imposto. Ai cattolici, Pio XI offrì la scappatoia 
      di intendere la dizione “regime fascista” nel senso di “governo 
      dello Stato”; ma lo stesso Croce, a quanti gli si rivolgevano angosciati 
      per consiglio, suggerì di piegarsi «per continuare il filo 
      dell’insegnamento secondo l’idea della libertà»1.
      Non parrebbe, tuttavia, che quel filo fosse stato trasmesso intatto. Almeno, 
      a sentire quanto diceva un giovane reduce dalla prigionia nel dopoguerra, 
      rivolgendosi direttamente ad Alcide De Gasperi, passato indenne lungo gli 
      anni del regime, nel rifugio della Biblioteca Vaticana: «È 
      vero che noi giovani fummo educati in clima fascista, è vero che 
      fummo fascisti. Ma di quelli che ci credettero sul serio, cioè uomini 
      migliori di quelli che ci speculavano sopra e non peggiori di voi anziani 
      che, essendo antifascisti, non riusciste né sempre provaste a liberare 
      l’Italia dalla tirannide»2.
 
      Le 
      rotte dell’intellighenzia di sinistra, da un totalitarismo all’altro
Un 
      secondo momento di rottura fu determinato dalle leggi razziali, agli inizi 
      del 1938. Quanti ne realizzarono la gravità? Ma non sembra che molta 
      attenzione si fosse manifestata di fronte al patto russo sovietico, siglato 
      da Molotov e Ribbentrop, a Mosca, nell’agosto del ’39; né 
      che l’aggressione alla Finlandia, nel novembre, che pure suscitò 
      la condanna di Umberto Terracini dal confino, avesse suscitato particolare 
      emozione fra i nostri intellettuali. Benché insofferenti del regime 
      (tanto da essere attentamente sorvegliati dalla polizia),3 essi non si peritarono 
      di partecipare ai Littoriali, di collaborare ad una rivista quale Primato, 
      sotto le ali protettrici di Giuseppe Bottai e di don Giuseppe De Luca, o 
      all’Enciclopedia italiana, diretta da Giovanni Gentile4. Né 
      avvertirono la gravità della partecipazione ai convegni di Weimar, 
      promossi dall’Unione internazionale degli scrittori presieduta da 
      Joseph Goebbels5. 
      Naturalmente, la disfatta italiana dell’8 settembre ’43 richiese 
      delle scelte nette. Chiusa l’esperienza del “lungo viaggio attraverso 
      il fascismo”, la maggioranza optò per il partito comunista, 
      spostandosi da un totalitarismo all’altro6. 
      Il referendum del 1946 vide schierati i nostri intellettuali per l’opzione 
      repubblicana e, due anni dopo, essi furono pronti ad entrare nell’Alleanza 
      della cultura, schierandosi per il Fronte popolare, la coalizione social-comunista 
      che aveva per logo il faccione di Garibaldi. Si chiamavano Libero Bigiaretti, 
      Sibilla Aleramo, Natalino Sapegno, Luigi Russo, Delio Cantimori, Galvano 
      Della Volpe... Con loro erano i più giovani Mario Alicata, Pietro 
      Ingrao, Dario Puccini, Carlo Muscetta... L’operazione dei Quaderni 
      del carcere di Antonio Gramsci dava, ai loro occhi, una parvenza di rispettabilità 
      ad un marxismo risciacquato nelle acque del Golfo di Napoli. L’idillio 
      continuò anche quando, scomparso Stalin nel marzo 1953, scoppiarono 
      violente dimostrazioni e scioperi in Bulgaria nel maggio, una rivolta a 
      Plzen, in Cecoslovacchia, ai primi di giugno, e poche settimane dopo, con 
      maggior ampiezza, in Germania, causando un intervento diretto dell’Armata 
      Rossa per sedare i disordini. 
      Vi fu allora qualcuno, fra tanti intellettuali “organici”, che 
      ebbe un qualche ripensamento? Eppure non può dirsi che mancassero 
      informazioni sull’urss. André Gide lo aveva avvertito sin dal 
      1936, col suo Retour de l’urss7; Guy Vinatrel aveva pubblicato, nel 
      1949, la propria testimonianza su L’urss concentrationnaire8; Buio 
      a mezzogiorno (Darkness at Noon), di Arthur Koestler, tradotto in ben trentatré 
      lingue, era apparso in Italia per i tipi della Mondadori nel 1946; Vicktor 
      Kravchenko aveva “scelto la libertà” nel 1947;9 La fattoria 
      degli animali di George Orwell era apparsa in Italia nel 1953 per i tipi 
      della Mondadori; il volume a più mani su Il dio che è fallito, 
      sarebbe stato pubblicato da noi nel 195710.
      Chi avesse voluto, si sarebbe ben potuto documentare. Invece, eravamo stati 
      deliziati da incredibili reportage dall’urss. Così Corrado 
      Alvaro poteva scrivere: «Ho sentito sulla bocca di molti russi, parlando 
      di avvenimenti truci nel mondo, la frase “fortunatamente noi gli orrori 
      li abbiamo passati”, e cioè le stragi, il sangue, le guerre 
      civili. Questo è il loro più grande bene»11. E Roberto 
      Bertoni (che aveva capito tutto), rivendicare la similarità tra fascismo 
      e comunismo12. Libero Bigiaretti, arrivato alla Kolyma (cioè nelle 
      terre del Gulag), non si accorgeva di nulla e descriveva «appartamenti 
      puliti, quasi eleganti [...] Le camerate (dodici letti ciascuna) sono spaziose, 
      luminose e gaie, non hanno niente del collegio o della caserma»13. 
      Una descrizione talmente idilliaca che ha qualcosa di macabro. Ma, come 
      scriveva Calvino, «Militare nel Partito è il nostro modo di 
      esistere»14. Così si sarebbe potuto cadere nel lirismo più 
      smaccato, come succedeva al poeta Alfonso Gatto: «Diciamola pure “rossa” 
      quest’Emilia ormai salutata dalla luce di un mondo che sorge. È 
      il colore del sereno. Vi spunta la stella dei braccianti che navigano la 
      terra per tutta la vita, la luna spiccata come una falce»15.
      Ci volle il rapporto segreto di Nikita Kruscev al XX Congresso, perché 
      si costringessero tante “mosche cocchiere” ad un profondo ripensamento 
      all’interno del loro mondo: «Il 1956 non era stato solo un trauma 
      interno al mondo comunista, ma si era riflesso sulla cultura di sinistra, 
      introducendo elementi nuovi di “revisionismo” che in altre epoche 
      erano rimasti isolati, col suo groviglio di proposizioni irrisolte, un naturale 
      terreno di coltura»16. Si arrivò così all’appello 
      a Giuseppe Di Vittorio perché, nella sua veste di segretario dell’internazionale 
      sindacale, si recasse in Ungheria a constatare de visu il carattere della 
      rivolta,17 e alla lettera indirizzata da centouno intellettuali romani alla 
      Direzione del pci,18 «una presa di posizione etico-politica»19. 
      
      Speranze mal riposte, quando proprio Togliatti sposava in pieno la tesi 
      di Stalin dell’aggravamento della lotta di classe via via che si procedeva 
      nella realizzazione del socialismo. In un fondo su l’Unità20 
      e in un corsivo siglato col solito pseudonimo su Rinascita, il leader comunista 
      spiegava come fosse assurdo credere che «esistendo oggi le condizioni 
      della competizione pacifica, non vi saranno più altre forme di lotta, 
      non potranno più esservi rotture rivoluzionarie violente [...] Questo 
      è un serio errore, perché porta al disarmo ideale e potrebbe 
      anche portare al disarmo pratico delle forze rivoluzionarie che avanzano 
      [...]»21. Oggi sappiamo che si dovette proprio a Togliatti la pressione 
      sui dirigenti sovietici per l’intervento militare in Ungheria (“un 
      dovere di classe”), e che lo stesso Memoriale di Jalta fu dato alle 
      stampe in funzione anti-krusceviana.
      Pur tuttavia, lo strappo del 1956 si rivelò maieutico anche al di 
      là dell’area partitica. Non a caso, furono gli anni della nascita 
      o del rinnovamento di riviste che intendevano, comunque, continuare a muoversi 
      nel mondo della sinistra, quali Ragionamenti, pubblicato da Roberto Guiducci, 
      Franco Fortini, Alessandro Pizzorno e Franco Momigliano; Problemi del socialismo 
      di Lelio Basso; Passato e presente, promosso da Antonio Giolitti dopo la 
      sua uscita dal pci; Tempi moderni di Fabrizio Onofri, anch’egli uscito 
      da quel partito dopo uno scontro pubblico con Togliatti; il settimanale 
      Corrispondenza socialista attorno ad Eugenio Reale, una figura di spicco 
      nella leadership comunista (con Luigi Longo, egli era stato il rappresentante 
      italiano alla costituzione del Cominform)22 e Michele Pellicani, raggiunti 
      da un rinsavito Alfonso Gatto e da numerosi altri ex. Sul fronte dell’estrema, 
      la diaspora degli intellettuali comunisti avrebbe portato alla nascita di 
      riviste quali Quaderni rossi di Renato Panzieri (già direttore di 
      Mondo operaio), Classe operaia diretta dall’operaista Mario Tronti; 
      La Sinistra di Lucio Colletti (con venature da IV Internazionale).
      Sulla passata militanza comunista e sulle prospettive strategiche della 
      sinistra si interrogava lo stesso Giolitti con un saggio affidato all’editore 
      Einaudi: Riforme e rivoluzione, suscitando un duro attacco su l’Unità 
      da parte di Valentino Gerratana, il quale lo accusava di aver portato il 
      dibattito al di fuori delle istanze di partito23. Come se non si fosse appena 
      visto che spazio potesse essere assicurato a chi avesse voluto discutere 
      all’interno del pci! Il caso di Valdo Magnani, deputato e segretario 
      della Federazione di Reggio Emilia, colpevole di aver chiesto un dibattito 
      aperto sul titoismo, espulso dal partito assieme ad Aldo Cucchi, altro deputato 
      comunista che aveva solidarizzato con lui, risaliva ad appena cinque anni 
      prima24 e sarebbe stato difficile dimenticare il giudizio sprezzante di 
      Togliatti sui due: «Anche nella criniera del più nobile destriero 
      possono annidarsi dei pidocchi»25. Ma ancor più recente era 
      stata l’esperienza di Fabrizio Onofri, membro del Comitato Centrale 
      del Partito, il quale, quando aveva chiesto di poter intervenire su Rinascita 
      in vista del futuro congresso, si era visto pubblicare il proprio articolo 
      con un titolo sprezzante, dettato dallo stesso Togliatti: “Un inammissibile 
      attacco alla politica del Partito comunista italiano”26.
 
      Budapest 
      1956, la catastrofica posizione della dirigenza del Pci
Davvero, 
      come sosteneva Togliatti, si poteva concludere che «la sostanza del 
      regime socialista non andò perduta, perché non andò 
      perduta nessuna delle precedenti conquiste, né, soprattutto, l’adesione 
      al regime delle masse di operai, contadini, intellettuali che formano la 
      società sovietica»?27 A quel passato Giolitti sarebbe riandato, 
      “quasi con rabbia”, nelle lettere idealmente indirizzate alla 
      nipote Marta: «Il prezioso, faticosamente accumulato e amministrato 
      patrimonio di consensi e partecipazione degli intellettuali “organici” 
      e “simpatizzanti” fu devastato non tanto dagli eventi del 1956, 
      precorritori e annunciatori – per chi voleva capirli – di quelli 
      del 1989, quanto piuttosto dalla catastrofica posizione assunta allora dal 
      gruppo dirigente del pci. Uso a ragion veduta l’aggettivo “catastrofica”, 
      perché l’incapacità del partito di cogliere quella che 
      si presentava come un’occasione storica per recidere, finalmente, 
      il “legame di ferro” e sciogliere il nodo della doppiezza determinò 
      – non solo per il pci e per la sinistra, ma per l’Italia – 
      la catastrofe di una democrazia anchilosata e di una sinistra impotente 
      per la durata di una generazione: trentatré anni, dal 1956 al 1989»28.
      In una seduta, che immagino assai tesa, della Direzione del pci, quella 
      del 20 giugno 1956, Togliatti ebbe il coraggio di denunciare «alcune 
      manifestazioni di vacuo disfattismo culturale e ideologico» chiedendo 
      che la discussione fosse responsabile, dimostrando di aver perso davvero 
      il polso della situazione29. Ma fu proprio la sua forte leadership a impedire 
      che, dall’interno del partito, emergessero figure capaci di coagulare 
      un ripensamento critico. Non ne ebbe la forza Di Vittorio, al quale pure 
      i centouno si rivolsero, così come anni dopo non ne ebbe la forza 
      Giorgio Amendola, al quale guardarono i miglioristi (un magazine del tempo, 
      Firenze sera, nel febbraio del 1962, introdusse un suo servizio su quel 
      gruppo con un titolo in copertina che diceva: “Il club dei miglioristi. 
      Rifondazione della sinistra o via salottiera al socialismo?”) .
      Uscito dal pci, nel marzo del ’58 Fabrizio Onofri cercò di 
      coinvolgere un ampio numero di amici e simpatizzanti attorno ad una sua 
      impresa editoriale (prendendo con sé, come segretario di redazione, 
      Renzo De Felice),30 tanto da scrivere, in un primo numero pilota: «È 
      la prima volta, crediamo, che una rivista nasce in Italia con la collaborazione 
      e l’apporto diretto di un numero così ampio di personalità 
      e di lettori: attraverso una consultazione che s’è svolta a 
      tutti i livelli – dall’operaio di fabbrica allo specialista 
      – e in cui uomini delle più varie tendenze politiche e culturali 
      (ma tutti orientati verso il rinnovamento e il progresso della nostra società 
      nazionale) hanno liberamente espresso le proprie esigenze e formulato i 
      propri suggerimenti»31.
      L’iniziativa non ebbe un grande successo e solo due anni dopo il periodico 
      riprendeva le pubblicazioni con una nuova serie, che sarebbe andata avanti 
      per altri quattordici numeri trimestrali, sino al settembre 1963, rivolgendosi 
      alla sinistra democratica e aprendo il suo primo numero con un saggio sulle 
      “Modificazioni strutturali e politiche del Partito comunista italiano 
      al suo 9° congresso”, presentato come rapporto del Centro italiano 
      di ricerche e documentazione, del quale la rivista era adesso espressione, 
      e attribuibile al suo stesso direttore.
      Dei centouno intellettuali romani firmatari della lettera indirizzata alla 
      Direzione del pci, molti preferirono un’uscita silenziosa non rinnovando 
      la tessera per il 1957, seguendo il consiglio di Delio Cantimori. Altri, 
      invece, fecero un pubblico mea culpa, mea maxima culpa e rientrarono disciplinatamente 
      nei ranghi: gli Spriano, gli Asor Rosa. Così, per Spriano, Kruscev 
      diveniva «un maramaldo»32 ed egli troverà un supporto 
      al proprio «ritorno all’ordine» (forte dello «spirito 
      di partito» che lo pervadeva e che gli riconosceva Togliatti),33 nelle 
      statistiche: il 96 per cento degli operai non seguono gli intellettuali, 
      «rifiutano anche la scossa che viene loro dalla presa di posizione 
      di un dirigente popolare come Giuseppe Di Vittorio»34. Furio Diaz, 
      a distanza di anni, pur non vedendo spiragli di libertà intellettuale 
      in un partito «che teneva fede a uno stalinismo di ferro anche dopo 
      la morte del dittatore e il rapporto Krusciov», esprimeva il dubbio 
      «che fossimo noi i cattivi politici, e che avevano ragione quei nostri 
      amici i quali con più decisione proseguivano la via imboccata e la 
      proseguirono anche dopo il 1956 e la nostra defezione […] Molte volte 
      mi sono chiesto se la mia specifica inclinazione illuministica, e con me 
      di molti altri intellettuali divenuti sempre più “apolidi” 
      dopo il ’56, fosse in parte all’origine di un distacco così 
      radicale, di uno spirito critico così aspro verso la vita pratica 
      che ci circondava»35.
      Se per “vita pratica” Diaz intendesse il successo di pubblico, 
      la visibilità sui mass media, un eventuale laticlavio, certo si può 
      concedergli che chi non si piegò, non ebbe più una sponda 
      che lo accogliesse, divenne una vox clamantis in deserto. Persino Antonio 
      Giolitti, che pure fu accolto (obtorto collo) nel psi, non riuscì 
      a mantenere e a far vivere a lungo la rivista che si coagulò allora 
      intorno a lui, avendo Carlo Ripa di Meana come direttore responsabile. Passato 
      e presente ebbe infatti una breve vita, dal 1958 al 1960, pur avendo a collaboratori 
      figure di rilievo: da Leo Valiani a Claudio Pavone, da Luciano Cafagna a 
      Ester Fano, Armanda Guiducci, Enzo Collotti, Alessandro Pizzorno, Cesare 
      Cases, Giuliano Amato.
      L’intrinseca debolezza del socialismo italiano, perennemente spaccato 
      nei due tronconi riformista e massimalista, fu la poderosa causa dell’insuccesso 
      dei molti tentativi messi in atto a quel tempo per trovare il quid consistam 
      della sinistra italiana. Un’altra esperienza di coagulo di fuorusciti 
      dal pci, simile a quella messa in piedi da Giolitti, fu, come accennavo, 
      Corrispondenza socialista. Il primo numero del settimanale veniva stampato 
      il 9 giugno 1957. Ricorderà Giuseppe Averardi: «Conobbi Reale 
      ai primi del 1957. Venivo dalle Botteghe Oscure e da Il Contemporaneo, il 
      prestigioso settimanale della commissione culturale del pci [...] Ci organizzammo 
      come potevamo, ed eravamo in tanti e tanti vennero dopo. Discutevamo [...] 
      del riscatto politico di tanti ex comunisti italiani, di impegno civile, 
      di patria tradita, di fiducia nella rinascita di una sinistra italiana non 
      più ipotecata da Mosca [...] Ma la situazione era tremendamente difficile 
      [...] Nasceva così il nostro settimanale Corrispondenza socialista, 
      col progetto di non mandare disperse le immense energie che la rivoluzione 
      ungherese aveva liberato, in Italia, dalla cappa dello stalinismo»36.
      Nessun dubbio che il clima fosse piuttosto gelido. Quando la redazione di 
      Corrispondenza socialista illustrò il progetto editoriale a Ignazio 
      Silone, questi vide più lontano di quanto loro stessi non pensassero: 
      «Voi sognate ad occhi aperti. Il pci non è pronto. Non fatevi 
      illusioni. Nenni si è fatto battere nel congresso di Venezia. Ci 
      vorranno anni per portare il pci fuori dalle secche»37. Conosceva 
      l’uomo, ricordava quanto un giorno gli aveva detto Tasca: «Nenni 
      riassume in sé tutto quello che c’era di negativo in Serrati, 
      una certa demagogia, una certa superficialità, una certa aria di 
      fare il finto tonto quando si discute di cose serie, una certa maniera di 
      evitare di andare in fondo alle cose appigliandosi a degli elementi marginali, 
      a dei pettegolezzi, a dei sentimentalismi»38. Nel suo attaccamento 
      al patto di unità d’azione, egli sarebbe stato il becchino 
      del psi, senza nemmeno riuscire ad evitare che i sovietici gli finanziassero 
      contro la scissione del psiup39.
      Debbo rendere atto a Silone che la sua rivista, Tempo presente, offrì 
      le proprie pagine ai dissidenti che uscivano dal pci, ripercorrendo l’esperienza 
      che lui stesso aveva già compiuto40. In un articolo pubblicato in 
      Svizzera nel febbraio del ’42, egli aveva scritto che l’uscita 
      dal partito equivaleva a una piccola morte. Ecco perché la situazione 
      traumatica dell’ex comunista può ricordare quella dell’ex 
      frate. Nessuna chiesa l’avrebbe più accolto. Ma collaborare 
      a Passato e presente sarebbe stato un dare ragione a Togliatti, che aveva 
      bollato quanti chiedevano un dibattito aperto come delle persone passate 
      al nemico. Era noto come, secondo il principio di sostenere le sinistre 
      non comuniste, per l’Italia gli Stati Uniti avessero deciso di dare 
      il loro appoggio proprio a Tempo presente, la rivista fondata e diretta, 
      dall’aprile 1956, da Ignazio Silone e da Nicola Chiaromonte, trasformandola 
      nell’organo della sezione italiana del Congresso per la libertà 
      della cultura, anche se allora nessuno avrebbe potuto immaginare (penso 
      lo ignorassero gli stessi direttori del periodico) che dietro il Dipartimento 
      di Stato c’era la Central Agency41. Si tenga del resto presente che 
      la scelta di sostenere Silone, da parte americana, non era affatto recente42. 
      Occorre tuttavia riconoscere che la preponderanza dell’attività 
      pubblicistica ed editoriale finanziata dai sovietici fu tale che Tempo presente 
      non riuscì mai a contrastare efficacemente l’appeal esercitato 
      nell’intellighenzia italiana dall’operazione messa in piedi 
      da Palmiro Togliatti attorno ai Quaderni del carcere gramsciani. La rivista 
      del Congresso non fu mai capace di uscire da quel limbo nel quale erano 
      rinchiuse altre pubblicazioni d’area liberal, quali Il Mondo di Mario 
      Pannunzio e Comunità di Alberto Olivetti.
      La scarsa fortuna di Tempo presente fu condivisa dalle altre riviste messe 
      in piedi dai dissidenti. Esse non trovarono nei socialisti la sponda sulla 
      quale avrebbero potuto approdare. Furono lasciate in mezzo al guado. Resterebbe 
      da domandarsi: quale fu il costo della diaspora? Quante energie appena liberate 
      andarono disperse, bloccando quel ripensamento critico che pure sarebbe 
      stato indispensabile? De Felice cercò di perseverare nell’impegno 
      preso con Fabrizio Onofri, iniziando una nuova collaborazione con Il nuovo 
      osservatore, un quindicinale che voleva aprire alla collaborazione della 
      dc col psi, diretto da Giulio Pastore (il ministro della Cassa per il Mezzogiorno) 
      e che aveva come redattore responsabile Vincenzo Scotti.43 Ma forse il suo 
      maggiore impegno fu la rivisitazione del nostro recente passato, coi volumi 
      dedicati alla biografia di Mussolini. Quanto a Delio Cantimori, egli si 
      rinchiuse nei propri studi, appartato come un novello Spinoza («quando 
      bellatores sanguine fuerint saturi»), dando libero sfogo ai suoi pensieri 
      nelle lettere estemporanee indirizzate al “Caro Rossi” (a Francesco 
      Cesare Rossi, direttore di Itinerari) periodicamente apparse su quella rivista 
      fra il 1960 e il 196444. 
      Arrivò il 1968 e la primavera di Praga. Sembrò un deja vu, 
      ma sarebbe stata una magra consolazione dire, con Robert Conquest: «Io 
      ve l’avevo detto, razza di imbecilli». La stagione riformista 
      era ormai spenta, mentre avanzavano i cattivi maestri e stavamo per entrare 
      negli anni di piombo. 
      Lucio Colletti attraversò un lungo cammino travagliato, per infine 
      approdare a Forza Italia, assieme a Piero Melograni. Ma quanti altri si 
      allontanarono dalla battaglia politica, quante intelligenze furono sottratte 
      ad una revisione culturale, che pure sarebbe stata importante per la sinistra 
      italiana? Se oggi lamentiamo un’egemonia degli ex-post-comunisti su 
      larga parte della cultura italiana, nel giornalismo, nella scuola, nelle 
      università, ciò si deve, a mio parere, alla pavidità 
      di tanti dirigenti di primo piano del pci e al tradimento che fu perpetrato 
      dal Partito socialista, quando rigettò in mezzo al guado quanti intendevano 
      approdare alle sue sponde, contribuendo ad una rifondazione della sinistra 
      italiana che era pur necessaria. Una lunga agonia, durata trent’anni, 
      e che non si è ancora conclusa. 
Note
 
      1. H. Goetz, Il giuramento rifiutato. I docenti universitari e il regime 
      fascista, Firenze, La nuova Italia, 2000.
      2. Cfr. in R. Zangrandi, Il lungo viaggio attraverso il fascismo, Milano, 
      Feltrinelli, 1962, pp. 10-11.
      3. È questo l’appunto, di non essersi documentata presso il 
      Casellario politico generale dell’Archivio Centrale dello Stato, che 
      va rivolto a M. Serri, I redenti. Gli intellettuali che vissero due volte. 
      1938-1948, Milano, Corbaccio, 2005. Si v. la lettera di protesta di Mara 
      Muscetta, pubblicata su Il Foglio del 21.XII.2005: “Quella degli intellettuali 
      di Primato fu ‘dissimulazione onesta’”. 
      4. Cfr. G. Turi, Il fascismo e il consenso degli intellettuali, Bologna, 
      il Mulino, 1980; idem, Su Bottai, G.B. Guerri, Giuseppe Bottai: un fascista 
      critico, Milano, Feltrinelli, 1976. 
      5. M. Serri, Il breve viaggio. Giaime Pintor nella Weimar nazista, Venezia, 
      Marsilio, 2002.
      6. E. Traverso, Il totalitarismo. Storia di un dibattito, Milano, Bruno 
      Mondadori, 2002. Del resto, non aveva scritto Giaime Pintor, che l’Italia 
      non sarebbe mai riuscita a raggiungere un completo regime totalitario, diversamente 
      dalla Germania, da lui portata a modello? Cfr. in Doppio diario, Torino, 
      Einaudi, 1978, p. 120.
      7. La mia copia reca l’indicazione: «cent soixante-neuvième 
      édition».
      8. G. Vinatrel, L’urss concentrationnaire. Travail forcé esclavage 
      en Russie soviétique, Paris, Spartacus, 1949.
      9. V. Kravcenko, I chose Freedom. The personal and political life of a soviet 
      official, New york, Garden city 1947, tr. it., Milano, Longanesi, 1949. 
      
      10. R. Crossman (a cura di), Il dio che è fallito. Testimonianze 
      sul comunismo, Milano, Edizioni Comunità, 1957.
      11. C. Alvaro, I maestri del diluvio, Milano, Mondadori, 1935, p. 1.
      12. R. Bertoni, Russia: trionfo del fascismo, (1931), Milano, La Prora, 
      1937.
      13. L. Bigiaretti, “Realtà della terra siberiana”, Vie 
      nuove, IV, 33, 21 agosto 1949.
      14. I. Calvino, “Saremo come Omero”, in Rinascita, V, 12, dicembre 
      1848.
      15. A. Gatto, “Chiamiamola pure ‘rossa’: è il colore 
      del sereno”, l’Unità, 18 settembre 1954.
      16. P. Craveri, La Repubblica dal 1958 al 1992, p.19.
      17. Sulle vicende personali del segretario della cgil nei propri rapporti 
      col Partito, si v. in G. Gozzini, R. Martinelli, Storia del Partito comunista 
      italiano, Dall’attentato a Togliatti all’VIII congresso, Torino, 
      Einaudi, 1998, p. 527. 
      18. Tra di essi chi scrive (che fu l’estensore materiale dell’appello, 
      assieme a Lucio Colletti e Carlo Muscetta), Natalino Sapegno, Gaetano Trombatore, 
      Giuseppe Carbone, Carlo Del Guercio, Luciano Cafagna, Elio Petri, Enzo Siciliano, 
      Mario Tronti, Umberto Coldagelli, Antonio Maccanico, Renzo De Felice, Alberto 
      Caracciolo, Luigi Occhionero, Mario Socrate, Luciano Lucignani, Dario Puccini, 
      Lorenzo Vespignani, Carlo Aymonino, Alberto Asor Rosa, Corrado Maltese, 
      Giorgio Candeloro, Piero Melograni, Paolo Spriano, Marisa Volpi, Vezio Crisafulli, 
      Salvatore Francesco Romano. Cfr. G. D’Amelio, “La lotta politica 
      del 1956 fra gli universitari e gli intellettuali comunisti di Roma”, 
      Passato e presente, III, 1960, n° 13.
      19. P. Spriano, Le passioni di un decennio (1946-1956), Milano, Garzanti, 
      1986, p. 210.
      20. P. Togliatti, “La presenza del nemico”, l’Unità, 
      3 luglio 1956.
      21. Roderigo di Castiglia, “A ciascuno il suo”, Rinascita, XIII, 
      1956, p. 355. Cfr. in G. Gozzini, R. Martinelli, Storia, cit., pp. 545 ss.
      22. Si v. il suo Nascita del Cominform, Milano, Mondadori, 1958.
      23. V. Gerratana, “Una deformazione del pensiero di Gramsci e della 
      politica del Partito comunista”, l’Unità, 19 maggio 1957.
      24. Cfr. G. Boccolari, L. Casali (a cura di), I magnacucchi. Valdo Magnani 
      e la ricerca di una sinistra autonoma e democratica, Milano, Feltrinelli, 
      1991.
      25. Rinascita, febbraio 1951, p. 78. Ma non meno feroce era stato, in quello 
      stesso anno, il trafiletto firmato “Roderigo di Castiglia”, 
      sull’abbandono del pci da parte di Elio Vittorini: “Vittorini 
      se n’è ghiuto, e soli ci ha lasciato!” Canzone napoletana.
      26. Rinascita, XIII, 1956, pp. 365-69. Al testo di Onofri faceva seguito 
      un articolo dello stesso Togliatti: “La realtà dei fatti e 
      la nostra azione rintuzza l’irresponsabile disfattismo”.
      27. P. Togliatti, intervista a Nuovi Argomenti, 1956.
      28. A. Giolitti, Lettere a Marta, Ricordi e riflessioni, p. 98. Sul “processo” 
      ai centouno, si v. ivi, pp. 99-100.
      29. M.L. Righi (a cura di), Quel terribile 1956. I verbali della Direzione 
      comunista tra il XX Congresso del pcus e l’VIII Congresso del pci, 
      Roma, Editori riuniti, 1996, p. 53.
      30. Si v. P. Simoncelli, Renzo De Felice. La formazione intellettuale, Firenze, 
      Le Lettere, 2001, pp. 165 ss.
      31. “Ai lettori”, Tempi moderni dell’economia della politica 
      e della cultura, I, 1, marzo 1958.
      32. P. Spriano, Le passioni, p. 199.
      33. Tale l’apprezzamento di Togliatti nei suoi confronti. Si v. al 
      lettera indirizzatagli il 31 ottobre, in P. Spriano, Le passioni di un decennio, 
      p. 212.
      34. P. Spriano, Le passioni di un decennio, p. 206.
      35. F. Diaz, La stagione arida. Riflessioni sulla vita civile d’Italia 
      dal dopoguerra a oggi, Milano, Mondadori, 1992, p. 73.
      36. G. Averardi, Le carte del pci. Dai Taccuini di Eugenio Reale la genesi 
      di Tangentopoli, Manduria, Bari, Roma, Lacaita, 200, pp. 33-36.
      37. G. Averardi, Le carte del pci, pp. 37-38.
      38. Cit. in D. Biocca, Silone. La doppia vita di un italiano, Milano, Rizzoli, 
      2005, p. 202.
      39. Oltre ai documenti tratti dall’Archivio Tasca e dall’archivio 
      Faravelli a cura di S. Merli (“La rinascita del socialismo italiano 
      e la lotta conto il fascismo, e Il socialismo al bivio. L’archivio 
      di Giuseppe Faravelli”, Annali Feltrinelli, XXVI, 1988-1989), si v. 
      il recente saggio di P. Mattera, Il partito inquieto. Organizzazione, passioni 
      e politica dei socialisti italiani dalla Resistenza al miracolo economico, 
      Roma, Carocci, 2004.
      40. I. Silone, Uscita di sicurezza, Firenze, Vallecchi, 1965.
      41. F.S. Saunders, La guerra fredda culturale. La cia e il mondo delle lettere 
      e delle arti, Roma, Fazi, 2004, p. 94.
      42. Biocca, Silone, cit., 2005, p. 217.
      43. Simoncelli, De Felice, cit., p. 173.
      44. Cfr. G. Niccoli, Delio Cantimori. La ricerca di una nuova critica storiografica, 
      Torino, Einaudi, 1970, p. 247.
      
 
      Sergio Bertelli, ordinario di Storia moderna all’Università 
      di Firenze.
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