La rivolta di Budapest cinquant'anni dopo
di Federigo Argentieri
Ideazione di marzo-aprile 2006

Il saggio di Raymond Aron sulla rivoluzione ungherese, che presentiamo qui di seguito per la prima volta in versione italiana, fu pubblicato nel 1957 come premessa all’edizione francese di un libro unico nel suo genere: La Révolution Hongroise – Histoire du Soulèvement d’Octobre d’après les documents, les dépêches, les rapports des témoins oculaires et les réactions mondiales réunis par Melvin J. Laski et François Bondy pour l’édition française (Paris, Plon 1957), promosso da quel Congresso per la Libertà della Cultura che pubblicava anche le riviste Encounter e Preuves e che aveva da poco varato l’italiana Tempo presente, diretta da Nicola Chiaromonte e Ignazio Silone. Purtroppo tale libro – che è una miniera inesauribile d’informazioni sulla rivoluzione ungherese – non conobbe mai un’edizione italiana, ed è ormai quasi introvabile.
Le riflessioni di Aron, vecchie di quasi mezzo secolo, costituiscono una conferma ulteriore non solo della grande capacità del pensatore liberale francese di comprendere a fondo gli avvenimenti a lui contemporanei, ma anche, a dispetto della prosa impassibile e dello stile distaccato, della sua capacità di provare forti passioni: il suo saggio sulla rivoluzione antitotalitaria contiene punte di lirismo che possono sorprendere soltanto chi non ha dimestichezza con la sua opera (in particolare con le sue Mémoires, pubblicate nel 1983 – anno della sua morte – per i tipi di Julliard). Uscito anche in Ungheria nel 1993, come parte di un’antologia che conteneva anche scritti di Camus, Castoriadis, Fejtö, Lefort, Merleau-Ponty e Sartre, è diventato subito un classico, un punto di riferimento imprescindibile per un pubblico al quale, per un terzo di secolo, era stato negato l’accesso alla propria identità e alla propria storia.
Riletto a cinquant’anni di distanza, questo contributo di Aron effettivamente non ha perso né attualità, né è stato smentito in alcuna sua parte dalle rivelazioni degli archivi. L’analisi del regime sovietico in Europa orientale, le sue possibilità di evoluzione, la contraddizione logorante tra gli obiettivi dichiarati dal comunismo e la sua pratica oppressiva, le differenze tra le varie realtà est europee, i limiti dell’azione occidentale sono stati tutti puntualmente confermati dall’evoluzione successiva, fino all’avvento di Gorbaciov e al crollo del sistema. Vi è però una parte di esso destinata probabilmente a suscitare discussioni: Aron evidenzia in modo inequivocabile il carattere prevalentemente socialista, oltre che democratico, della sollevazione. In questo, egli si affianca ad un altro conservatore, Indro Montanelli, che com’è noto si recò a Budapest come inviato del Corriere della Sera e vi registrò “la morte” non solo del comunismo, ma anche di quello che chiamava “la nostra reazione”. Mentre i partiti comunisti “fratelli” e i loro compagni di strada, pur incontrando notevoli ostacoli al loro interno, farneticavano di “ritorno al fascismo” e applaudivano i carri armati, erano proprio due avversari irriducibili della sinistra a riconoscere che la ribellione ungherese contro il totalitarismo si ispirava prevalentemente a principi socialdemocratici, tanto che le forze politiche e sociali che la guidavano dichiaravano in ogni occasione (anche dopo il secondo intervento sovietico) di non voler recedere dalla riforma agraria e dall’esproprio delle grandi fabbriche.
Naturalmente questo non significa in nessun modo che altre forze fossero assenti o che il loro ruolo non fosse rilevante. Il cardinale József Mindszenty, ad esempio, era destinato a ricoprire un ruolo importante: arrestato alla vigilia di Natale del 1948, vittima di un processo-farsa che aveva causato la scomunica di Pio XII contro il comunismo, aveva trascorso quasi sette anni in carcere prima di essere assegnato al soggiorno obbligato, da dove – durante la rivoluzione – era stato liberato per ordine del governo Nagy. Cosa sarebbe accaduto se non fossero intervenuti i sovietici? I più concordano sul fatto che si sarebbe andati verso la formazione di due alleanze politiche, una di tipo conservatore-democristiano e l’altra di tipo socialdemocratico, ossia verso un normale regime parlamentare: l’Ungheria avrebbe sicuramente mantenuto un sistema di economia mista e una politica estera più simile a quella della Finlandia che a quella dell’Austria, ossia filosovietica. Ma questa eventualità, che Kruscev prese seriamente in considerazione, fu alla fine respinta e si decise di restaurare una variante del regime comunista, approfittando della disponibilità di Kádár: se all’Ungheria fosse stato concesso di uscire dal monopartitismo di tipo moscovita, sarebbe stato complicato evitare una reazione a catena.

Gli archivi ci dicono che i margini di manovra esistevano, sia pure in misura ridotta. Aron rileva, ad esempio, che l’uscita dal Patto di Varsavia fu la conseguenza e non la causa del secondo intervento sovietico: si tratta di un punto non marginale, di notevole importanza per la comprensione di ciò che veramente accadde. Decine e decine di resoconti superficiali di quegli eventi ne ribaltano la successione, asserendo che l’uscita (solitamente definita “irresponsabile”) dal blocco militare causò “inevitabilmente” l’intervento armato. Nulla di più falso. È certamente vero che la conclusione delle trattative sulla neutralità austriaca, avvenuta nella primavera del 1955 e sancita dal ritiro dei quattro eserciti d’occupazione, aveva creato speranze in Ungheria, ed è altrettanto vero che la richiesta di uscire dall’alleanza voluta da Kruscev fu avanzata dagli insorti fin quasi dall’inizio, per la precisione fin dal primo intervento sovietico. Ma il governo Nagy non disperava di poter salvare capra e cavoli: il 30 ottobre 1956, al compiersi della prima settimana rivoluzionaria, il famoso comunicato sovietico sull’uguaglianza e la pari dignità dei partiti comunisti e dei “paesi socialisti” sembrò dargli pienamente ragione. A Mosca, il vertice diviso del pcus si vide arrivare una dopo l’altra una lettera inequivocabile di Togliatti che con tono autorevole e sbrigativo li incitava a schiacciare la reazione, seguita da un’analoga ed ancora più importante richiesta da parte di Mao Zedong: questo era già sufficiente per far pendere la bilancia verso la linea di Molotov, favorevole all’intervento. Come se non bastasse, giunse la notizia dell’attacco anglo-franco-israeliano all’Egitto, che forniva a Kruscev l’alibi propagandistico di cui aveva bisogno: a quel punto la sorte dell’Ungheria era segnata, e Mosca ordinò alle truppe che si stavano ritirando di fare dietrofront. Fu la notizia di questo sviluppo, giunta a Budapest il 1° novembre, che causò la decisione – condivisa anche da Kádár – di uscire dal Patto di Varsavia: una mossa chiaramente disperata, ma certamente non “irresponsabile”.
A proposito della spedizione di Suez, va notato che Aron in questo saggio si definì uno di quegli intellettuali maggiormente indignati dall’invasione dell’Ungheria che dall’attacco a Nasser. Nelle sue Mémoires, però, avrebbe espresso rincrescimento per questa posizione non del tutto equanime (cit., p. 494). Sappiamo dagli archivi che gli Stati Uniti, contrari ad entrambe le azioni, esitarono a prendere una posizione più precisa a favore della neutralità ungherese perché tale posizione era stata proposta in sede onu dalla Francia, che voleva anch’essa distrarre l’attenzione dai propri problemi. È possibile, come affermarono più di vent’anni fa Fehér e Heller in uno studio pubblicato anche in Italia, che una più forte e coerente iniziativa occidentale guidata dagli americani a sostegno di una soluzione pacifica della crisi ungherese avrebbe avuto qualche esito positivo, ma è difficile non dare ragione ad Aron quando afferma che, anche senza l’avventura di Suez, il destino della rivoluzione ungherese era segnato e il suo schiacciamento con la forza sarebbe avvenuto comunque.

Nella sua classica raccolta di scritti dal titolo Uscita di sicurezza, Ignazio Silone asserì che in urss la lotta finale sarebbe stata fra comunisti ed ex comunisti, a significare che l’essenza profondamente contraddittoria del regime era destinata a causare prima o poi una spaccatura: gli eventi del 1991, con il prevalere di Eltsin su un Gorbaciov ancora aggrovigliato nell’ideologia, gli dettero pienamente ragione. Nell’Ungheria del 1956, questa lotta si era svolta ancora al livello di stalinisti e antistalinisti: ognuno di loro era convinto che la propria interpretazione del comunismo fosse l’unica giusta e che gli “altri” fossero dei traditori. Montanelli addirittura parlò dei guf, intendendo che la fonte principale della ribellione provenisse non solo dall’interno del regime, ma dalla sua élite politica più esclusiva. L’analisi di Aron è pienamente in sintonia con tutto ciò, che da parte ungherese fu sottolineato negli scritti coevi di István Bibó, il quale vedeva proprio in questa contraddizione la differenza principale tra nazismo e fascismo da una parte e comunismo dall’altra: quest’ultimo, in parole povere, almeno nella versione europea conteneva in sé i germi della propria distruzione. Aron giustamente mette in guardia contro l’applicazione di questo principio a paesi come la Cina, alla quale si potrebbero aggiungere Cuba e la Corea del Nord: la lunga sopravvivenza di tutti e tre i regimi al crollo dell’urss prova che la contraddizione di cui sopra, che Aron definisce come quella tra la tradizione dispotica orientale e la tradizione del razionalismo illuministico, non può essere applicata meccanicamente a realtà molto diverse. Anche la rivoluzione antitotalitaria ungherese del 1956 è stata un fenomeno prettamente europeo, che ha aperto la strada alla riunificazione del continente diviso dalla guerra: ma il suo valore, consistente sia nella dimostrazione di temerarietà che nell’aver ottenuto una vittoria a lungo termine, è di certo universale e non si può escludere che, un giorno, possa indicare la strada della libertà anche a popoli molto lontani.


Federigo Argentieri, giornalista, docente presso la John Cabot University di Roma.

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