Non ha avuto del
tutto torto il segretario della Difesa americano Donald Rumsfield quando ha
parlato, a proposito della linea pacifista dell’asse franco-tedesco, di
“vecchia Europa”, implicitamente pronosticando il suo superamento da parte
di una “nuova Europa”. La nuova Europa si è già manifestata con l’adesione
al Club degli Otto di altri dieci tra Stati candidati e aspiranti
all’ingresso. Il tentativo di Parigi e Berlino di imporre la propia
leadership all’Unione europea in contrapposizione agli Stati Uniti ha avuto
un doppio effetto negativo incrinando nel contempo la solidarietà atlantica
e la solidarietà europea. Indipendentemente da ogni doverosa ricucitura si
apre nell’ambito isituzionale europeo una nuova fase in cui, a differenza
del passato, l’equilibrio interno europeo non sarà più condizionato da
un’egemonia quasi esclusiva franco-tedesca, dal timore reverenziale
dimostrato per lungo tempo dagli altri membri dell’Unione europea di fronte
alle decisioni di Parigi e di Berlino.
Questo non significa negare l’importanza positiva per l’Europa di
un’alleanza tra le due potenze che si erano contese aspramente il dominio
del continente. E non si può non apprezzare il fatto che questa alleanza si
sia mantenuta nonostante la presenza alla testa dei due Paesi di personaggi
ideologicamente e caratterialmente in posizioni diverse da de Gaulle ed
Adenauer a Giscard e Brandt, a Mitterrand e Kohl, fino all’attuale binomio
tra il conservatore gollista Chirac e il socialdemocratico Schröder. Anzi,
il legame si è ancora più rafforzato dimostrando il suo fondamento
geo-politico, ossia la sua rispondenza agli interessi nazionali francesi e
tedeschi e in ultima analisi, in assenza di alternative realistiche,
all’interesse generale europeo. E’ giusto, pertanto, ora che si è giunti
vicino al capolinea sottolineare i meriti di quello che è stato durante
trent’anni di vita europea il “consolato” franco-tedesco e i demeriti di
coloro che, non comprendendone la portata, a suo tempo decisiva,
nell’evoluzione dell’impianto comunitario, fecero di tutto, come l’Italia,
per contrastarlo in nome di un federalismo massimalista, costantemente
smentito nei percorsi effettivamente prescelti.
Conviene per evitare nuovi errori ricordare la storia cominciando dal
principio. Tornato al potere nel 1958, un anno appena dopo la firma del
trattato di Roma, il generale de Gaulle comprese che nell’Europa dei Sei i
tre membri minori, l’Olanda, il Belgio e il Lussemburgo, si sarebbero
serviti delle istituzioni comunitarie per esercitare sui loro indirizzi
un’influenza superiore a quella corrispondente al proprio peso politico,
economico, demografico, donde l’esigenza di promuovere con le potenze più
grandi un circuito privilegiato capace di controllare vuoi l’evoluzione
della Comunità vuoi i suoi rapporti con l’esterno. A tal fine venne
realizzato un primo approccio, subito raccolto, con la Germania di Adenauer
e un secondo approccio con l’Italia. In effetti nell’ottobre del 1962, il
ministro degli Esteri francese Couve de Murville, in visita a Roma offrirà
all’Italia di stipulare un accordo politico analogo al trattato che sarà
firmato con la Germania qualche settimana dopo, il 22 gennaio 1963.
La mancata adesione italiana, come ricorderà in seguito Couve, bloccherà la
nascita di un’autentica cooperazione politica europea, dal momento che
questa richiedeva la leadership congiunta delle tre maggiori potenze della
Comunità dei Sei. Tuttavia l’asse Parigi-Bonn, se non riuscirà a imporre a
Bruxelles una linea politica, ne condizionerà il lento e faticoso itinerario
istituzionale. I partner più piccoli, con un’abile infiltrazione
amministrativa nei gangli organizzativi comunitari, si creeranno nicchie
mercantili privilegiate (basti pensare alla quota latte dell’Olanda).
L’Italia, invece, non ci guadagnerà nulla; anzi come osserverà un economista
inglese Andrew Shonfield nel 1972, al contrario dei membri minori,
eserciterà sulle decisioni della Comunità un’influenza assai inferiore al
suo peso specifico. Finirà insomma per seguire incespicando e brontolando il
passo dell’asse Parigi-Bonn e pagando le spese delle concessioni pratiche e
lucrose ottenute dai paesi del Nord. Né servirà a migliorare la posizione
italiana lo strenuo appoggio all’ingresso nella Comunità dell’Inghilterra e
successivamente quello offerto all’ingresso della Spagna. Al contrario i
nuovi membri rafforzeranno l’asse Parigi-Bonn. L’Inghilterra se la caverà
con un abilissimo doppio gioco tra gli Stati Uniti e il duetto
franco-tedesco. La Spagna del socialista Gonzalez si subordinerà alla
Francia di Mitterrand.
La fine della Guerra Fredda e l’inizio dell’era della globalizzazione hanno
completamente rimescolato l’assetto europeo, rivalutando – è vero – il ruolo
geo-politico della Germania, ormai unificata, ma anche quello dell’Italia
come paese centrale sia nei rapporti Est-Ovest, sia nei rapporti Nord-Sud.
Il rapporto tra Parigi e Bonn, basato al tempo della Guerra Fredda nella
complementarietà tra l’apporto militare della Francia e l’apporto economico
della Germania, si è trovato di fronte alle necessità di aggiornare una
formula superata: la potenza militare francese serve al massimo per
operazioni di polizia paracoloniali, mentre alla potenza economica tedesca
si è agganciato, con il ricupero della parte orientale, la palla al piede di
un’economia arretrata e depressa. Inoltre l’asse franco-tedesco non è
riuscito a gestire il dopo Guerra Fredda europeo, nonostante lo spazio
concessogli dagli Stati Uniti, che durante la tensione Est-Ovest avevano
tutelato l’Europa con il loro ombrello militare senza interferire sul suo
assetto interno, anzi incoraggiando la sua integrazione come fattore di
coesione e di sicurezza.
Paradossalmente le carenze della leadership franco-tedesca, rivelate in
pieno dall’impotenza diplomatica e militare dell’Europa davanti alle guerre
di secessioni balcaniche, hanno restituito un ruolo europeo agli Stati Uniti
e perfino alla Russia. L’asse Washington-Mosca si è dimostrato per la pace
europea un miglior catalizzatore dell’asse Parigi-Berlino. Ad esso più che
all’Onu, messa totalmente da parte, più che alle bombe su Belgrado, si deve
la fine della guerra del Kosovo. Grazie al suo intervento militare, gli
Stati Uniti e, grazie alla sua mediazione, la Russia hanno guadagnato il
diritto di cittadinanza in Europa. Non basta: l’asse Parigi-Bonn (poi
Berlino), ha rivelato un’incapacità analoga anche in campo economico e
finanziario. Lo dimostra un patto di stabilità escogitato come una trappola
per una presumibilmente scriteriata Italia, ma poi scattata proprio sui
piedi della Francia e della Germania. Del resto nessuno osa supporre che la
ripresa dell’economia europea, la nuova partenza dello sviluppo europeo
possa partire da Francoforte o da Bruxelles invece che da New York. A questo
punto, in uno scenario in movimento, allo stato fluido, l’asse
franco-tedesco rimane fine a se stesso, con scarse possibilità di ottenere
la delega degli altri soci europei. Lo riconosce l’ex ambasciatore francese
a Roma, Gilles Martinet, che, dopo aver evocato l’irritazione degli ambienti
italiani per l’ “egemonismo” franco-tedesco aggiunge: “ciò nonostante era
allora possibile fare ammettere automaticamente l’accettazione delle
proposte franco-tedesche, oggi questo non vale più”. Per quanto riguarda
l’Italia se c’è stato un errore 40 anni fa a ricacciare l’inserimento
nell’asse franco-tedesco oggi l’errore sarebbe continuare ad accettarlo
supinamente.
In effetti il problema dell’Iraq è diventato l’ora della verità per la
“vecchia Europa” e la cartina di tornasole della “nuova Europa”. Sotto l’ala
di Parigi e Berlino è rimasto il Belgio. Il gruppo dei neutrali perpetui –
Irlanda, Finlandia, Austria e Svezia – continua ad essere un peso morto per
tutti, mentre si delinea un quadrilatero Gran Bretagna – Spagna – Italia –
Polonia che con l’appoggio di Portogallo e Danimarca e di altri dodici Paesi
candidati finirà per imporre una nuova visione dei rapporti euro-atlantici,
a cominciare dalla revisione formale del rapporto Nato-Unione europea.
Sarebbe infatti il caso di accorgersi che le due istituzioni sono
strettamente collegate e che dopo il fallimento della Ced, la Nato, ossia
l’esercito atlantico è stato l’unico esercito dell’Europa, l’unico strumento
difensivo dei paesi europei contro l’Est ieri ed oggi contro ogni possibile
minaccia.
Il dilemma americanismo–antiamericanismo è in fondo un puro esercizio di
bizantinismo. Non si tratta per ogni paese europeo di essere più americano o
meno americano degli altri. Non si tratta di fare un piacere o un dispiacere
a Bush. Sono in gioco interessi nazionali precisi. Un Medio Oriente in mano
a tirannie spietate, che scherzano con armi pericolose vicino ai pozzi di
petrolio, va riportato dentro un sistema che ne assicuri la stabilità
politica e sociale. La spirale conflittuale, avviata più di mezzo secolo fa
dalla mancata accettazione da parte dei paesi arabi vicini dello Stato
d’Israele, non può durare ancora a lungo all’epoca del terrorismo
fondamentalista senza saldarsi con quest’ultimo portando la guerra
all’interno dell’Occidente. E’ giunto, dunque, il momento di incoraggiare la
trasformazione politica interna del Medio Oriente su basi moderne e
rappresentative.
Per l’Italia questa è egualmente l’occasione per ricuperare la posizione
storica avuta a suo tempo nel Levante e perduta nel corso della prima metà
del Novecento. I buoni rapporti stabiliti con Israele e la Turchia
costituiscono delle premesse favorevoli in questo senso. Ed un contributo
italiano articolato più sulla ricostruzione dell’Iraq che su una
partecipazione diretta alle operazioni militari rispecchia un atteggiamento
saggio e lungimirante. L’Italia si trova così al centro di una strategia
destinata a valorizzare al massimo il suo potenziale geo-politico, senza
rinnegare in alcun modo le scelte del passato anzi continuando nel solco
delle due scelte fondamentali, quella atlantica e quella europea, che non
possono essere disgiunte ma vanno semmai arricchite da nuovi spunti. Gli
eventi confermano, insomma, la piena validità di una dottrina italiana di
politica estera imperniata sempre nella costruzione di un’Europa più estesa
e più organica, ma con un valido e robusto supporto esterno, gli Stati
Uniti.
(c) Ideazione.com (2006)
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