Un
anno è trascorso dai tragici giorni del novembre 1956, quando i carri
armati russi reprimevano la rivoluzione ungherese col ferro e col fuoco,
mentre gli aerei francesi e inglesi schiacciavano gli aeroporti egiziani
sotto le bombe. Gli statisti francesi ed inglesi che, probabilmente, giudicarono
il momento propizio alla loro impresa, sono responsabili di un’aberrazione,
che può essere spiegata ma non scusata dalla loro insigne mediocrità.
Allora toccammo il fondo della disperazione politica, in rivolta contro
tutto e contro tutti, poco inclini sia a condividere l’indignazione
virtuosa degli Stati Uniti contro i loro alleati sia a perdonare il machiavellismo
primario dei nostri governanti. La rivoluzione ungherese apparteneva alla
storia universale, la nazionalizzazione del canale di Suez era un episodio
del conflitto tra il mondo arabo-musulmano e gli Occidentali. La storia
sarà severa non per le intenzioni ma per la cecità dei ministri
francesi ed inglesi.
Un anno basta, ahimé!, a placare le indignazioni, a rassicurare le
coscienze. Il signor Vercors da tempo ha ripreso il dialogo con gli scrittori
sovietici. I signori B. e K. hanno ritrovato il sorriso e compiuto altri
viaggi. L’ordine regna a Budapest. Il signor Kàdàr presiede
un governo che si definisce operaio-contadino. Circa duecentomila ungheresi
hanno lasciato la loro patria. Gli eroi della rivoluzione sono dispersi
nei paesi d’accoglienza. I più felici, che possedevano qualche
qualifica e la cui salute non era motivo di preoccupazione per i funzionari
dell’immigrazione americani, si trovano ormai dall’altra parte
dell’Atlantico. Alcune migliaia di emigrati si interrogano sul futuro
nell’Austria neutrale, che non cessa di dare lezioni di generosità
ai grandi dell’Occidente.
Oggi le invettive, le arringhe, le mozioni di protesta sarebbero ugualmente
derisorie! I carri armati russi hanno provvisoriamente restaurato l’impero
sovietico d’Europa. A che pro perorare una causa, respingere la tesi
sovietica della controrivoluzione? I racconti di testimoni occidentali,
di emigrati ungheresi, i tentativi di fare storia si sono moltiplicati.
Soltanto i fanatici e i ciechi volontari possono nutrire ancora qualche
dubbio. Limitiamoci qui a citare il riassunto fatto dalla stessa Commissione
d’inchiesta dell’onu, le conclusioni cui sono pervenuti i rappresentanti
d’Australia, di Ceylon, della Danimarca, della Tunisia e dell’Uruguay,
incaricati di indagare sugli avvenimenti d’Ungheria:
«1) Ciò che avvenne in Ungheria fu una spontanea insurrezione
nazionale dovuta ad una lunga situazione di sopraffazioni. Una di queste
fu la posizione di inferiorità dell’Ungheria nei confronti
dell’urss.
2) L’insurrezione fu condotta da studenti, lavoratori, soldati ed
intellettuali, molti dei quali comunisti o ex comunisti. Coloro che vi parteciparono
insistettero perché il socialismo democratico fosse la base della
struttura politica dell’Ungheria e perché la riforma agraria
e altre realizzazioni positive fossero salvaguardate. È falso che
l’insurrezione sia stata fomentata da circoli reazionari ungheresi
o che fosse appoggiata da circoli “imperialisti” occidentali.
3) L’insurrezione non era avvenuta in seguito ad un piano prestabilito,
ma i partecipanti furono colti di sorpresa. La sua tempestività coincise
col fortunato movimento polacco per una maggior indipendenza dall’urss
e con la delusione causata dal discorso di Erno Gerö al suo ritorno
dalla Jugoslavia il 23 ottobre, quando invece si sperava che egli avrebbe
mostrato un atteggiamento di simpatia verso le richieste popolari formulate
il 22 ottobre dagli studenti ungheresi.
4) Sembrerebbe che le autorità sovietiche abbiano fin dal 20 ottobre
preso delle misure per rendere possibile un intervento armato. Esistono
prove di movimenti di truppe o di piani di movimenti di truppe da quel giorno
in poi e forze sovietiche fuori del territorio ungherese furono chiamate
anche per il primo intervento. In Ungheria, segni di opposizione erano evidenti
prima del 23 ottobre.
5) Le dimostrazioni del 23 ottobre da principio erano tranquille, e nessuna
prova è stata data che i dimostranti volessero usare la forza. Il
cambiamento fu dovuto all’azione dell’avh, quando essa aprì
il fuoco sulla popolazione adunata dinanzi al Palazzo della Radio e quando
a Budapest comparvero i soldati russi in assetto di guerra.
6) Nagy dichiarò che non aveva rivolto alcun invito alle autorità
sovietiche ad intervenire e il Comitato non ha nessuna prova che tale invito
sia stato rivolto o meno. Analoga considerazione va applicata all’invito
rivolto da parte del Governo Kàdàr alle truppe sovietiche
ad intervenire in una seconda occasione. Vi sono però serie prove
per confermare che i preparativi sovietici per un intervento si stavano
facendo fin dai primi giorni di ottobre.
7) Nagy non fu dapprima libero di esercitare i pieni poteri della sua carica.
Quando la stretta dell’avh si allentò, il vero potere era nelle
mani dei Consigli Rivoluzionari ed Operai. Nagy, visto che i suoi connazionali
erano concordi nel loro desiderio di altre forme di governo e della partenza
delle truppe sovietiche, si mise dalla parte degli insorti.
8) Durante i pochi giorni di libertà, il carattere popolare dell’insurrezione
fu provato dall’apparire d’una stampa e d’una radio libere,
oltre che dalla soddisfazione generale del popolo.
9) I linciaggi e le violenze commessi dalla folla furono, nella maggior
parte dei casi, diretti contro membri dell’avh e coloro che si riteneva
avessero collaborato con essa.
10) I passi fatti dai Consigli Operai durante questo periodo avevano lo
scopo di dare ai lavoratori un reale controllo delle imprese nazionalizzate
e di abolire istituzioni impopolari, come le norme di produzione. Frattanto
negoziati erano in corso per il completo ritiro delle truppe sovietiche
e la vita a Budapest cominciava a tornare alla normalità.
11) In contrasto con le richieste poste a quell’epoca per il ripristino
dei diritti politici, sta il fatto che i diritti umani fondamentali del
popolo ungherese erano stati violati dal Governo ungherese prima del 23
ottobre, particolarmente nell’autunno 1955, e tali violazioni sono
ricominciate dopo il 4 novembre. I molti trattamenti inumani e le torture
da parte dell’avh debbono essere accettati come veri. Nel tentativo
di spezzare la rivoluzione, un certo numero di ungheresi, fra cui molte
donne, furono deportati nell’Unione Sovietica ed è probabile
che alcuni di essi non abbiano fatto ritorno alle loro case.
12) Dopo il secondo intervento sovietico del 4 novembre, non vi furono manifestazioni
di appoggio da parte della popolazione al Governo Kàdàr. Kàdàr
ha proceduto gradualmente per distruggere il potere dei lavoratori. Gravi
misure repressive furono adottate e le elezioni generali furono rimandate
di due anni. Kàdàr rifiutò, data la situazione, di
trattare il ritiro delle truppe sovietiche. Soltanto una piccola parte dei
190.000 ungheresi che lasciarono il paese, accettarono l’invito a
ritornarvi.
13) L’interesse da parte delle Nazioni Unite per la questione ungherese
era giuridicamente inoppugnabile e il paragrafo 7 dell’articolo 2
della Carta non comporta obbiezioni in proposito. Un massiccio intervento
armato da parte di una Potenza nel territorio di un’altra Potenza
con la chiara intenzione di interferire nei suoi affari interni, deve, secondo
la stessa definizione dell’aggressione data dall’Unione Sovietica,
ritenersi una questione di interesse internazionale».
Sebbene gli avvenimenti stessi e il loro significato non lascino più,
oggi, sostanzialmente, spazio al dubbio, il Libro Bianco, nato dallo sforzo
paziente e colto di M.J. Lasky, offre una lettura appassionante. Esso ci
fa rivivere quei giorni tragici così come li abbiamo vissuti, divisi
tra il timore della probabile catastrofe e la speranza quasi folle di un’imprevedibile
vittoria. Ci ricorda cosa furono quei giorni d’entusiasmo nell’Ungheria
libera, tra l’evacuazione delle truppe russe da Budapest e il secondo
intervento. Ci permette di seguire le versioni successive degli avvenimenti
sulla stampa ungherese, jugoslava, polacca. Dal confronto di tante menzogne
o mezze verità sorge miracolosamente, evidente, irrefutabile, la
semplice verità. Nessuno dei racconti, scritti frettolosamente dagli
storici in quest’anno, mi pare abbia il valore scientifico o, posso
dire, artistico di questa collezione di documenti contemporanei.
I
L’Europa
orientale nel suo insieme offriva al mondo esterno un’uniformità
di facciata. In Polonia come in Romania, in Cecoslovacchia come in Ungheria
si erano succedute le medesime tappe della sovietizzazione, si osservavano
le stesse istituzioni politiche ed economiche e, dalla morte di Stalin,
la stessa alternanza di tensione e distensione, gli stessi tentativi di
liberalizzazione dall’alto.
In nessun luogo il partito comunista avrebbe potuto impadronirsi da solo
del potere. Dovunque aveva avuto bisogno dell’aiuto dell’armata
rossa. La forza autentica del partito comunista variava secondo i paesi.
Le elezioni libere del 1945-46 gli davano in Cecoslovacchia più di
un terzo, in Ungheria il 17 per cento dei voti. In Polonia ed in Germania
Orientale la fusione dei partiti socialista e comunista non permetteva di
misurare esattamente la loro rispettiva clientela. Il passaggio dalla coalizione
antifascista al fronte nazionale fu operato in tutte le democrazie popolari
secondo procedimenti politico-polizieschi analoghi, ricorrendo a quella
che Rákosi battezzò “tattica del salame”. In Ungheria,
il partito dei piccoli proprietari aveva ottenuto la maggioranza assoluta
dei suffragi (57 per cento), ma il partito comunista, grazie all’appoggio
delle autorità d’occupazione, conservò il ministero
dell’Interno e il controllo della polizia (avh). I partiti non comunisti
in qualche anno furono ridotti all’impotenza: i loro capi furono arrestati
con il pretesto di aver partecipato a complotti inventati di sana pianta.
Comunisti od opportunisti in combutta con i comunisti presero il posto dei
dirigenti eliminati. Verso la fine del 1948, a prescindere dal fatto che
i partiti non comunisti erano stati ufficialmente sciolti o messi in riga
mantenendo un’esistenza di facciata, il partito legato a Mosca, esecutore
delle sue volontà, era padrone unico del potere.
La dissidenza di Tito suscitò una crisi che, una volta di più,
sembrò illustrare e consacrare l’omogeneità dell’Europa
orientale, l’unità del suo destino. Ciascuna delle democrazie
popolari conobbe un’epurazione. Anche in quel caso ci si affrettò
a trovare una formula generale: furono eliminati i comunisti che durante
la guerra non erano stati a Mosca ma si erano dati alla macchia, incolpati
di complicità con Tito o di deviazione nazionalista. Questa formula
si applicava a Kostov, a Gomulka e a Rajk. Si applicava male a Slansky in
Cecoslovacchia o alle vittime dell’epurazione in Albania o in Romania.
Indubbiamente si poteva ristabilire l’accordo tra la teoria e la realtà
con qualche ipotesi supplementare. In ogni epurazione, la polizia staliniana
pratica l’amalgama. La sorte di Slansky poteva essere imputabile alla
campagna antisemita scatenata a Mosca, al ruolo svolto dal segretario del
partito ceco nell’aiuto a Israele. Altrove, l’epurazione non
colpiva i comunisti nazionali perché non ne trovava. Uno dei dirigenti
era nondimeno sacrificato alla necessaria “vigilanza proletaria”.
Gli osservatori in Occidente non attribuivano importanza a ciò che
doveva in seguito apparire una differenza capitale: Rajk aveva confessato
ed era stato messo a morte, Gomulka era stato arrestato, torturato ma non
processato e giustiziato. I dirigenti stalinisti polacchi non avevano spinto
il loro fanatismo o servilismo tanto in là quanto quelli di Praga
o di Budapest.
È a partire dal 1953 che parvero emergere le differenze tra democrazie
popolari, dall’esterno. Se l’attenuazione del terrore, partita
da Mosca, raggiunse tutti i satelliti, la distensione fu segnata in modo
ineguale, così come la revisione dei piani economici, decisa nel
1953-54, all’epoca in cui Malenkov era presidente del Consiglio. Unica
fu, così pare, la disgrazia di Nagy ed il ritorno in forze di Rákosi
nell’aprile 1955. La ripresa dello stalinismo in Ungheria andava controcorrente
all’interno dell’universo sovietico: tale situazione fu accentuata,
nel febbraio 1956, dal XX Congresso del partito. A partire dal 1956, la
linea generale di Mosca resta visibile in tutte le democrazie popolari,
ma l’interpretazione di questa linea, la reazione nazionale alla libertà
di critica retrospettiva accordata da Mosca varia da paese a paese. Tra
la Polonia e l’Ungheria, dove gli intellettuali denunciano con passione
gli orrori dello stalinismo, e la Romania e la Cecoslovacchia, dove la disciplina
si mantiene nella denuncia del culto della personalità, il divario
è immenso. Queste differenze sono state talvolta spiegate con i soli
avvenimenti della fase post-staliniana, ma se sono apparse in questo periodo,
non esistevano forse anche in precedenza?
Tutte le democrazie popolari hanno fondamentalmente il medesimo regime economico,
ma si potrebbe anche dire che tutte le democrazie occidentali hanno “lo
stesso regime economico”: non siamo però inclini a ignorare
le differenze fra economia americana ed economia francese. L’atteggiamento
degli operai americani nei confronti del capitalismo si spiega con i risultati
che questo dà oltre Atlantico, così come l’atteggiamento
dell’operaio francese nei confronti del capitalismo si spiega con
l’esperienza che ne ha lui stesso. In quale misura “lo stesso
regime sovietico” non produce effetti diversi?
Ad un livello elevato di astrazione, il problema si porrebbe nei termini
seguenti: fino a che punto il regime (modo di funzionamento, statuto di
proprietà) determina il volume della produzione, il ritmo d’espansione,
le condizioni di vita? Il sostenitore più feroce dei meccanismi del
mercato non va oltre l’affermazione che la pianificazione comporta
perdite più grandi delle imperfezioni del meccanismo dei prezzi.
Supponendo un regime mutuato da quello dell’Unione Sovietica, e imposto
ad un paese con il livello d’industrializzazione della Gran Bretagna
o degli Stati Uniti, né il livello di produzione né il tenore
di vita si allineerebbero a quelli dell’Unione Sovietica o dell’Ungheria.
In altri termini, a supporre anche che le democrazie popolari abbiano tutte
lo stesso regime, i popoli ne avrebbero un’esperienza diversa, secondo
lo stato dell’economia all’inizio dell’esperienza, secondo
le risorse della collettività.
È vero che, all’inizio della sovietizzazione, i paesi dell’Europa
orientale si trovavano tutti in condizioni analoghe (salvo la Cecoslovacchia).
Tutti, infatti, erano economie prevalentemente agrarie, dove l’insufficiente
sviluppo industriale non riusciva ad assorbire l’eccedenza di manodopera,
che rimaneva semidisoccupata nelle campagne. L’Unione Sovietica poté
imporre non solo la propria teoria ma anche la sua applicazione, perché
i paesi, ridotti allo stato di satelliti, avevano da svolgere compiti analoghi:
assorbire il surDaily di popolazione contadina nell’industria, dunque
investire molto e consumare poco. Per di più, questo compito comune
i governi delle democrazie popolari vollero eseguirlo con gli stessi procedimenti:
pianificazione rigida, priorità assoluta all’industria pesante,
prezzi fissati dall’ufficio del piano, collettivizzazione dell’agricoltura
più rapida possibile. In altri termini, ciò che spinse gli
osservatori ad ammettere l’omogeneità della zona sovietica
non fu la convinzione implicita che la pianificazione o la proprietà
collettiva dessero ovunque gli stessi risultati, per giunta deplorevoli,
ma la constatazione di uno stesso sistema di pianificazione, orientato verso
obiettivi analoghi.
Anche prescindendo dalla Cecoslovacchia, intervengono nondimeno due differenze:
le condizioni naturali proprie a ciascun paese e il livello d’inefficienza
del regime. Rispetto a ciò, l’Ungheria mi pare rappresentare
un caso estremo. L’edificazione di un’industria pesante in un
paese che non ha né carbone coke né ferro era dettata dal
dogma e contraria al buon senso. Più il paese è piccolo e
più diventa assurdo lo sforzo per riprodurre la struttura dell’Unione
Sovietica su scala microscopica. La collettivizzazione dell’agricoltura,
pochi anni dopo una riforma agraria che aveva liquidato la grande proprietà
terriera di origine feudale, doveva suscitare una resistenza feroce.
Questa politica, manifestamente contraria agli interessi e alle aspirazioni
del popolo ungherese, fu condotta con una brutalità spietata dal
partito comunista. In origine, questo non era un semplice strumento delle
autorità d’occupazione. All’indomani della seconda guerra
mondiale operai, liberali, intellettuali hanno in alcuni casi riposto la
loro fede nel partito, in altri sognato di costruire in cooperazione con
esso una Ungheria nuova, autenticamente democratica e socialista, nel senso
che queste parole rivestono in Occidente. Però man mano che le condizioni
materiali della vita e il terrore si aggravavano, il regime appariva come
il camuffamento o l’agente di trasmissione della dominazione russa.
Tutto si svolgeva come se ci si ingegnasse ad esasperare la nazione: i piani
economici condannavano gli operai a salari da carestia, la collettivizzazione
e le consegne forzate a basso prezzo erano odiose ai contadini, la soppressione
di ogni libertà intellettuale rinchiudeva gli intellettuali nel dilemma
del silenzio o dell’epurazione, la polizia segreta minacciava tutti
gli ungheresi e non risparmiava neppure gli stalinisti più risoluti,
l’insegnamento del russo era obbligatorio, le uniformi dell’esercito
erano simili a quelle dell’occupante, la stella rossa ornava tutti
gli emblemi. A questo popolo privato di ragioni di vita, una stampa schiava
ripeteva ogni giorno che era felice e che doveva ringraziare i russi per
la sua felicità.
In verità, ci si spiega agevolmente l’odio unanime del popolo
ungherese contro l’Unione Sovietica ed i suoi agenti in Ungheria,
i comunisti. Ci si spiega meno che quest’odio abbia sorpreso coloro
che ne erano oggetto e i progressisti, in Francia e altrove.
Il caso dell’Ungheria è eccezionale? Non è facile rispondere
categoricamente a questo interrogativo, in mancanza di informazioni sicure.
Ma i fatti autorizzano delle ipotesi perlomeno verosimili. Nessun regime
sovietico (neanche quello della Russia in capo a quarant’anni) prende
in considerazione elezioni libere o discussioni pubbliche dei principi.
In nessun paese dell’Europa orientale il partito comunista sarebbe
in grado di vincere elezioni autentiche, non ne era capace dieci anni fa,
non ne sarebbe capace oggi. Ripetiamo instancabilmente che il partito che
pretende d’incarnare le masse, il proletariato o la Storia, rifiuta
ostinatamente di sottoporsi alla decisione degli uomini liberi.
Le ragioni di questa ostilità non sono del resto affatto misteriose.
In tutti i paesi di regime sovietico1 i fenomeni ungheresi si ripetono.
I contadini sono obbligati o minacciati dalla collettivizzazione, esposti
alle vessazioni delle autorità, da cui ricevono direttive, spesso
inapplicabili, e alle quali debbono consegnare i loro prodotti a basso prezzo.
Gli operai sono, per la maggior parte, malpagati. Stimato in franchi, il
salario medio in Ungheria era inferiore a 15.000 franchi al mese. Infine,
gli intellettuali e i militanti sono, anch’essi, esposti al terrore,
spogliati di ogni libertà di creazione o di critica. Solo i credenti
o gli opportunisti sono appagati da un regime che annuncia la libertà
e sopprime tutte le libertà, promette l’eguaglianza e ricostituisce
una classe privilegiata, garantisce l’indipendenza delle nazioni e
consacra l’imperialismo russo. Secondo il funzionamento del regime,
l’ostilità dei contadini è più o meno forte,
il numero degli operai o dei quadri soddisfatti del loro posto in una società
aperta agli ambiziosi più o meno grande, l’amarezza degli intellettuali
messi in riga e dei militanti delusi più o meno viva.
In Cecoslovacchia, tutti i fenomeni sono attenuati. Si è sviluppata
l’industria pesante alle spese dell’industria leggera. Il processo,
che non è razionale nei confronti dell’interesse ceco, è
malgrado tutto meno penoso di quello dell’industrializzazione forzata
di una popolazione prevalentemente di agraria. Il tenore di vita è
di gra lunga inferiore a quanto sarebbe se il paese fosse restato dalla
parte giusta della cortina di ferro. Il malcontento è ovunque ma
si è lontani dalla disperazione o dall’esasperazione dell’Ungheria.
Si voterebbe contro il partito se si potesse votare, ma si sa che non si
voterà e ce ne si fa una ragione.
Forse si può spiegare il contrasto fra la sottomissione ceca e l’eroismo
ungherese o polacco con le circostanze storiche oltre a quelle contingenti.
Il nazionalismo ungherese o polacco non è forse più forte
del nazionalismo romeno o ceco, ma certo è diverso. Ungheria e Polonia,
al tempo delle monarchie, sono state grandi potenze su scala europea. Il
nazionalismo di questi popoli-padroni è stato segnato dall’impronta
aristocratica, è rivolto verso l’Est in un atteggiamento di
ostilità o di resistenza. Cattolici, unanimemente o in maggioranza,
i due popoli sono estranei alla tradizione ortodossa, ribelli alla religione
secolare di Stato che il comunismo russo porta con sé.
Il sentimento nazionale dei polacchi e degli ungheresi è stato a
lungo legato alla rappresentanza di uno Stato potente. L’eroe della
rivoluzione del 848, Kossuth, che voleva liberare il suo popolo, era indifferente
alle rivendicazioni nazionali delle popolazioni riunite sotto la corona
di santo Stefano. Tra le due guerre, la protesta ungherese invocava dei
diritti storici più che la volontà delle popolazioni. (Similmente,
la Repubblica di Polonia nello stesso periodo inglobava circa un terzo di
minoranze). Nel 1945, nel 1957, la nostalgia del passato era soffocata dalle
prove del presente. Il popolo ungherese voleva vivere razionalmente, non
più ricostituire un regno multinazionale, che aveva avuto la sua
grandezza ma che il movimento delle idee trasformava in anacronismo. A lungo
inquadrati e animati da un’aristocrazia, polacchi e ungheresi hanno
manifestato, nella loro condotta collettiva, il senso dei valori nobili
e il disprezzo della ragione borghese2.
II
Quale
che sia la parte negli avvenimenti del 1956 che si debba far risalire alle
forze profonde, sorte dalla tradizione, sono le cause più recenti
a rendere intellegibili gli avvenimenti (non li si sarebbero previsti, li
si comprendono a posteriori). Il primo ritorno al potere di Nagy aveva comportato
una “liberalizzazione” più spinta che negli altri paesi
delle democrazie popolari (liberazione di molti detenuti politici, diritto
ai contadini di lasciare gli sfruttamenti collettivi, riduzione del programma
di investimenti). Nel 1955, Nagy fu accusato una seconda volta di deviazione
e cacciato contemporaneamente dal partito e dalla presidenza del Consiglio.
Rákosi allora tentò, nel 1955-56, di praticare egli stesso,
dall’alto, la destalinizzazione, che il XX Congresso e il discorso
di Kruscev contro Stalin rendevano obbligatoria. L’uomo più
di ogni altro responsabile del processo e della morte di Rajk, proclamava
che l’ex dirigente del partito era stato vittima di un’ingiustizia,
di accuse prefabbricate. La squadra staliniana Rákosi-Gerö,
la peggiore probabilmente di tutte le squadre staliniane d’Europa
orientale, la più detestata, tentava di mantenersi adottando la destalinizzazione
come aveva adottato tutte le precedenti linee di Mosca. Ma la commedia della
libertà non si rappresenta impunemente.
Nel corso di tutto il 1956 abbiamo assistito da lontano, con stupore crescente,
allo svolgimento del nuovo corso. Le istituzioni sovietiche rimanevano al
loro posto, ma la censura degli scritti, la disciplina della parola, l’ortodossia
verbale erano come misteriosamente scomparse. Scrittori polacchi e ungheresi
paragonavano Stalin a Hitler, reclamavano la libertà, non quella
che, grazie a un gioco dialettico, si compie attraverso la coincidenza con
le opinioni dei governanti, la vera libertà, tutta formale, per parlare
come i marxisti, che si esprime con il diritto a dire no, ad amare e detestare,
il diritto di scegliere… Un regime di economia pianificata, di partito
unico, di industrializzazione accelerata, che camuffava la dominazione straniera,
poteva per giunta permettersi il lusso di una stampa, di una letteratura
libere? Ci domandavamo ansiosamente quanto tempo il regime avrebbe tollerato
la libertà e quale, tra il regime e la libertà, sarebbe perito.
Nell’ottobre-novembre 1956, la libertà, in Polonia come in
Ungheria, ha prevalso sul regime. In Polonia, la libertà ha raggiunto
con il regime un compromesso accettabile per i russi. In Ungheria, la libertà
vittoriosa è stata distrutta dai carri armati dell’armata che
seguita ad essere chiamata rossa.
Da un anno, si è indefinitamente speculato sulle cause del successo
polacco e della catastrofe ungherese. Se lasciamo da parte l’ipotesi,
che non è esclusa, di una volontà cosciente dei governanti
russi di provocare una rivolta in Ungheria per poterla schiacciare in stile
spettacolare, è sufficiente evocare due situazioni, due scene storiche
per comprendere il destino dei due popoli. Quando Kruscev e i suoi compagni
sbarcarono a Varsavia, il comitato centrale del partito operaio polacco
era in seduta, deciso a eleggere Gomulka primo segretario del partito. Cyrankiewicz,
Ochab, che avevano ricoperto i ruoli dominanti nel periodo staliniano, avevano
fatto blocco con Gomulka contro gli staliniani irriducibili del gruppo Natolin.
Un amico di Gomulka, Spycholski, era stato portato al comando dell’esercito,
le guardie operaie erano mobilitate. Forte dell’appoggio del partito,
Gomulka poteva dare ai delegati del Presidium la scelta tra l’accettazione
di un regime che si dichiarava comunista e restava fedele al patto di Varsavia
e l’avventura di una sanguinosa repressione. L’esercito polacco
non avrebbe tenuto testa a quello russo più di quello ungherese (la
repressione sarebbe durata qualche giorno in più), l’Occidente
non sarebbe venuto in soccorso della Polonia più che dell’Ungheria.
Ma i dirigenti di Mosca avevano interesse a evitare, se era possibile, il
ricorso ai carri armati, che lacerava le apparenze della liberazione proletaria
e scopriva la realtà dell’oppressione. Kruscev, Mikojan, Molotov,
Zhukov scelsero tra le due alternative scelsero la prima.
In nessun momento della rivoluzione ungherese, una simile alternativa fu
offerta ai russi. Non per colpa dei rivoluzionari; la situazione non era
la stessa. Gomulka e i suoi amici erano stati imprigionati e torturati,
Rajk e i suoi erano morti. Cyrankiewicz non ispirava ai revisionisti un
disprezzo o un odio tali da rendere impossibile la sua presenza alla testa
del governo nell’era post-staliniana. Rákosi e Gerö sapevano
quali sentimenti ispiravano, e si aggrapparono il più a lungo possibile
alla vecchia politica. Un riallineamento del partito ungherese sull’esempio
del partito polacco era escluso. I revisionisti erano troppo numerosi tra
i comunisti, troppo lontani dai rakosisti, perché il partito potesse
mantenere la sua unità e conservare il controllo degli eventi a partire
dal momento in cui il potere di Rákosi e della polizia politica si
era spezzato. La disgrazia per l’Ungheria fu di avere un partito allo
stesso tempo troppo e non abbastanza ungherese: nella sua maggioranza, i
membri del partito condividevano la rivolta e le aspirazioni delle masse,
una minoranza resistette fino in fondo al movimento, più per difendere
i propri interessi che per fanatismo. Questa minoranza era troppo comunista
(russa) per cedere, gli altri non lo erano abbastanza da trovare una soluzione
accettabile al Cremlino.
Il carattere del partito comunista mi pare la causa principale del corso
preso dalla destalinizzazione nei diversi paesi dell’Europa orientale.
Nei regimi burocratici, le forze politiche, i sentimenti delle masse si
esprimono nelle lotte di fazione, almeno fino al momento in cui le emozioni
popolari non si trasformano in azione. Allora accade l’imprevisto.
Ogni interpretazione astratta lascia un margine: una rivoluzione è
un avvenimento. Prima di una certa data, gli stessi attori la ritenevano
inconcepibile. Dopo un certo giorno, una certa ora, nessuno può più
fermarla.
Il discorso di Gerö, dopo il suo ritorno dalla Jugoslavia, esasperò
la popolazione. Gli spari sulla folla, assembrata davanti al palazzo della
Radio, scatenarono la rivoluzione. A partire da allora, la tragedia seguì
il suo corso. Nagy fu compromesso dall’intervento dell’esercito
russo di cui gli si attribuì falsamente la responsabilità.
Quando riuscì a discolparsi, i rivoluzionari avevano preso il potere
in tutto il paese e le rivendicazioni erano fuoriuscite dal quadro del regime
sovietico. La denuncia del patto di Varsavia e elezioni libere avrebbero
distrutto i due pilastri del comunismo, il ruolo dirigente dell’Unione
Sovietica, l’onnipotenza del partito.
Il 23 ottobre operai, studenti, scrittori sarebbero stati tranquillizzati
dalla costituzione di un governo Nagy e dalla promessa di un regime più
liberale e più nazionale. Una settimana più tardi i rivoluzionari
vittoriosi, sotto l’emblema di Kossuth, reclamavano tutte le libertà,
di stampa, di religione, di opinioni politiche, reclamavano un Parlamento
e la competizione tra i partiti, reclamavano l’indipendenza totale
del paese. Ciò che si era creduto impossibile – un popolo che
abbatteva da solo uno Stato totalitario – era improvvisamente realtà.
Le parole d’ordine del 1848, libertà, nazione, giustizia ritrovavano,
contro la tirannia burocratica e la dominazione russa, la loro eterna freschezza.
Follia, si dirà: come avrebbero potuto gli uomini del Cremlino accettare
questo disastro morale, politico, militare? Certo, riflettendoci a sangue
freddo, questo eroismo era folle, ma che ci vengano risparmiati i rimpianti
tendenziosi, le insinuazioni sordide. Capi e militanti della rivoluzione
ungherese sapevano meglio di noi i pericoli che correvano. La denuncia del
patto di Varsavia non è stata la causa del secondo intervento russo,
ma un supremo tentativo di prevenirlo. Il discorso del cardinal Mindszenty
era nobile e dignitoso. Se avesse potuto evitare o modificare alcune espressioni
che possono essergli rimproverate, non sarebbe cambiato nulla. Dopo anni
senza contatti col mondo esterno, il cardinale sarebbe stato scusato se,
a causa di affermazioni inopportune, avesse commesso degli errori politici.
A dispetto delle leggende, non ne commise.
Non è il caso di mettere a posteriori il sigillo della fatalità
su una successione di eventi che si immagina agevolmente altra, alla sola
condizione di sostituire un dettaglio a un altro o, semplicemente, di avanzare
o retrocedere nel tempo tale decisione o tale incidente. Ma sarebbe più
indecente ancora strappare alla tragedia di un popolo la sua patetica grandezza
accusando la debolezza di un capo o la passione di una folla. Rákosi
e i suoi spinsero l’ostinazione troppo oltre, gli ungheresi detestavano
troppo i loro padroni e, attraverso di essi, la dominazione russa: se l’esplosione
si produceva, il popolo doveva andare fino in fondo alle sue esigenze, che
Kruscev e forse più ancora il maresciallo Zhukov dovevano giudicare
incompatibili con gli interessi dell’impero russo. Ovviamente la propaganda
comunista ha denunciato la rivoluzione ungherese come una controrivoluzione.
Se per controrivoluzione s’intende la ricostituzione del regime che
esisteva prima della rivoluzione o la restaurazione dei privilegiati, vittime
della rivoluzione, l’argomentazione è infondata e non merita
di essere discussa. Se per controrivoluzione s’intende ogni deviazione
in rapporto al regime comunista, la rivoluzione ungherese è controrivoluzione
nel modo in cui la restaurazione della democrazia parlamentare in Italia
e in Germania è controrivoluzione in rapporto al fascismo e al nazionalsocialismo.
La rivoluzione ungherese, in effetti, tendeva a creare o a ristabilire istituzioni
che i comunisti ritengono inseparabili dalla democrazia borghese, dunque
anteriori, nel processo storico, al regime comunista. Ma in questo caso
ciò che si presta a critiche è la filosofia che immagina una
linea unica di evoluzione storica e, ponendo il comunismo nello stadio finale,
non ha altro nome per una rivoluzione anticomunista che quello di controrivoluzione.
Come hanno fatto notare parecchi commentatori, le classi spodestate da una
rivoluzione sociale, nobili, grandi proprietari, banchieri, non possono
esse stesse scatenare una controrivoluzione. Perdendo terre e capitali,
hanno perduto la fonte della loro influenza o della loro autorità.
Come avrebbero potuto gli aristocratici ungheresi manipolare i contadini
divenuti proprietari o i lavoratori delle fabbriche? Perché gli studenti,
gli operai, i soldati avrebbero dovuto seguire volontariamente i rappresentanti
di una classe oggi spodestata, che la stessa propaganda denuncia per aver
oppresso e sfruttato il popolo ai tempi della sua potenza? Incriminare gli
“ispiratori” o gli “agenti dell’imperialismo occidentale”
vuol dire imitare le peggiori aberrazioni di coloro per i quali si professa
disprezzo, i borghesi del secolo scorso che, incapaci di comprendere il
risentimento delle masse, imputano la rivolta popolare a qualche individuo
satanico.
D’altronde, se la “democrazia socialista”, l’unica
rivoluzionaria, implica il dominio di un partito unico, gli ungheresi si
avviavano verso ciò che i comunisti, a loro massima onta, sono costretti
a chiamare controrivoluzionario, poiché la democrazia, che gli ungheresi
fervidamente auspicavano, per la quale erano pronti a morire, era la democrazia
che tanti nostri intellettuali rinnegano e chiamano “formale”.
Radio Kossuth, statua di Bem, circolo Petöfi, questi nomi ci riportano
al tempo in cui nazione e libertà andavano di pari passo. La nuova
alleanza, conclusa in Ungheria, non è né anacronistica né
accidentale.
Nella Politica, Aristotele, dopo aver comparato i principali regimi, si
dedica ad uno studio delle rivoluzioni che determinano la loro fine. Basta
rompere radicalmente con la rappresentazione unilineare della storia: di
colpo, democrazia borghese e sovietismo cessano di apparire come due momenti
successivi di un movimento, sono due sovrastrutture di una società
industriale. S’indagherà su come muoiono i regimi sovietici
allo stesso modo in cui ci s’interroga sulle modalità di rovesciamento
dei regimi democratici.
Conosciamo tre tipi di rivoluzioni che mettono fine alle democrazie: l’arrivo
al potere di un partito autoritario per via legale, con il favore della
paralisi del Parlamento e grazie all’investitura del capo dello Stato
(avvento di Mussolini e di Hitler); il colpo di Stato, pacifico o sanguinoso
(dal pronunciamento [sic] sudamericano fino alla guerra civile spagnola);
infine, le disfatte militari, l’invasione o la liberazione (Francia
del 1940, Europa orientale). Nessuno dubitava che un regime totalitario
potesse essere anch’esso vittima di una disfatta militare. La deposizione
di Mussolini, quella di Peron provavano che un regime, in sella da lungo
tempo, non era al riparo di un complotto di forze “reazionarie”
o “liberali”, ordito dal legittimo re o da generali ostili.
Ma né il fascismo né il peronismo erano totalitari. Il complotto
del 20 luglio era fallito nel III Reich.
Non si era ancora osservata, in questo secolo, contro uno Stato autoritario,
una rivoluzione popolare che cominciasse con una sommossa e finisse con
la conquista dello Stato. Ebbene, ciò che si è prodotto in
Ungheria, è precisamente una rivoluzione conforme alla leggenda del
Diciannovesimo secolo, che inizia in strada e si conclude al palazzo del
governo, che la lentezza delle autorità e l’impazienza delle
masse spingono in avanti verso un estremismo che nessuno aveva preso in
considerazione al punto di partenza. Ci si ricordi: nel febbraio 1848, in
Francia, l’opposizione dinastica non voleva rovesciare la monarchia
orleanista. Le dimissioni di Guizot, l’allargamento del diritto di
suffragio sarebbero bastate se queste misure fossero state prese in tempo.
Forse anche le dimissioni di Guizot sarebbero potute ancora bastare se alcuni
soldati, sparando accidentalmente, non avessero esasperato la folla. Lo
scenario si riprodusse esattamente in Ungheria, più di un secolo
dopo.
La rivoluzione ungherese era vittoriosa in tutto il paese e non nella sola
capitale, il partito comunista si era disintegrato, i militanti troppo compromessi
nello stalinismo e i membri della polizia politica tentavano di nascondersi:
gli ex comunisti si erano mischiati in massa all’insurrezione, non
difendevano più il potere, condividevano la volontà comune.
Giornalisti e sociologi ripetevano che un popolo non può prevalere
su un regime totalitario: in un certo senso avevano ragione. Ma il regime
ungherese tollerava, da mesi, la libertà di parola, la classe dirigente
aveva perso unità e fiducia in se stessa. La rivoluzione d’Ottobre
è stata preceduta da un fenomeno di detotalitarismo. “La cricca
dirigente”, Rákosi-Gerö, si aggrappava al potere, mentre
la maggior parte dei membri del Politburo voleva di sbarazzarsi di loro
(i più compromessi per salvarsi), la stampa era ridiventata per metà
libera, gli intellettuali criticavano, interrogavano, rivendicavano, come
nei giorni migliori della democrazia occidentale; infine, la maggioranza
dei membri del partito e dell’amministrazione, per ostilità
ai russi, per orrore della vecchia tirannia, parteggiava con gli insorti,
prima ancora che risuonasse il primo sparo.
Una rivoluzione antitotalitaria è possibile come le rivoluzioni contro
la monarchia o l’assolutismo erano possibili nel secolo scorso. Ma
se sono necessarie tutte le circostanze, la cui congiunzione favorì
la rivoluzione ungherese, quante volte si ripeterà un tale incontro
(direzione del partito divisa, militanti del partito ostili, esasperazione
operaia e contadina, unanimità patriottica contro lo straniero, libertà
di parola, rifiuto dell’esercito di combattere gli insorti)? Malgrado
tutto, le due condizioni essenziali – solidarietà profonda
dei militanti del partito con il popolo, rifiuto dei soldati e degli ufficiali
di reprimere l’insurrezione – non sono forse rare in Europa
orientale, forse sono virtualmente realizzate, con la sola presenza dell’armata
rossa a mantenere un’apparenza opposta. Così si scopre il significato
esatto della rivoluzione ungherese: rivoluzione antitotalitaria, certo,
ma rivoluzione contro uno pseudo-totalitarismo. Infatti ci si chiede se
un totalitarismo imposto dall’esterno, percepito come il dominio di
una potenza straniera, è autenticamente totalitario, e se beneficia
di quel minimo di adesione popolare senza il quale le istituzioni sono come
dei gusci vuoti.
III
Molti
occidentali temevano che le giovani generazioni fossero conquistate dal
vangelo di Marx, così come è stato interpretato da Lenin e
Stalin. Oggi questi timori devono essere dissipati. A parte qualche filosofo,
la gente da entrambi i lati della cortina di ferro dà lo stesso senso
alla parola libertà. La libertà non è, per l’uomo
comune, acconsentire alla necessità ma il diritto assieme alla possibilità
materiale di protestare contro coloro che si spacciano per interpreti della
necessità.
Gli operai che hanno conosciuto il sindacalismo occidentale, quelli della
Germania orientale, della Cecoslovacchia e perfino dell’Ungheria,
non possono non riconoscere la differenza tra i sindacati che spingono allo
sforzo, e i sindacati che chiedono salari più elevati o il miglioramento
delle condizioni di lavoro, tra i sindacati che sono dalla parte dei padroni
con il pretesto che il padrone unico è lo Stato socialista, e i sindacati
che sono dalla parte dei lavoratori, perché i padroni sono dei capitalisti.
Gli operai venuti recentemente dalle campagne, che ignorano tutto delle
istituzioni della democrazia borghese, non possono non provare dei sentimenti
paragonabili a quelli dei proletari nei sobborghi delle grandi città
europee, all’inizio del secolo scorso, quando Marx osservava le loro
sofferenze e s’indignava contro l’indifferente ferocia dei capitalisti.
Poco importa che il filosofo, nel suo studio parigino, consideri o meno
la burocrazia come una classe. Il fatto è che la nuova società
comporta grandi differenze di reddito, una minoranza che possiede privilegi
sostanziali, di natura materiale e morale. Il socialismo implica, nella
sua versione staliniana, che invece di vituperare i privilegi come in Occidente,
li si neghi sistematicamente o li si dichiari come espressione della giustizia
o della legge della Storia. Anche se il sociologo o l’economista,
tutto ben considerato, giudicano positivo il bilancio del regime sovietico,
questo non potrebbe suscitare l’entusiasmo di coloro che pagano il
prezzo dell’industrializzazione necessaria. Se il regime succede a
una fase di inflazione e di caos come in Cina, la garanzia della ciotola
di riso diventa un progresso reale, percepito come tale dalla folla. Se
il regime viene dopo una fase di umiliazione nazionale e riscuote successi
esterni, come in Russia e in Cina, il sentimento di costruire l’avvenire,
l’orgoglio della potenza collettiva compensano forse i sacrifici e
le sofferenze. I figli di operai e di contadini che, grazie alla rivoluzione
e all’edificazione socialista, possono studiare ed elevarsi nella
gerarchia sociale, sono riconoscenti al regime dell’opportunità
che ha dato loro.
In Ungheria, anche la minoranza attivista era finalmente esasperata. Perché
gli studenti, molti dei quali venivano da famiglie operaie e contadine,
perché i giovani operai che avevano subito da dieci anni la propaganda
ufficiale, perché gli scrittori e gli artisti, molti dei quali erano
materialmente dei privilegiati, si sono finalmente levati contro il regime?
Tutte le testimonianze mi paiono rendere lo stesso suono, suggerire la stessa
storia. Questi uomini, giovani o vecchi, comunisti o non comunisti, cattolici
o non credenti, ex socialisti o ex nazional-contadini, si sono rivoltati
alle contraddizioni tra le ideologie e la realtà. Questi rivoluzionari
si richiamavano agli ideali del regime che combattevano. Fermiamoci un momento
su questo punto, poiché è decisivo per comprendere la situazione
ungherese e anche per comprendere il nostro tempo.
La dottrina comunista, il marxismo di Marx, quello di Lenin, non apportano
un sistema di valori originale. La visione borghese del mondo e della società
si opponeva alla visione tradizionale della Chiesa cattolica e dell’Ancien
Régime. Il socialismo pretende di realizzare i valori cui si richiama
la borghesia, far partecipare tutti gli uomini ai benefici della scienza
e dell’industria, instaurare un’autentica democrazia, strappare
l’economia alla paralisi capitalista, salvare gli operai dallo sfruttamento
e dalla povertà. Il regno del partito unico fu dapprima giustificato
con la dittatura del proletariato, dunque considerato transitorio; l’ortodossia
intellettuale dello Stato fu introdotta invocando la necessità dell’edificazione
socialista, senza mai abbandonare i principi della scienza o della libertà
intellettuale. La disuguaglianza economica è accettata in quanto
necessaria nella fase del socialismo (a ciascuno secondo le sua opera),
ma i privilegi inutili, quelli che non favoriscono la crescita economica,
restano condannati riguardo alla dottrina.
Le rivendicazioni materiali e morali dell’insurrezione ungherese,
nel corso della prima fase, potevano senza ipocrisia essere presentate come
il ritorno alla verità socialista dopo “il culto della personalità”
e “i crimini della cricca Rákosi”. Il miglioramento delle
condizioni di vita era forse in contraddizione con gli obiettivi scelti
dai pianificatori, con un ritmo d’industrializzazione troppo rapido;
la libertà intellettuale è, di fatto, in contraddizione con
la pratica del regime sovietico sotto Stalin, per certi aspetti sotto Lenin;
l’indipendenza nazionale è certamente in contraddizione con
la realtà dell’impero sovieto-russo: né l’elevamento
del tenore di vita, né la liberazione del pensiero, né l’eguaglianza
delle nazioni sono in contraddizione con l’idea socialista o perfino
la propaganda di Mosca.
Le elezioni libere e la pluralità dei partiti, incompatibili con
il bolscevismo fin dal 1918 (data della dissoluzione da parte di Lenin dell’Assemblea
costituente liberamente eletta), inaccettabili ai dirigenti dell’Unione
sovietica e delle democrazie popolari, non sono in contraddizione con l’idea
ispiratrice e l’obiettivo finale del socialismo. I dottrinari sovietici
pretendono che le elezioni in Occidente non siano libere perché manipolate
dai “monopoli”, talvolta ipotizzano che dopo l’edificazione
del socialismo le elezioni potrebbero essere libere, nel senso occidentale
del termine. Il comunismo pretende di volere una libertà più
reale di quella delle democrazie occidentali, mentre il nazismo voleva eliminare
i “falsi” valori della tradizione giudaico-cristiana.
Questo antagonismo tra teoria e pratica del sovietismo rende ugualmente
intellegibili due evoluzioni tra gli intellettuali del regime, una verso
la rivolta, l’altra verso l’adattamento, con quella miscela
caratteristica di fanatismo, di opportunismo e di cinismo che Milosz ha
descritto ne La mente prigioniera.
La dottrina (o la propaganda) comunista, in parte responsabile della rivolta
contro la pratica sovietica, indicava anche le concezioni che i rivoluzionari
avevano dell’avvenire. Nessuno può dire quale Ungheria gli
ungheresi, sbarazzatisi dell’esercito russo, avrebbero costruito nella
libertà, ma su un punto i capi dei partiti ricostituiti restavano
socialisti: se prendevano in considerazione il mantenimento o la restaurazione
di una certa proprietà privata nell’artigianato, l’agricoltura,
il commercio, non mettevano in discussione la proprietà collettiva
delle fabbriche o l’idea della pianificazione. Gli avversari del totalitarismo
staliniano, dall’altra parte della cortina di ferro, sono acquisiti
all’anticapitalismo. Essi cercano un terzo termine che elimini la
tirannia staliniana senza implicare il ritorno alla proprietà privata
degli strumenti di produzione.
In Ungheria e in Polonia, il comunismo, per la sua ideologia più
ancora che per le sue istituzioni, ha esercitato un’azione profonda
nel senso democratico ed ugualitario. Esso ha liquidato i residui di una
struttura sociale derivante dal feudalesimo, ha fatto apparire evidentemente
auspicabile la riduzione della distanza sociale tra gli individui e le classi.
Nell’accumulare le rovine, la guerra aveva preparato la proletarizzazione
di popoli interi. I comunisti, forse contro i loro stessi desideri, hanno
eretto a ideale l’uguaglianza delle condizioni.
In Polonia e in Ungheria, i comunisti si situavano all’avanguardia
del movimento laico, secolare, razionalista. Per gli staliniani, l’opposizione
alla lunga più temibile non era quella di cui sopra, e neppure quella
della Chiesa cattolica, ma quella degli uomini di sinistra, comunisti o
no, delusi dal contrasto tra la teoria, liberale ed egualitaria, e la pratica,
autoritaria, gerarchica.
Di nuovo, si pone la questione, il caso dell’Ungheria è estremo
o eccezionale? Che sia estremo, non si può dubitarne. Il contrasto
tra teoria e pratica non è dappertutto così clamoroso. Le
masse e le élite non reagiscono ovunque con la stessa violenza, forse
non reagiscono ovunque nella stessa maniera. La minoranza privilegiata che,
in Cecoslovacchia o in Unione Sovietica gode (o godrà da qui a qualche
anno) di condizioni d’esistenza paragonabili a quelle della borghesia
occidentale (qualche libertà in meno) dimentica (o ignora) il divario
tra le speranze della Rivoluzione lontana e la realtà di una gerarchia
amministrativa e di uno Stato autoritario. Le masse scendono (o scenderanno)
a patti con un regime che garantisce loro un impiego e offre (oppure offrirà)
loro, anno più anno meno, un lento aumento dei salari. Non si possono
però eludere due domande. Il richiamarsi ad un millenarismo non costituisce
causa di debolezza per un regime burocratico? Un regime che, di fatto, prolunga
la tradizione del dispotismo orientale, non è forse logorato da una
segreta contraddizione fintantoché pretende di incarnare lo sbocco
del razionalismo occidentale?
Il marxismo-leninismo è una versione, tra le altre, del millenarismo
rivoluzionario. Conquista le folle, convince gli intellettuali nei paesi
che soffrono di povertà, di sfruttamento, che hanno perso fiducia
nelle riforme, nei metodi parlamentari. Dottrina d’opposizione, fermento
di rivolta, il marxismo-leninismo promette lo sviluppo delle forze di produzione,
il progresso morale, l’uguaglianza fra gli Stati, la scomparsa delle
classi, il rispetto dei valori umanistici. Che si giudichino efficaci o
meno i procedimenti di edificazione socialista, un regime scaturito dal
marxismo-leninismo, anche se si spoglia dei tratti patologici dello stalinismo,
ricostituisce le strutture fondamentali del dispotismo orientale, così
come le descrivevano gli autori del secolo XVIII e le analizzano i moderni
sociologi.
Un regime sovietico tende alla concentrazione di tutto il potere, politico
e sociale, nelle mani di una minoranza. La soppressione di ogni proprietà
privata, la distruzione dei partiti, la messa in riga delle Chiese non lasciano
sussistere alcun centro di forze al di fuori dello Stato. Questo segna un
ritorno alla struttura elementare del dispotismo, alla dualità della
massa governata e della gerarchia, simultaneamente sociale, amministrativa,
politica. L’autorità incondizionata appartiene di volta in
volta allo Stato maggiore del partito, ad un solo uomo, di nuovo allo Stato
maggiore. Un tale regime differisce meno dalla tradizione russa che dalla
democrazia occidentale. Sarebbero stati la limitazione del potere statale,
la moltiplicazione dei focolai autonomi di potenza sociale o d’autorità
politica a segnare una rottura radicale col passato. Il bolscevismo fu una
rivoluzione, ma nel senso originale: riportò la società russa,
dopo l’intermezzo della libertà, tra febbraio e novembre 1917,
nella linea del dispotismo.
Forse il popolo russo si sottomette più agevolmente a questo regime
degli altri popoli d’Europa orientale. Non solo perché in Russia
il regime è nazionale, ma perché gli altri popoli d’Europa
orientale erano stati, da secoli, formati dalla civiltà occidentale,
avevano conosciuto la separazione del potere temporale e del potere spirituale,
il movimento dei Lumi, i valori razionali e democratici. Il comunismo seduceva
alcuni intellettuali e rivoluzionari, perché sembrava prolungare
e realizzare le aspirazioni “progressiste”. Il compromesso russo
tra le aspirazioni liberali e la tradizione dispotica è più
estraneo ai polacchi e agli ungheresi che ai russi.
Nella stessa Russia tale compromesso è duraturo? La società
industriale s’inserisce negli ambiti del dispotismo orientale? La
realtà di un regime autoritario e burocratico logora progressivamente
il millenarismo. Il regime può vivere senza essere sostenuto da una
fede. Ma le rivendicazioni delle masse che chiedono maggior benessere, quelle
dei privilegiati che chiedono maggior libertà, l’indisciplina
ideologica degli uni e degli altri non impongono forse, alla lunga, dei
cambiamenti tali da toccare l’essenza del totalitarismo, l’essenza
del dispotismo burocratico?
IV
Gli
interrogativi riguardano l’avvenire. Il presente è altro e
nessuna letteratura deve dissimularne l’orrore. Imre Nagy è
in prigione, János Kàdàr, immagine perfetta del traditore,
traditore di se stesso così come degli altri, sfila nella capitale
come rappresentante della dittatura del proletariato. Arresti ed esecuzioni
continuano. La nazione ungherese è ancora una volta decimata. Essa
ha perso i migliori tra i suoi figli nelle prigioni o in esilio. Il maresciallo
Zhukov, che più di ogni altro fu responsabile della repressione,
sarà ricevuto domani, se lo desidera, dal generale Eisenhower, a
Washington, in tutta cordialità. I capi dei due imperi abbracciano
con lo sguardo la carta dei continenti. Cosa sono dieci milioni di ungheresi
al cospetto di centinaia di milioni di persone che hanno a loro carico?
Qual è il posto stesso dell’intera Europa nei calcoli planetari?
L’Occidente è in qualche modo responsabile della tragedia?
Avrebbe potuto prevenirla? Avrebbe potuto impedire ai russi di schiacciare
la rivolta di un popolo? Ancora una volta, ahimé!, credo si debba
rispondere di no. Coloro che accusano l’Occidente ignorano i fatti
o si crogiolano nella demagogia.
Tralasciamo il ruolo di Radio Free Europe3 e degli “agenti dell’imperialismo
occidentale”4. Torniamo, un istante, sulla coincidenza della spedizione
di Suez con gli avvenimenti d’Ungheria. L’indignazione si disperse
tra l’intervento russo e l’aggressione franco-britannica. Ciascuno
scelse l’oggetto della propria collera. Vi furono coloro che giustificarono
la prima e denunciarono la seconda (i comunisti), quelli che denunciarono
la prima e giustificarono la seconda (i difensori dei governi francese e
inglese), quelli che denunciarono entrambe, gli uni con uguale vigore, gli
altri facendo una differenza. Il primo ministro dell’India era più
ardente contro l’aggressione franco-inglese che contro l’intervento
russo. Gli intellettuali francesi, al di fuori dei comunisti e dei progressisti,
erano in maggior parte più scatenati contro l’intervento russo
che contro l’aggressione franco-inglese. Sebbene ostile alla spedizione
di Suez, appartengo a quest’ultima categoria. Nessuno è emotivamente
“neutro” o “obiettivo”.
Secondo il formalismo della legge internazionale, Francia e Gran Bretagna,
mi pare, erano aggressori. Quale che sia il giudizio giuridico, morale o
politico che si porta sulla nazionalizzazione del canale di Suez, l’atto
del colonnello Nasser non dava alla Francia e alla Gran Bretagna il diritto
di occupare militarmente la zona del canale. La nazionalizzazione durava
da più di tre mesi quando le truppe israeliane varcarono la frontiera
e Parigi e Londra inviarono il loro ultimatum. In quel momento, la Gran
Bretagna e la Francia negoziavano con l’Egitto il futuro status del
canale. Lo scarto tra i negoziatori non era tale da giustificare legalmente
o anche politicamente il ricorso alla forza. Francia e Israele avevano solidi
motivi di lamentela contro l’Egitto e il presidente Nasser. Costui
accumulava le armi e non faceva mistero della sua intenzione di usarle contro
Israele. La ribellione algerina era sostenuta, rifornita d’armi dai
servizi segreti dell’esercito egiziano. Il presidente Nasser aveva
disatteso le regole non scritte del buoncostume diplomatico, non si era
comportato in modo conforme allo spirito della Carta, prima che Francia
e Gran Bretagna ne violassero la lettera. Anche la Gran Bretagna, che aveva
minori motivi di litigio con l’Egitto, poteva pensare che le sue posizioni
nel mar Rosso e nel golfo Persico non avrebbero resistito ad un clamoroso
trionfo del bikbachi, idolo del nazionalismo arabo.
Nondimeno, il signor Nehru e gran parte dell’opinione afroasiatica
erano più sensibili all’aggressione commessa da paesi europei,
colonialisti, contro un paese di civiltà non occidentale, appena
uscito dal giogo imperialista. Quando i bianchi si opprimono a vicenda,
gli indiani sono portati a prendere un atteggiamento neutro, accompagnati
dal disilluso commento: che altro ci si può aspettare dagli europei
(o dai bianchi o dai colonialisti)! Niente di più certo che questo
atteggiamento si combini con un inconscio opportunismo (l’Unione Sovietica
è potente e temibile).
Questa ingiustizia spontanea dell’opinione afroasiatica s’incontra
con un giudizio affatto diverso, rigorosamente politico, dettato, per larga
parte, dalla diplomazia americana. Francia e Gran Bretagna hanno violato
il diritto non scritto delle genti fissato, in ogni epoca, dalle potenze
dominanti. Gli Stati Uniti hanno decretato che, nelle zone contestate, non
si debba ricorrere a eserciti regolari. Non varcare le frontiere diventa,
in questo caso, un principio fondamentale. L’infiltrazione dei feddayn,
l’invio d’armi ai ribelli algerini sono spiacevoli ma fanno
parte dei mezzi correnti della guerra fredda. I raid di rappresaglia israeliani
sono già oggetto di un apprezzamento meno indulgente. L’operazione
del Sinai è giudicata inammissibile. Questo diritto delle genti americane
è, senza alcun dubbio, sfavorevole alle nazioni europee. In un certo
modo equivale a legittimare la guerriglia.
L’Unione Sovietica ha impiegato un esercito regolare, qualche migliaio
di carri armati e decine di migliaia di uomini contro un piccolo popolo
inerme. L’opinione americana ne è stata meno commossa di quella
europea. Dai comunisti non ci si aspettava nient’altro, mentre non
ci si sarebbe mai immaginati che Francia e Gran Bretagna, paesi alleati
e democratici, facessero la figura degli aggressori. Ma queste sono giustificazioni
o razionalizzazioni. La verità è che il diritto non scritto
delle genti dell’età atomica autorizza l’Unione Sovietica
a fare qualunque cosa nella sua zona. L’Ungheria apparteneva, appartiene
ancora a questa zona. Se la spedizione di Suez non avesse avuto luogo, i
russi avrebbero represso comunque la rivoluzione ungherese e l’Occidente
sarebbe restato fermo, ingannando la sua incapacità di agire con
sincere manifestazioni d’indignazione. Coloro, dunque, che denunciano
la passività dell’Occidente, dovrebbero dirci cosa avrebbe
potuto essere fatto. Ebbene, in queste situazioni estreme, l’alternativa
è semplice, brutale: o l’intervento militare, o l’astensione,
camuffata da proteste verbali. Non esiste terzo termine. Chi rifiuta il
secondo senza accettare esplicitamente il primo illude sé stesso,
a meno che non inganni i propri lettori. Si può concepire un terzo
termine: la minaccia d’intervento militare, ma questa minaccia (volontari
o esercito regolare) non verrebbe presa sul serio dall’Unione Sovietica
se non a condizione di essere pienamente assunta dai governanti e dai popoli
d’Occidente. Ebbene, questi non hanno mai preso in considerazione
una guerra contro l’Unione Sovietica per liberare i paesi d’Europa
orientale, non hanno neanche mai voluto correrne il rischio. Ci si risparmi
le facili proposizioni (al condizionale): l’intervento occidentale
non avrebbe comportato la guerra, la minaccia sarebbe bastata. Per salvare
l’Ungheria, gli Stati Uniti avrebbero dovuto correre un rischio di
guerra globale. Non l’hanno corso, neanche gli europei l’avrebbero
corso, se la decisione fosse dipesa da loro. Stati Uniti e Unione Sovietica,
uniti contro la guerra atomica, rispettano vicendevolmente le loro zone
di dominio. Queste zone non sono chiuse alla propaganda del rivale, non
sono aperte agli eserciti.
L’Ungheria non avrebbe potuto essere salvata che dalla ripugnanza
sovietica ad un’azione militare che significava, di per se stessa,
una sconfitta politica. Il corso degli eventi, se non una decisione precedente,
doveva condurre il Presidium ed i capi militari sovietici a preferire il
costo morale della repressione alla disgregazione del loro impero europeo.
Molti comunisti polacchi, le cui simpatie vanno all’Ungheria, mormorano,
in privato, che “i russi non potevano fare altrimenti”. Sul
piano della politica di potenza, può darsi. Ma che dire di una liberazione
che si conclude con questo massacro? Che pensare degli intellettuali occidentali
che hanno acclamato questo regime tirannico per otto anni? Che condannano
la repressione ungherese senza condannare le loro stesse compromissioni
di ieri con i carnefici?
La rivoluzione ungherese, la più pura del nostro tempo5, è
finita in disastro. La rivoluzione polacca, che si è fermata al limite
dell’irreparabile, è stata provvisoriamente tollerata dai dirigenti
russi. In Ungheria, alla repressione è seguita una “reazione”
stalinista.
La lezione che bisogna avere il coraggio di trarre risolutamente è
chiara: è nell’interesse comune dei popoli prigionieri e dell’Occidente
che l’opposizione al comunismo dimori provvisoriamente all’interno
del regime. Poiché l’Occidente non può né vuole
intervenire, poiché l’Unione Sovietica ha i mezzi e la determinazione
necessaria a schiacciare le rivoluzioni, la sola prospettiva – al
di fuori dell’eventuale evacuazione simultanea delle due parti d’Europa
da parte degli eserciti russo e americano – è una trasformazione
della pratica comunista, in Russia e nei paesi satellite. Non sappiamo qual
è il margine delle variazioni che questa pratica comporta. Noi sappiamo
che un regime sovietico non è più invulnerabile di qualunque
altro alle ripercussioni dello sviluppo economico, alle emozioni e ai sogni
degli uomini, alle influenze venute dall’esterno e soprattutto dall’Occidente.
Per giunta, questo regime è colpito da una breccia interna, ignorata
dai dispotismi orientali del passato, è condannato dall’ideologia
cui si richiama.
La rivoluzione ungherese segna una tappa decisiva in questa condanna del
sovietismo da parte dell’idea socialista. I suoi attori sono morti,
esiliati o ridotti all’impotenza: la loro azione sopravvive alla loro
disgrazia, il loro esempio continua a risplendere. La nazione ungherese
si è sacrificata per una causa che la superava, per quanto grande
fosse la causa della libertà di un piccolo popolo. Operai, intellettuali,
studenti, uniti secondo il sogno di Marx, insieme hanno dimostrato che il
regime totalitario, pretendendo di sopprimere le rivalità, legittime
e feconde, degli uomini e delle idee, forgia l’unanimità del
popolo contro l’apparato della tirannia.
Quale che sia l’avvenire, per quanto a lungo si debba aspettare il
giorno in cui gli ungheresi celebreranno la loro rivoluzione d’Ottobre,
esiste una vittoria dei vinti che nessun episodio della storia potrebbe
cancellare. La politica non è la realtà suprema e gli avvenimenti
dipendono anche da un altro tribunale. In termini di saggezza pratica, una
riforma riuscita sarebbe stata preferibile a una rivoluzione schiacciata,
ma il sacrificio dei giusti, il rifiuto della sottomissione, l’acconsentire
alla morte proclamano una verità la cui forza silenziosa, alla lunga,
ha la meglio sulla violenza delle armi e la gloria equivoca dei conquistatori.
La follia degli ungheresi, in rivolta da soli contro un impero onnipotente,
continuerà di secolo in secolo a testimoniare per l’uomo e
a dare fede nel suo destino.
Note
1. Parlo dell’Europa. Accade lo stesso in Cina? In mancanza di conoscenze,
preferisco astenermi da ogni presa di posizione su questo punto.
2. Durante la guerra, a Londra, nulla colpiva di più che il contrasto
tra l’atteggiamento dei cechi e quello dei polacchi nei confronti
dei russi. I primi cercavano la salvezza nelle concessioni e nell’opportunismo,
i secondi nella resistenza. Probabilmente i cechi avrebbero evitato la sovietizzazione
se avessero adottato l’atteggiamento dei polacchi o dei finlandesi.
3. Per quanto io ne sappia, questa radio, che commise delle imprudenze,
non chiamò gli ungheresi a prendere le armi e non promise un aiuto
armato dall’Occidente.
4. Va da sé che i provocatori svolgono un ruolo da una parte e dall’altra,
ma gli “agenti dell’imperialismo” nulla potrebbero contro
un regime socialista poggiante sulla massa del popolo.
5. Che ci siano stati degli eccessi, che i membri della polizia politica
siano stati linciati, nessuno lo nega e i rivoluzionari stessi se ne dolgono.
Ma, come scrive il professor Seton–Watson, il numero delle vittime,
secondo un giornale polacco, ammontava a un’ottantina. Non conviene
a coloro che esaltano gli avvenimenti del 1917 di trarre argomento dalle
vendette popolari, inevitabili e comprensibili quanto deplorevoli.
© Introduzione a Melvin J. Laski e François Bondy, La Révolution
Hongroise – Histoire du Soulèvement d’Octobre d’après
les documents, les dépêches, les rapports des témoins
oculaires et les réactions mondiales réunis pour l’édition
française (Paris, Plon 1957), pp. I - XIV.
Raymond Aron, è stato uno dei maggiori intellettuali europei del
Ventesimo secolo.
(c)
Ideazione.com (2006)
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